Questo mio intervento è un ulteriore capitoletto di quel «dantismo carsico» che da tempo vado rintracciando (per farlo emergere) nei testi degli scrittori e dei poeti del nostro Novecento. Il romanzo Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia fu pubblicato presso Einaudi nel 1961, e fece immediatamente scandalo, perché, per la prima volta, uno scrittore, in un romanzo a diffusione nazionale, scriveva di mafia (tra delitti e malaffare, tra compromissioni politiche – locali e nazionali – e degrado morale), in anni in cui, cioè, le istituzioni (sia quelle laiche, che quelle religiose), i giornali, gli uomini perbene, la società intera, insomma, ne negavano finanche l’esistenza. La dimensione propria del dantismo di Sciascia, credo, che si possa riassumere nel concetto di «ignavia», l’indifferenza, l’omertà, il guardare dall’altra parte. Tutta l’opera narrativa (compresa quella saggistica, fiction no-fiction, dalla Scomparsa di Majorana, all’Affaire Moro) è attraversata dal monito all’impegno attivo, all’esercizio di quella che oggi chiamiamo cittadinanza attiva e responsabile, a non girare (più) la testa dall’altro lato, ma, al contrario, a rimboccarci le maniche per dare un contributo, affinché il mondo cambi, il nostro mondo, non quello degli altri, a cominciare dal mondo di contatto quotidiano (dal condominio, dal quartiere, dal paese, dalla città, dalla regione, dalla nazione…). L’«ignavia», come colpa, non è contemplata né dall’etica classica, né da quella cristiana, cattolica, perché, in fondo, costoro, in vita, non hanno fatto del male, ma nemmeno del bene. Dante, invece, nel III canto dell’Inferno, li erge a simbolo del degrado morale dell’umanità, proprio perché vissero «sanza ‘nfamia e sanza lodo», senza meriti e senza demeriti, peccando, sentenzia Dante, di viltà, inglobando tra costoro finanche quegli angeli che non si schierarono né con gli arcangeli, in difesa di Dio, né con Lucifero, nella sua ribellione a Dio, ma restarono neutrali («per sé fuoro»). Siamo ancora al di fuori dell’Inferno vero e proprio, e Dante, che nutre profondo disprezzo per questi «quaquaraquà», li colloca, per legge di contrappasso, in questa terra di nessuno, al di qua dell’Acheronte, nudi e tormentati da vespe, mosconi e orrendi vermi, impegnati in una insensata ed eterna corsa dietro un’insegna priva di significato. Ciò facendo, Dante, vuol dire a ciascuno di noi, che la vita autentica comporta la scelta, lo stare da una parte, e non, al contrario, restare indifferenti dinanzi agli orrori del mondo.
Ecco il brano, tratto da Il giorno della civetta, nel quale il padrino mafioso Mariano esprime il suo rispetto per il protagonista del romanzo, il capitano Bellodi, suo antagonista, esponendo una personalissima tassonomia dell’umanità (divenuta celeberrima):
«Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini. E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi. E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre. Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo.»
I «quaquaraquà» e la «lagnusìa» in quanto manifestazioni di tutto ciò «che rende l’uomo men atto all’adempimento pur dei sociali doveri»; dunque, una gravissima colpa. In Dante, e in Sciascia. L’espressione (di profondo disprezzo), che pronuncia don Mariano, «come le anatre nelle pozzanghere», con riferimento, appunto, ai quaquaraquà, rinvia a un’immagine dantesca (di analogo disprezzo), contenuta nel canto XXII dell’Inferno, lì dove, cioè, Dante traccia l’immagine dell’anatra che si tuffa di botto nell’acqua, sfuggendo alla presa del falco, ai versi 130-32:
non altrimenti l’anitra di botto,
quando ‘l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
ed ei ritorna su crucciato e rotto.
Pubblicato nel 1984, Occhio di capra è la più compiuta testimonianza dell’attenzione di Sciascia per la cultura popolare, attraverso i vocaboli e i modi di dire del siciliano (con focus su Racalmuto, il suo paese / universo). La lingua, il dialetto come chiave per entrare nel modo di pensare della civiltà contadina:
Isola nell’isola, come ogni paese siciliano di mare o di montagna, di desolata pianura o di amena collina, la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto, in provincia di Agrigento […]. A Racalmuto (Rahal-maut, villaggio morto, per gli arabi: e pare gli abbiano dato questo nome perché lo trovarono desolato da una pestilenza) sono nato […] e mai me ne sono distaccato, anche se per periodi più o meno lunghi (lunghi non più di tre mesi) ne sono stato lontano […].
