Il fenomeno del nazionalsocialismo – o hitlerismo che dir si voglia –, emerso in Germania nel tumultuoso contesto del primo dopoguerra, rappresenta ancora oggi un evento complesso le cui origini affondano in una commistione multiforme di fattori storici, culturali, mistico-scientifici e filosofici: la sconfitta nella Prima guerra mondiale e il successivo mortificante Trattato di Versailles – nonché la crisi economica planetaria che si verificò a seguito del crollo di Wall Street – contribuito non poco a creare un generale clima di insoddisfazione e indigenza; alla cruda e tutt’altro che piacevole quotidianità molti tedeschi – intellettuali e non – preferirono consacrarsi ad una spasmodica ricerca identitaria, rievocazioni pagane e incalzanti richiami ad una fantomatica età dell’oro teutonica al fine di ricompattare un’unità socio-politica dilaniata da conflitti intestini.
Il fallito tentativo – immediatamente posteriore al ’18 – di trasformare il paese in una monarchia costituzionale e la successiva nascita della tanto liberale quanto fragile Repubblica di Weimar, non riuscirono difatti né a rispondere compiutamente a quel disperato grido di salvezza – fisica e metafisica ad un tempo – né tantomeno a sanare in maniera definitiva quell’angosciosa ricerca del proprio «Sé» che implica e segue logicamente la prima richiesta: il desiderio di costruire un’autentica Volkgemeinschaft (comunità nazionale), si tradusse in una sorta di attesa messianica di ciò che Jung stesso definì «archetipo Wotan/Odin», ovverosia la futura venuta di un uomo vigoroso, potente – seppur non particolarmente forte dal punto di vista psichico – e profondamente votato alla causa völkisch[1]. Il sentimento titanico e prometeico del Romanticismo ottocentesco venne così a confluire e a fondersi in una religione laica, totalizzante e panteistica: il nazionalsocialismo si configurò dunque come l’unica risposta plausibile al generale sentimento di rivalsa del popolo tedesco, una disperata pretesa di salvezza, una filosofia giustificatrice dell’esistenza.
Non è dunque un caso che la propaganda nazista si adoperò molto nella riscoperta del concetto di Volk, termine spesso eccessivamente semplificato nella nozione di “razza” o “popolo” che in realtà comprende un significato di assai più ampio respiro: il Volk non è meramente una collettività unita da legami nazionali, bensì «una gens», un’entità culturale e soprattutto spirituale; a questo primo elemento si aggiunse la riscoperta del paganesimo, in particolar modo della mitologia norrena e la riproposizione di riti antichissimi come il salto del fuoco durante i solstizi, essenziali al fine di riscoprire e riportare in auge un Sé nazionale arcaico e perduto.
All’esaltazione del Volk teutonico seguì consequenzialmente la diffusione di un’ideologia razzista, basata sulla suddivisione in razze superiori e inferiori e sulla necessità che le prime ripudiassero e soggiogassero le seconde: al fine di giustificare tale ancestrale bisogno vennero utilizzati tanto elementi della mitologia norrena come il Ragnarök – e il successivo emergere di un mondo nuovo, purificato dal fuoco distruttore dell’«olocausto definitivo»[2] –, quanto concezioni filosofiche affermate: è difatti innegabile il ruolo giocato da concetti quali «Volontà di potenza» e «Übermensch» nell’attecchimento dell’ideologia nazista e nella perpetrazione della barbarie, ma è altrettanto vero che la diretta e inequivocabile associazione della filosofia nietzschiana all’hitlerismo è non solo e non soltanto fuorviante, ma anche priva di un qualsivoglia sostegno storico-filosofico; per tale motivo risulta assai più proficua una chiara e netta distinzione tra autentico pensiero nietzschiano e Nietzscheanesimo, ossia la modalità con la quale Nietzsche venne recepito dalla cultura del ‘900 e dai teorici nazisti, primo fra tutti Alfred Rosenberg, ma anche importantissimi intellettuali e filosofi quali Ernst Krieck e Alfred Bäumler.
