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Traduzione e poesia: le due anime di Patrizia Valduga

In occasione del ciclo di Seminari La rappresentazione dell’intimità. Forme e censura, organizzato dai Professori Silvia Lorusso, Teresa Lussone e Michele Sollecito, presso il Dipartimento di Ricerca e Innovazione Umanistica dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, l’Ateneo barese ha avuto l’onore di ospitare Patrizia Valduga, una delle voci femminili più insigni della poesia italiana contemporanea. Dopo l’esordio nel 1982 con Medicamenta, raccolta che le è valsa il premio Viareggio, Cento Quartine (1997), Requiem (2002) e il Il libro delle Laudi (2012) sono solo alcune tra le tante prove della sua intensa e prolifica attività poetica. Una vocazione, quella per la poesia, a cui Valduga ha sempre affiancato una raffinata attività di traduttrice, non solo di versi (ha tradotto, tra gli altri, Mallarmé, Valéry, Ronsard), ma anche di prosa e teatro.

Cappello, veletta nera, abito scuro, stile d’altri tempi, ha incantato il pubblico dell’Alliance française e conquistato gli studenti dell’Ateneo barese nel corso di due incontri, dedicati alla traduzione e alla poesia, tenutisi rispettivamente il 6 e il 7 novembre scorsi. A dialogare con lei Francesco Fiorentino, Professore Emerito dell’Università di Bari, che ha raccontato di averla incontrata ai tempi della sua formazione universitaria, quando la poetessa frequentava i corsi di Francesco Orlando all’Università Ca’ Foscari di Venezia, e di essere stato suo correlatore di tesi. Un’amicizia più che decennale, dunque, che ha varcato le soglie delle aule universitarie, protraendosi nel tempo, quando Valduga è diventata la compagna di Giovanni Raboni.

A questa illustre voce della poesia italiana del secondo Novecento, infatti, è stata legata da una lunga e profonda relazione d’amore, che ancora rievoca con nostalgia e commozione, ma pure dall’amore per le arti, la poesia e la traduzione (grande traduttore, infatti, è stato anche Raboni, specie di Baudelaire).

In questo clima di familiarità e amicizia, in occasione del primo incontro si è discusso del rapporto di Valduga con l’attività di traduzione, un lavoro a cui dice di tenere particolarmente e nel quale crede di eccellere: «Come poetessa sono un epigono… so bene chi sono i grandi, ha detto, ma come traduttrice sono la migliore!». Ma cosa vuol dire tradurre per Valduga? «Significa dare una voce»: il compito del traduttore, infatti, è quello di «mettersi al servizio del testo con grande umiltà, dedizione e attenzione». Ha ricordato le difficoltà riscontrate quando si è dovuta cimentare con la sua prima prova di traduzione in prosa, l’Avaro di Molière, tanto da dover ricorrere al consiglio di Raboni: al tempo più esperto di lei, questi si limitò a suggerirle di fare ciò che le era più congeniale, ovvero, tradurre la prosa come se si trattasse di versi. «E così mi misi a contare le sillabe», ha raccontato, poiché la traduzione in versi è sempre stata la sua prediletta. Per tradurre i poeti, però, per Valduga «non si può fare un lavoro di routine, normale. Bisogna avere uno stato d’animo adatto, come quando si scrive per sé». Lo stato d’animo a cui allude è una condizione di predisposizione all’attività creativa, una sorta di stato di grazia, che definisce, mutuando il linguaggio della fisica, “punto di sella”, un punto «tra ebrezza e sobrietà», uno stato in cui «non ci sono le angosce. È esattamente come quando si è innamorati. Ci si sente forti e invincibili, non si ha più paura di niente… In quel punto lì, tutto si accorda. Dovrebbe darci quella gioia ogni fruizione di un’opera d’arte». È per questo che, alla domanda del Professor Fiorentino, che le ha chiesto quale traduzione le avesse dato più pena, ha risposto che persino il lavoro più complesso non le ha mai comportato realmente una sofferenza, poiché fino alla fine «si arriva a una soluzione che ti soddisfa, a una gioia. Anche Pound mi ha dato gioia, benché sia stato complicato. Richiede più tempo, ma non è mai terribile. Se [tradurre] fosse una sofferenza non lo farei». Gioia e piacere devono porsi a monte e a valle di ogni processo creativo. Facendo propria la lezione di Proust, ritiene che l’unica prova dell’unicità di un testo stia proprio nella gioia dell’autore che la crea e poi del lettore che ne fruisce. Un messaggio, questo, che ha voluto consegnare ai giovani studenti dei corsi di Lettere e Filologia moderna, in occasione del secondo incontro, dedicato interamente al tema della poesia: «se la lettura di un testo ci dà piacere, vuol dire che abbiamo di fronte un grande». Ma chi sono i grandi per Patrizia Valduga? Porta, Belli, Prati, Tommaseo e Monti, insieme al più noto e letto Pascoli, sono per lei i veri maestri della lirica, della metrica e della forma della lingua italiana, monumenti della nostra tradizione poetica, purtroppo perlopiù dimenticati, perché fuori dai canoni letterari ed estromessi dai programmi scolastici. Per dare prova della loro grandezza, completamente assorta, ne ha recitato alcuni versi di fronte a una platea ammutolita di studenti, rapiti dalla sua passione, ipnotizzati dal suo fascino magnetico e increduli di fronte alla sua disinvoltura nel declamare interi poemetti a memoria. La poesia per Valduga, infatti, ha anche un valore terapeutico, è una medicina: «deve dare piacere. Il piacere dei sensi fa bene anche ai problemi mentali e il piacere di una successione di suoni e ritmi è un piacere sessuale». È per questo, e non solo per passione, che nel tempo ha preso l’abitudine di imparare a memoria migliaia di versi poetici che nei momenti più bui recita come forma di conforto, come un antidoto contro questi tempi bui, «tempi tremendi, in cui vediamo tantissime immagini di morte», in cui vige un esibizionismo sfrenato, che conduce persino a una spettacolarizzazione della sofferenza. Contro l’omologazione e l’appiattimento del pensiero che regnano nel mondo contemporaneo e nell’era dei social, infine, ha concluso lanciando ai ragazzi un messaggio di anticonformismo, un invito, sia nella vita che in letteratura, a custodire una forma di pensiero critico: «mettete sempre tutto in dubbio, non credete ai canoni, fate esercizio. State più con gli autori che con i critici. Siete voi che dovete cambiare il mondo!».

Luciana Diciolla (luciana.diciolla@uniba.it) – Fulvia Palmentura (fulvia.palmentura@uniba.it)

[l’articolo è frutto della collaborazione tra Luciana Diciolla e Fulvia Palmentura]

 

 

 

L'autore

Luciana Diciolla
Luciana Diciolla è nata a Bari il 13 settembre 1995. Nel 2023 ha conseguito una laurea in Filologia moderna presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” con una tesi in Letteratura francese dal titolo “Il personaggio di Rastignac nella Comédie humaine”. Attualmente frequenta il secondo anno del Corso di Dottorato in Lettere, Lingue, Arti e lavora a un progetto di ricerca in Letteratura francese dal titolo “La presenza della Puglia nella cultura francese dell’Ottocento e del Novecento”.