Nelle spiegazioni alle singole voci di questa antologia, Sciascia ricostruisce (o inventa) micro-racconti, tra realismo e favola (il suo realismo onirico). Omaggio e atto d’amore nei confronti del suo paese, Racalmuto, non solo attraverso la lingua, ma anche (forse, soprattutto), attraverso i suoi silenzi:
Ho detto che mi pare di conoscere il paese anche nei suoi silenzi. Che non son o quelli della prudenza e dell’omertà. O più esattamente: che non sono soltanto quelli. Chi scelse – tra il Sei e il Settecento, è da presumere – come stemma del Comune (che allora si diceva Università) un uomo nudo che fa il segno del silenzio di fronte a una torre ermetica, e sotto, in latino, la scritta «nel silenzio mi fortificai», forse alludeva al silenzio che prudenza vuole si faccia di fronte al potere, ma non a un silenzio di desistenza, di quiescenza.
Sciascia fa pronunciare a Ippolito Nievo, il giovane ufficiale che partecipò attivamente all’impresa dei Mille di Garibaldi, nel racconto Il Quarantotto, che fa parte della raccolta Gli zii di Sicilia, questo elogio del non-detto, del silenzio dei siciliani:
Perché – disse Nievo – io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono […]. Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto ed amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice…
Dunque, un sillabario del cuore, una raccolta delle parole dette e dei modi di dire, ma anche di quelle taciute, non-dette, con la predilezione per il paradosso e per l’ironia:
Si ama più tacere che parlare. E quasi che i lunghi silenzi davvero servano a fortificare il raro parlare, quando si parla si sa essere precisi, affilati, acuti ed arguti. L’ironia, il paradosso, l’immagine balenante e sferzante in cui si assomma un giudizio, vi sono di casa.
In merito alla presenza dantesca, all’interno di Occhio di capra, già la dimensione del non-detto, dei silenzi, come tratto distintivo della cultura contadina, sottolineato da Sciascia (e mutuato, a livello di scrittura), rinvia all’indicibile dantesco, a quella retorica del silenzio, che si affaccia in molti passi del poema, con motivazioni differenti (dall’ineffabilità, al gioco del tacere, per stimolare maggiormente la curiosità e l’attenzione del lettore), segnalo alcuni loci, senza alcuna pretesa di completezza, ma solo per dare un’idea del costante confronto, esplicito o implicito che sia, con il Classico. Il primo esempio, che qui riporto, e discuto, riguarda le anime del Purgatorio, e il loro modo di procedere verso il Paradiso celeste, stabilito dalla giustizia divina, di grado in grado, grazie alle preghiere, alle messe e alle donazioni che i vivi, coloro che restano, fanno, a vantaggio della Chiesa, anche qui non senza qualche sottolineatura comico-grottesca, da parte di Sciascia, sui numeri del lotto che il morto rivela, come premio, soltanto a quei parenti che si sono dimostrati ligi nell’assolvimento degli obblighi religiosi, a tutto vantaggio del defunto, utili ai fini della sua progressione purgatoriale: «a li muorti muorti unn’è» – tra i morti dov’è. […]. La ripetizione della parola – «a li muorti muorti» – serve a dare il senso della vastità, del numero […].
Ma riguardo alla sorte delle anime nell’aldilà, sempre commisurata ai meriti o alle colpe che ciascuno attribuisce alla loro vita, tanti sono i gradi e le sfumature […]. le autentiche buonanime sono «armuzzi di lu priatoriu», animucce del purgatorio, quasi tutte; pochissime le «armuzzi di paradisu», essendo il paradiso riservato ai parenti più stretti di ognuno e ai morti bambini particolarmente.
Per i morti, insomma, al solo mentovarli, è d’obbligo situarli nell’aldilà: inferno, purgatorio, paradiso […].