Evitando necessarie, ma ahimè prolisse puntualizzazioni sulla tematica in questione[3], è bene considerare in modo particolare il secondo dato, ossia l’influenza che il nietzscheanesimo ebbe sull’ideologia nazista: il concetto di super-uomo[4] si inscrive nella questione della differenza ontologica – anche se non necessariamente riconducibile alla teoria heideggeriana –, la quale garantisce una possibilità esistenziale che, pur rimanendo ancorata all’essere umano e al suo orizzonte, non esaurisce in questo la sua portata; il super-uomo si configura pertanto come continuo superare – seppur non in senso hegeliano, poiché non vi è conservazione autentica dello stadio precedente se si esclude l’essenza dell’essere uomo, ovvero ciò che lo qualifica in quanto tale differenziandolo dall’animale. Il carattere ontologico del suo annuncio viene presentato dai filosofi nazisti (Oehler, Hildebrandt e Spethmann) esaltandone la dimensione etica, sebbene in realtà essa non è implicata necessariamente da questo[5]: tale visione presenta il super-uomo come un uomo pluri-potenziato geneticamente, un momento scientifico-mitico legato alle derive del darwinismo sociale che non si esaurirebbe nella dialettica hegeliana servo-signore, ma si manifesterebbe in un ritorno eroico alle origini, iscritto nel solco di una sostanziale purificazione della razza.
Il super-uomo apparirebbe dunque come uno stadio evolutivo superiore e la sua realizzazione altro non sarebbe che un compito sviluppantesi di pari passo con la razza pura – o ariana che è lo stesso –: esso vedrebbe il proprio logos nella teorizzazione dell’eterno ritorno, laddove essere e divenire sono complementari e attuabili nel campo dell’evoluzione; è per tale motivo che il concetto di Übermensch è così legato a quello di allevamento, inteso in termini nazionalsocialisti attraverso l’attuazione dell’Aktion T4, ossia il programma di eugenetica del regime che prevedeva la sterilizzazione coatta di tutti gli individui della società ritenuti inadatti – come malati fisici e psichici –, la costruzione dei campi di sterminio/concentramento e il programma Lebensborn, volto alla riproduzione controllata degli individui aventi le caratteristiche ariane più sviluppate.
Al concetto di super-uomo inteso in termini darwinistici è intimamente legato anche quello di volontà di potenza, in quanto essa è la caratteristica fondamentale dell’ente: adattata anch’essa alle derive darwiniste, vedrebbe nella perpetua lotta per l’esistenza lo svolgimento della cultura e l’affermazione del migliore. Non sorprende dunque l’iniziale lettura del secondo conflitto mondiale – operata da Martin Heidegger – quale scontro tra volontà di potenze: la Germania diviene in tale contesto alfiere del nichilismo attivo, votata alla realizzazione di un ordine nuovo in grado di svincolarsi dal platonismo, mentre le potenze alleate difendono il nichilismo passivo e lottano per la mera sostituzione dei vecchi valori con nuovi simili, compiendo la fase insufficiente del contro-rovesciamento platonico che accorderebbe il primato non già al soprasensibile, bensì al sensibile, lasciando però inalterata la medesima distinzione sopra-sotto, laddove invece servirebbe una trasformazione dello schema gerarchico stesso.
Concepire la volontà come «un voler-essere-di-più»[6] – inteso in questo contesto sempre in termini eroico-biologici – implica un’inesauribile tensione non solo e non soltanto all’autosuperamento, bensì anche all’autodistruzione quale preambolo necessario dello stesso: l’autoaffermazione sarebbe dunque possibile solamente in seguito ad un patimento o alla stessa morte fisica che assumerebbe così i connotati di una morte catartica; difatti nella morte del singolo non si conserva e accresce solamente il suo onore, bensì anche e soprattutto quello della Patria, del Reich quale forza metafisica e perfetta unità di idea ed esistenza. Tale visione panteistica che vede nell’immolazione ideale e soprattutto fisica per la Patria – dunque l’universale – l’unica possibilità di autoconservazione del singolo trova un corrispettivo interessante anche nell’Edda e nel ciclo del Nibelungenlied, dove la guerra e di conseguenza anche la morte violenta negli scontri viene interpretata come l’unico espediente in grado di accrescere e conservare l’onore del singolo e della stirpe in genere; non è un caso dunque l’interesse palesato dai teorici e dagli intellettuali nazionalsocialisti verso questi poemi nordici e verso lo studio mistico delle rune (Guido von List, Jörg Lanz von Liebenfels), riprese anche nelle uniformi dei vari corpi militari e nella simbologia occulta del partito. Lo stesso simbolo delle SS è stato ottenuto dall’accostamento di due Sig-Rune, emblema della vittoria, così come anche la svastica (Hakenkreuz) venne mutuata dalla simbologia pagana del dio Thor.
