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«Quando compongo poesie, compongo musica»

Se mi conosci… è la decima raccolta poetica di Vincenzo Mastropirro, affermato musicista ruvese, che ha ottenuto il secondo posto ex aequo nel concorso Faraexcelsior 2024. Mastropirro studia flauto traverso e si diploma al Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari nel 1983. Il suo talento e la sua passione per la musica gli permetteranno di accedere al panorama nazionale e internazionale ottenendo, negli anni a seguire, molteplici riconoscimenti in Italia e all’estero (tra cui Egitto, Francia, Romania, Austria, India e Inghilterra). A partire dagli anni 90, Vincenzo Mastropirro collabora con poeti di altissimo calibro, tra cui Alda Merini, Vittorino Curci e Anna Maria Farabbi, al fine di musicare i loro versi. Ed è proprio a partire da queste collaborazioni che nascerà nell’autore la volontà di trasformare la sua musica in parole, o meglio in poesia. Nasce così il suo neologismo poemusico, termine che unisce le sue due vocazioni di poeta e musicista. Mastropirro esordisce nel 2007 con Nudosceno. La natura “bilingue” dell’autore è di incredibile rilevanza nella sua poetica: il nobile obiettivo che si pone è di dare una forma scritta a un idioma che, per natura, viene trasmesso nell’oralità. Si concretizza dunque il tentativo di trasformare in poesia la lingua utilizzata nella comunicazione informale.

Come la poesia e come la musica, anche il dialetto ha un suo ritmo, una sua musicalità, una sua melodia intrinseci e indissolubili che fungono da sottofondo nelle raccolte di Mastropirro. Il ruvese quindi ricopre un ruolo centrale, anche in casi come quello di Se mi conosci…, in cui il suo uso è in realtà piuttosto limitato. Si tratta, solo apparentemente, di una contraddizione, che trova però una sua giustificazione pienamente poetica e a un tempo biografica. Se mi conosci… viene pubblicata, infatti, nel settembre 2024, dopo quattro anni di silenzio, passati accanto alla madre fiaccata da una malattia che la condurrà alla morte.: il ruvese è stato per Mastropirro l’unica lingua che la madre parlasse. Qui sorge il dubbio sul motivo per cui Vincenzo Mastropirro, proprio nella raccolta dedicata alla  figura materna che comprendeva poco l’italiano, abbia scelto di non comporre la maggior parte delle sue poesie in dialetto. Il poemusico utilizza nei versi un linguaggio distante dalla comprensione razionale della madre ma estremamente vicino alla sua sfera emotiva. Le espressioni, i termini, le figure retoriche utilizzati nei versi emergono con leggerezza e con riguardo rispetto tematiche estremamente crude e dolorose che toccano inevitabilmente il lettore. La preziosità di quest’opera risiede nella capacità del poeta di condividere una parte della propria vita senza concentrarsi esclusivamente su di sé, riuscendo a toccare, in un modo o nell’altro, l’esperienza di ciascuno. I componimenti in Se mi conosci… sono disposti secondo un percorso attento e curato che segue l’elaborazione del lutto da parte dell’autore.

L’opera si apre con una prima sezione di poesie intimistiche in cui prevale il ricordo affettuoso della perduta quotidianità condivisa con la madre misto a una profonda frustrazione. Immergendosi nella lettura, ci si pone il quesito su chi sia rivolto questo sconforto, e la risposta non tarda ad arrivare. Si palesa, senza mezzi termini, il conflitto interiore che il poeta vive nei confronti della religione. È innegabile, infatti, che l’autore faccia trasparire, attraverso le sue parole, una disillusa speranza che esista un essere superiore buono pronto a salvare il genere umano. D’altro canto, però, Mastropirro palesa un convinto scetticismo dell’esistenza di un Dio, come testimoniano molte: si veda per esempio la poesia Prèghìr-allammìérse che in ruvese significa “preghiere al contrario”. Mastropirro in questi versi esplica l’inutilità delle preghiere rivolte a un Dio che dovrebbe alleviare il dolore di chi soffre.
Ma  – afferma l’autore – una persona in preda alla pena non chiederà salvezza, bensì morte.

[…] Vè bbune ad-acchessèje. È nu sciuche
pu’ rìéste, scèsse-cume-scìésse, peccè,
o cu re prèghire o sènza prèghire,
la soffèrìénze è assè e ci patìsce addavère,
nan vole u aiute de nescìune, vole assalìute merèje.

[Va bene così. È un gioco/ per il resto, andasse come andasse, perché, / o con le preghiere o senza preghiere, / la sofferenza è assai e chi patisce davvero, / non vuole l’aiuto di nessuno, vuole solo morire.]