In quanto alle animucce del purgatorio, è da aggiungere che a loro è dedicato un culto totalitario, a beneficio di tutte, ma anche particolare, nominativo: ad accelerarne il trasferimento in paradiso. Preghiere, messe, offerte, opere di carità. Chi se ne dimentica, le animucce si presentano nei sogni: mute, turbate nel volto […]. Chi invece ne è memore, qualche volta ne ha premio coi numeri del lotto. Ma si incorre di solito nell’errore di non giocarli per tutte le ruote e di non giocarli assiduamente, una settimana dopo l’altra: sicché si scopre o che i numeri erano buoni per la ruota di Bari e non per quella di Palermo o che per quella di Palermo valevano a distanza di un mese o di un anno.
Il rinvio, quasi automatico, è al canto VIII del Purgatorio dantesco, in particolare all’episodio dell’incontro tra Dante e l’anima purgante dell’amico Nino Visconti, il giudice Nino (pisano, di parte guelfa, e figlio di una figlia del conte Ugolino della Gherardesca, aveva conosciuto Dante a Firenze, e lui stesso si dilettava di poesia provenzale). Questi, riconosciutolo, lo fissa. Dante gli va incontro («Ver’ me si fece, e io ver’ lui mi fei: / giudice Nin gentil», v. 52), salutandolo con cortesia e contentezza (di vederlo tra i purganti, e non tra i dannati dell’Inferno: «quanto mi piacque / quando ti vidi non esser tra ‘ rei!», vv. 53-4), e precisandogli che è ancora vivo («sono in prima vita», v. 59). Nino, sbalordito del fatto che Dante stia in Purgatorio da vivo, chiama a gran voce l’anima di Corrado Malaspina, che è lì vicino, affinché assista anche lui all’evento eccezionale, voluto da Dio, del passaggio di un vivo tra i morti. Nino Visconti approfitta del fatto che l’amico poeta, una volta finito il viaggio, dovrà tornare in Toscana, per chiedergli il favore di andare da sua figlia Giovanna, e di ricordarle di pregare per lui, affinché avanzi nel cammino purgatoriale, dal momento che sua moglie, risposatasi, non se ne ricorda più. Le considerazioni che Nino Visconti fa sulla sua ex moglie (Beatrice d’Este, convolata a nuove nozze, con Galeazzo Visconti, signore di Milano), e le parole poco lusinghiere che pronuncia all’indirizzo della donna suonano come un’accusa di superficialità, venate di misoginia: «Per lei assai di lieve si comprende / quanto in femmina foco d’amor dura, / se l’occhio o ‘l tatto spesso non l’accende» (vv. 76-8). Maliziosa terzina, in forma di odierno tweet, senz’appello, sull’incostanza femminile, che rientra, ovviamente, in una tradizione letteraria misogina, conosciuta da Dante, che va dai Classici (Ovidio, Virgilio, e altri), ai Padri della Chiesa. Dunque, quella di Nino Visconti non è un’«animuccia» che se ne sta zitta, ma parla e reclama, per il tramite dell’amico Dante, un suo diritto a non essere dimenticato (almeno, dalla figlia).
«arti di pinna» – l’arte della penna (della scrittura)
«Ci voli arti di pinna», per dire della difficoltà a raccontare un fatto, ad esporre una situazione particolarmente disagiata e dolorosa, complicata, contraddittoria…
Più volte, Dante, nel suo poema, dichiara l’inadeguatezza della sua lingua, della sua «arte di pinna», per raccontare compiutamente un evento, un personaggio, una situazione. Così come si legge, per esempio, nell’incipit al canto XXXII dell’Inferno, tanto per citare un solo caso, in analogia con la riflessione di Sciascia:
S’io avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
[Se io possedessi la capacità di scrivere versi aspri e cupi, / come si converrebbe all’orrenda cavità (dell’Inferno)]
«assatanassatu» – assatanassatu
preso da Satana, in cui Satana è incorporato. Si dice dei perfidi e dei bestemmiatori; ma anche, con irritata tenerezza, di un bambino che frequentemente domanda da bere: «ma chi è assatanassatu?», ma che è assatanassato? Bruciato dentro, cioè, dal fuoco infernale; e perciò il bisogno d’acqua ad estinguerlo.
Nel caso di questa voce, il rinvio è al canto XIV dell’Inferno, lì dove, cioè, vengono puniti, nel terzo girone del VII cerchio del Basso Inferno, i violenti contro Dio nella parola, i bestemmiatori, appunto. La loro pena, nell’Inferno dantesco, consiste nello stare supini, immobili, sferzati da una pioggia di fuoco, che arroventa il sabbione.