Se si sottolinea questo carattere catartico della guerra e del decesso da questa provocato, non stupisce più né la Totenehrung del ’34 né la generale spettacolarizzazione della morte imperante durante tutto il dodicennio di dittatura, paragonabile solamente – secondo la ricostruzione di Simone Weil[7] – ai giochi gladiatori in epoca romana: difatti queste manifestazioni dal sapore teatrale raggiungevano non solo lo scopo di onorare il caduto secondo uno schema sociale e metafisico ad un tempo, bensì anche uno più squisitamente psicologico; attraverso la teatralità degli eventi e la maestosità delle musiche la società hitleriana era in grado di trasformare la naturale propensione mimetica dell’uomo – ossia quella particolare dimensione non soltanto individuale, ma soprattutto sociale che ha permesso all’umanità di evolversi – in una sorgente illimitata per e della violenza, in grado di preservare la massa dal domandarsi se la guerra ideologica combattuta dalla Nazione fosse giusta o meno. A tal fine era indispensabile anche la poderosa macchina propagandistica messa in atto da Goebbels e votata alla creazione ad hoc di un “capro espiatorio”: anche in questo caso ci si trova di fronte ad un ulteriore naturale propensione umana del tutto sana, resa deviante solamente dall’azione demagogica e dalla conseguente «economizzazione dell’intelletto». Non è un segreto l’innata tendenza umana a categorizzare gli individui che lo circondano, né tanto meno l’indiscussa funzione rivestita da essa in termini di sopravvivenza, ma se esasperata diviene solamente un motivo di netta cesura tra “noi” e “loro” e alimenta tanto sentimenti distruttivi nei confronti del prossimo, quanto autodistruttivi; tutte le società che si reggono sul principio del capro espiatorio difatti sono più interessate al fallimento di questo piuttosto che al proprio miglioramento e alla propria tutela. Ne è un esempio eclatante l’incredibile diligenza che i nazisti impiegarono nell’eliminazione degli ebrei nei campi di sterminio nonostante le sorti segnate della guerra.
L’odio dichiarato nei confronti del popolo ebraico non deve tuttavia essere inteso solamente in termini biologico-razziali, ma anche in chiave metafisica: nell’eliminazione del popolo che aveva portato nel mondo il monoteismo e la perfezione inarrivabile del Dio senza volto, si rintracciava difatti la possibilità di uccidere non solo la stessa divinità, ma anche e soprattutto i suoi dettami; la perfezione di tale modello era talmente ineguagliabile da portare con sé soltanto sconforto e l’unico modo per distruggere le aspettative terrene sembrava essere quello di eliminare coloro i quali avevano introdotto quello stesso archetipo. Ecco perché la loro eliminazione era l’obiettivo primario, nonostante la guerra fosse ormai perduta.
Tale giustificazione metafisica, tuttavia, deve essere probabilmente stata presa in considerazione soprattutto dai teorici e dagli intellettuali, dunque sorge spontanea una domanda: quale fu il possibile paradigma etico al quale i gerarchi e gli «uomini comuni» hanno fatto riferimento durante il dodicennio nazista?
Per rispondere a tale quesito risulta fondamentale l’analisi del concetto di causa – giacché qualunque trattazione avente come oggetto la tematica dell’agire non può esimersi dall’analizzarlo –, così come il vaglio dei tre principali paradigmi etici: difatti il paradigma nazionalsocialista si caratterizza come una sintesi dei tre, riprendendo dal paradigma realista il concetto di forma e la relativa concettualizzazione dei gradi d’esistenza, così come la possibilità di descrivere come morale quella particolare azione in grado di perpetuare il sistema nel quale ciascun individuo può sviluppare al meglio la propria forma – l’essere cittadino ariano nel caso del Terzo Reich –; dal paradigma emotivista mutua i concetti di simpatia – riservati in questo caso ai soli concittadini, ossia a coloro i quali condividono il medesimo Volk ariano – e di piacere derivante dal riconoscimento del proprio lavoro. È emblematico il caso delle numerose onorificenze militari e soprattutto civili che il Reich riconosceva ai suoi cittadini a seguito dell’ineccepibile lavoro svolto. In ultima istanza, esso riprende dal paradigma prescrittivista l’elaborazione concettuale del «dovere per il dovere» e dell’universalizzazione, la quale seppur non in termini propriamente kantiani invitò i tedeschi a adeguare il mondo loro circostante ai contenuti prescritti, ossia la necessità di uccidere tutti gli Untermenschen (esseri inferiori); a tutto ciò si aggiunge inoltre una netta tensione deterministica[8], nonostante questo sia inverificabile nelle scienze umane, poiché l’essere umano è un individuo storico e intenzionale.