Nonostante la totale sfiducia, il modo di pensare dell’autore è stato inevitabilmente condizionato dalla profonda fede della madre. Nella poesia u trugne, Mastropirro parla del salvadanaio come se fosse un contenitore in cui porre, invece del denaro, ciò che non si sa mettere più:

Tenàje nu trugne chjèine de bbène
e mamme me disse: Vengì,
nau sì rembìénne cure trugne
tinue sìémbe cu taiche e mitte ìnde
chère ca nan se sope mìétte cchjue

[Avevo un salvadanaio pieno d’amore / e mamma mi disse: Vincè / non lo rompere quel salvadanaio / tienilo sempre con te e metti dentro / ciò che non si sa mettere più//]

Ci si allontana dalla concezione materialistica che assume l’oggetto, giungendo all’idea che il salvadanaio sia protezione di un essenziale invisibile, di insegnamenti che vanno accuratamente tutelati. Mastropirro stesso afferma che sua madre è stata la referente etica dei tre principi che guidano il suo modo di porsi e di agire: l’amore e la lealtà verso gli altri, uniti all’assenza di ipocrisia. Dunque, nonostante il poeta esterni la sua diffidenza nei confronti di Dio, i suoi ideali coincidono con i fondamenti della religione cattolica. Nella parte centrale dell’opera si susseguono diversi componimenti, ciascuno dedicato alla figura di un familiare o di un amico. Nelle poesie che si collocano in questa sezione, si affronta il concetto di rifugio inteso come luogo ideale protetto e sicuro.
Attraverso le parole di Mastropirro emerge l’importanza del ruolo che la famiglia ricopre come punto di riferimento incrollabile, riportando numerosi esempi del suo “nido”. Il più significativo è senz’altro la poesia dedicata al figlio Michele: 

Venisti al mondo
per vedermi piangere.
Lo feci accanto a tua madre
che ci coccolava con gli occhi.
Suonai per te tutta la mia musica
e urlai al mondo la tua bellezza.
Immaginai la tua vita in un concerto
dove le note scalavano il tempo.
È lo stesso tempo che vivrai
nel ritmo assordante della vita.
Non sbagliare mai una cosa però
accantona i sogni sullo scaffale più in alto
e ogni tanto ricordati di salire sulla scala.
Nascosto tra i tanti spartiti impolverati
troverai l’amore che ti ha serbato tuo padre.

L’autore non si limita a osservare la sua famiglia ma volge lo sguardo ben oltre, lanciando una profonda critica alla società moderna. Si sentono fin troppe storie – dice Mastropirro – di violenze, abusi e crimini consumate tra quelle mura che dovrebbero proteggere, piuttosto che uccidere chi si dice di amare. I legami di sangue, dunque, vengono meno e si sposta l’attenzione su un altro “rifugio”, un rifugio che non si accetta, in quanto vincolato dalla parentela, ma che si crea grazie all’affetto rivolto ad amici e amiche. Per conferire una ciclicità alla sezione delle dediche, l’autore seleziona, come ultimo componimento, una poesia dedicata a una coppia di novelli sposi. Il matrimonio, emblema dell’amore per antonomasia, non è che l’unione di due persone che scelgono di essere famiglia, unendo così ambo i significati che Mastropirro conferisce al termine “rifugio”.

L’opera si conclude con una sezione in cui il poeta rivolge tutta la sua attenzione verso tematiche esistenziali, attingendo alla propria esperienza per proiettarle in un contesto universale. Si affronta il dramma di chi vive di rimpianti, di chi non ha avuto cuore o coraggio per cogliere le occasioni che la vita ha proposto loro (“[…] ho toccato l’orizzonte con le mani / ho sognato ho solo sognato sul mio divano), come anche affronta la difficoltà di chi combatte ogni giorno contro la desolazione della propria mente e la depressione. Il poeta, attraverso un’empatia commovente, ricorda a colui che lotta contro un nemico apparentemente invisibile di non essere terrorizzato, vivere è bellissimo. Solo l’uomo, come unico animale che dispone del linguaggio, può comunicare, il che lo rende soggetto al libero arbitrio su come utilizzarlo. Il poeta sottolinea la forza distruttrice della parola che umilia e uccide senza colpi in canna se utilizzata e sfruttata da chi inganna e odia. Mastropirro si sofferma sulla bellezza e l’importanza vitale dei ricordi come fondamentale mezzo per riportare alla luce un tempo passato. L’autore esplora la consapevolezza di un legame che sopravvive al passato e alla morte, rivelando come la figura materna (e non solo) continui a vivere nella memoria.

La lettura di Se mi conosci… è dunque un viaggio attraverso il cuore e l’animo sensibile di un essere umano, un uomo e un figlio addolorato che trasforma il suo tormento in arte attraverso la musicalità dei suoi versi.

cecilia.taburchi@studenti.unipg.it

 

 

L'autore

Cecilia Taburchi
Nata a Perugia il 7 luglio 2000, è studentessa di Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Perugia.