«barruggieddru» – bargello
Il capo degli sbirri. Ed è il nome che molti contadini ancora danno ai loro cani più pronti ad aggredire gli sconosciuti che si avvicinano alla casa, i grossi e ringhianti bastardi che di giorno tengono alla catena e di notte mettono in libertà. per uguale concetto, sono chiamati «cani cuorsi», cani corsi (della Corsica), giudici, poliziotti, ufficiali giudiziari: tutti coloro, insomma, che sono preposti a far rispettare le leggi e ad amministrare la giustizia.
In questo caso, il riferimento dantesco è duplice: il primo, è legato al vocabolo «bargello» (capo degli sbirri), che ricorda il priorato di Dante, a Firenze, periodo durante il quale, appunto, Dante, in qualità di priore, andò ad abitare presso il Bargello; il secondo riferimento, invece, riguarda i cani, preposti a far rispettare le leggi, e quindi il cane infernale Cerbero, a tre teste, severo (ringhioso) guardiano di una zona dell’inferno dantesco, il cerchio dei golosi:
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa
«catuniari» – catoneggiare
Da Catone il Censore: e appunto dice del continuo, assillante gratuito censurare e disapprovare di un marito, di una moglie, di una suocera.
Da quale memoria è arrivata al sentire popolare la figura di catone, dando luogo a un verbo, è un mistero. E bisogna anche considerare che la parola contiene un giudizio: chi catoneggia è un moralista di falso moralismo, d’apparenza. Esattamente come Catone nell’epigramma di Marziale.
Il Catone di questa voce dell’antologia non è Catone l’Uticense, posto da Dante a guardiano del Purgatorio, ma Catone il Vecchio, Catone il Censore, del quale, appunto, quello dantesco fu pronipote.
«chi si fa a lu ‘nfernu? Si marteddra» – che cosa si fa all’inferno? si martella
Domanda e risposta che si danno le donne di casa, a modo di rassegnata imprecazione, nei momenti più esasperati della loro fatica quotidiana, specialmente quando attorniate da bambini vocianti e piangenti. E non tanto l’espressione si riferisce alla fatica pesante e continua quanto al frastuono, al martellare delle voci e dei giochi dei bambini. Dal che si vede che l’inferno è immaginato come nel XXI canto dell’Inferno dantesco: una specie di «arzanà de’ Viniziani». Ma Dante evoca l’arsenale di Venezia soprattutto per il ribollire della «tenace pece»; mentre le popolane di Racalmuto evocano l’inferno-arsenale per il frastuono del «chi ribatte da proda e chi da poppa»
L’esplicito riferimento al canto XXI dell’Inferno dantesco, quinta bolgia (i barattieri), canto VIII, si chiude con la citazione, a mo’ di precisazione, del verso 13 («chi ribatte da proda e chi da poppa»), per chiarire quale sia precisamente il «frastuono» dantesco, e cioè il frastuono prodotto da chi lavora, nell’arsenale veneziano, a riparare, da poppa a prua, battendo con il martello (si marteddra), la propria l’imbarcazione, in modo da rimetterla in mare, assimilabile, dunque, all’idea che di frastuono hanno voluto intendere le popolane di Racalmuto con la voce riportata da Sciascia. Per analogia con il frastuono, aggiungerei alcuni versi del canto III dell’Inferno (vv. 22-3), lì dove, cioè, il poeta sta entrando nell’abisso infernale e avverte un gran frastuono di lamenti, voci, suoni, strida e grida:
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle
Questa citazione, che ho riportato dal canto III di Dante, rinvia, per analogia situazionale, a quella «rassegnata imprecazione» di cui scrive Sciascia, nella spiegazione acclusa della voce popolare «chi si fa a lu ‘nfernu?».
«o santa lagnusìa ‘un m’abbannunari / ca mancu spieru abbannunari a tia» – o santa pigrizia non mi abbandonare / che io pure spero non abbandonarti
[…] di solito usato a deridere e a condannare l’altrui pigrizia. Distico che i padri ripetevano ai figli, i «mastri» ai loro aiutanti; e i contadini ne facevano canto – sulle stesse note dei canti d’amore o di sdegno – nelle ore di lavoro, le più calde e affannose: per rabbia contro i padroni che non lavoravano, per amara ironia su se stessi al lavoro dannati; ma forse anche per non dimenticare la santa esistenza del riposo, dell’ozio.
La parola «lagnusìa» […] quando la riconosciamo in altri, e la muoviamo in accusa, viene a caricarsi del più greve significato di accidia, di vero e proprio vizio capitale secondo la morale cattolica […]; l’altrui «lagnusìa» è proprio l’accidia nella definizione del Tommaseo: «Mancanza di quella cura che al bene dobbiamo: mancanza a cui segue per necessità certa cupa tristezza e tepidezza nojosa, che rende l’uomo men atto all’adempimento pur dei sociali doveri»
L’accidia come vizio capitale, di cui scrive qui Sciascia, in Dante, in quanto lentezza nell’operare il bene, e lentezza nell’esercizio della virtù, viene trattata sia nel canto VIII dell’Inferno, peccato di incontinenza, punito (insieme con l’iracondia) nel quinto cerchio infernale (le anime sono immerse nelle acque della palude melmosa e maleodorante dello Stige); sia nei canti XVII e XVIII del Purgatorio, quarta cornice purgatoriale, «poco vigore», scarso amore del bene (le anime corrono in continuazione, urlando esempi di sollecitudine premiata, e di accidia punita). Alla fine del canto XVIII, tra le anime accidiose, Dante colloca pure le anime di coloro che, fuggiti da Troia, preferirono non seguire più Enea fino in fondo, evitando ulteriori dolori e sofferenze di quel viaggio, ma che si fermarono in Sicilia, presso il re Aceste, che ospitò Enea, e che diede sepoltura ad Anchise (sul monte Erice), destinandosi, quindi, a una vita ingloriosa («vita sanza gloria», v. 138). La citazione di Tommaseo, da parte di Leonardo Sciascia, con la definizione dell’accidia che nel suo Vocabolario dava il linguista, non fa che rimarcare l’accusa e allargarla dall’accidia all’ignavia vera e propria, colpa sociale gravissima, a giudizio sia di Dante, che di Sciascia: «Mancanza di quella cura che al bene dobbiamo».
Ho inserito per ultima la seguente voce dell’antologia Occhio di capra, per la sua duplice valenza di rinvio intertestuale, poiché essa, per un verso, richiama Luigi Pirandello, come lo stesso Sciascia sottolinea, nella sua spiegazione; per un altro verso, invece, rinvia, in modo carsico, non evidente ma sotterraneo, al concetto di «anima separata», di parvenza, che Dante spiega nel canto XX del Purgatorio:
«‘na manu lava l’antra e tutti du lavanu la mascara» – una mano lava l’altra e tutte e due lavano la faccia (mascara)
Traduzione del detto italiano […], ma con una essenziale variante: la maschera al posto della faccia.
Luigi Pirandello intitolò il suo teatro Maschere nude. Nude, tolte le maschere, dovrebbero essere le facce. Sono invece invisibili, ignote, forse non esistono. Non ci sono che maschere. Non siamo che maschere.
Essere o apparire. Volto o maschera. Tra Sciascia, Pirandello e Dante. Dante fissò per l’eternità peccatori, purganti e beati, di canto in canto, in uno scatto da selfie, che li rendesse, tutti, riconoscibili ai lettori (presenti e futuri):
– Ciacco è immerso nel fango, da goloso
– Paolo e Francesca sono abbracciati, tra i «peccator carnali»
– Manfredi, principe negligente, biondo, bello e di gentile aspetto, mostra la sua ferita
– il conte Ugolino rosicchia la testa dell’arcivescovo Ruggieri, nel Cocito ghiacciato
– Cunizza, Folco e Raab ridono felici, tra i folli amanti del cielo di Venere
– l’invidiosa Sapìa ha le palpebre cucite; e così via. 100 canti, 100 selfie.
Il problema della fisicità delle anime, per cui esse soffrono tormenti, è stato affrontato più volte dalla critica dantesca. In quanto questione filosofica, fu dibattuta, da parte dei teologi cristiani medievali, che dovevano conciliare, appunto, il fuoco reale, di cui si legge nella Scrittura, e al cui tormento sono sottoposte le anime (ed è un fuoco che anche Dante dice di temere: «e io temëa ‘l foco», Pg, XXV, 116), con la così detta teoria dell’anima separata, cioè, dell’anima divisa dal corpo, che, appunto, resta in terra, al momento della morte. Dante, in qualche modo, pone (e liquida), per bocca di Virgilio il problema della fisicità delle anime già nel canto III del Purgatorio, in due terzine fulminanti, entrambe degne di un tweet contemporaneo:
A sofferir tormenti, caldi e geli 31
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.
Matto è chi spera che nostra ragione 34
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
Virgilio, con questi due tweet, apre e chiude la questione, senza alcuna possibilità di replica. Trattasi di mistero divino, a noi inconoscibile. La ragione umana dichiara la propria impotenza. Ritenendo folle (matto) chiunque s’illude di penetrare tale mistero. Tanto è vero che Dante, nel canto XXV del Purgatorio, farà trattare la questione non più a Virgilio, ma a Stazio, anima che ha quasi ultimato il suo cammino purgatoriale, e che, quindi, si appresta a salire al Paradiso celeste. Anima, dunque, più degna di Virgilio, per trattare una simile questione. Stazio, infatti, dopo aver preso in esame le risposte che al quesito forniva la filosofia aristotelica, pur mediata attraverso la Scolastica medievale, propone una sua personalissima soluzione, sulla fisicità dell’anima, e, quindi, sul fatto che le anime, in quanto tali, potessero soffrire pene corporali. Ovviamente, la paternità di questa soluzione è tutta dantesca. È Dante che s’arrischia, muovendosi nel coevo dibattito teologico, ad avanzare una soluzione innovativa. Quando il corpo muore, le facoltà intellettive, nell’anima, sono più intense. Una volta conosciuta la destinazione da raggiungere nell’aldilà, intorno all’anima si dispone una forza formatrice, che le dà un aspetto di «ombra», simile alla figura umana, rendendola così capace di provare piacere e/o dolore. Di qui, la geniale idea dantesca di ritrarre tutte le anime, da lui collocate nei tre regni ultraterreni, in forma di figure umane, in una posa (selfie) riconoscibile. Tale originalissima soluzione, sulla consistenza corporea dell’anima (il corpo aereo), consente a Dante, innanzitutto, di risolvere una necessità di finzione artistica (incontrare le anime, dialogare con loro, descrivere la loro condizione ultraterrena, in modo che il lettore le possa vedere e riconoscere), ma gli consente anche di tenere assieme materia e spirito, corpo e anima (maschera e volto). Per Dante, infatti, l’anima irraggia intorno a sé un altro corpo. Le immagini che Dante utilizza, per questa sua geniale soluzione sono due. La prima, è quella dell’arcobaleno, impresso dal sole nell’aria, che è umida di pioggia:
E come l’aere, quand’è ben pïorno,
per l’altrui raggio che ‘n sé riflette,
di diversi color diventa addorno;
così l’aere vicin quivi si mette
in quella forma che in lui suggella
virtüalmente l’alma che ristette; (Pg, XXV, 91-6)
La seconda immagine, è quella della fiamma, che è proiettata nell’aria dal fuoco:
e simigliante poi a la fiammella
che segue il foco là ‘vunque si muta,
segue lo spirto sua forma novella. (97-9)
Secondo la scienza medievale, la fiamma, infatti, è la forma impressa nell’aria dal fuoco, che è materia senza forma. La fiamma come forma del fuoco. Esattamente come accade, nell’idea dantesca, tra il corpo aereo e l’anima separata. Il canto XXV del Purgatorio è, dunque, uno dei canti più dottrinali di tutta la seconda cantica. Esso è collocato tra due canti, il XXIV e il XXVI, caratterizzati da riflessioni sulla poesia (con Bonagiunta da Lucca, nel XXIV, e con Guido Guinizelli, nel XXVI). Vecchia e nuova poesia.
L'autore
- Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura». Ha insegnato «Linguistica italiana» al Corso di Laurea Magistrale in «Scienze della Mediazione Linguistica», e «Didattica della lingua italiana» per l’Università degli Studi di Foggia, e «Storia della lingua italiana» in Polonia (Università di Stettino). È autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani, con il quotidiano «Corriere del Mezzogiorno» («Corriere della sera»), e con diversi blog letterari. Realizza lezioni-spettacolo sui Classici della Letteratura italiana, ed è commentatore televisivo e radiofonico.
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