L’eliminazione fisica dei prigionieri nei campi di sterminio avveniva grazie allo sviluppo di sofisticati strumenti tecnico-scientifici – dall’impiego dello Ziklon B nelle camere a gas, alla creazione di forni crematori aventi più camere e dunque più rapidi nell’eliminazione dei corpi, solo per citarne alcuni – e perciò appare chiaro come la Shoah non si sarebbe mai potuta avere senza il continuo perfezionamento tecnico-culturale che animò l’uomo dalla metà del ‘600 in avanti: alla proposta di molti di considerare il tragico evento come una deviazione dal progresso moderno, pare molto più proficuo e corretto considerarlo come una differente espressione non soltanto dello stesso, ma della medesima modernità; la possibilità di far emergere l’umanità dalla barbarie dello stato di natura è difatti solamente un mito eziologico di matrice sette-ottocentesca e se si considerasse la Shoah eliminando la disapprovazione morale dei suoi esiti aberranti, questa apparirebbe al pari di una qualsiasi attività burocratico-economica «normale» così come descritta da Max Weber in Economia e società.
Verrebbe allora spontaneo domandarsi quale sia il motivo di tanta energia investita quotidianamente nell’elaborazione e nella trasmissione della cultura, se questa possiede al suo interno delle ambiguità così radicate da produrre o riprodurre la barbarie: non sarebbe più semplice mettervi un freno, porvi fine? In realtà non esiste una risposta univoca ed esaustiva, ma a mio parere la più interessante si radica nella possibilità di vincere la scommessa sulla trascendenza: è nella stessa sete insaziabile dell’uomo di tutto ciò che lo oltrepassa che si rivela la sua possibilità di immortalità e di senso; non è un caso se l’arte in senso lato è stata da sempre considerata un modo per «dominare il caos che si è»[9] e per lasciare un segno che sopravviva all’autore.
Se però Auschwitz, inteso come caso paradigmatico, non è una deviazione dalla modernità, ma un suo possibile anche se non necessario prodotto, sorge spontanea l’urgenza di un’ulteriore domanda: come evitare, o almeno tentare di evitare, il sopraggiungere di vecchi e nuovi totalitarismi? La possibilità che possa accadere nuovamente è sempre presente, ma ciò non deve far sprofondare l’umanità nello sconforto, bensì invitare a riconsiderare questo tragico capitolo della storia dell’umanità, ad analizzarlo in maniera più dettagliata, al fine di prendere consapevolezza delle due anime che inevitabilmente muovono la medesima realtà: pensare l’altro non tanto come meta, bensì come viaggio potrebbe essere un ottimo punto di partenza, nella misura in cui l’altro tornerebbe a presentarsi quale epifania della trascendenza (Levinas); l’apertura all’incontro e nell’incontro permetterebbe così la creazione di uno spazio di autentico umanesimo nel quale si potrebbe riconoscere non soltanto la soggettività e l’alterità, bensì anche una reciprocità che apre rapporti incommensurabili con l’estraneo, il diverso, l’Uomo.
[1] La particolarità di tali tendenze è che esse si manifestarono decenni prima non solo dell’ascesa al potere di Adolf Hitler, bensì perfino della sua comparsa sulla scena polita dato che all’epoca egli era poco più che un fanciullo.
[2] M. Maculotti, Miti nordici, Santarcangelo di Romagna, Diarkos editore, 2023, p. 334.
[3] Si rimanda a G. Penzo, Nietzsche e il nazismo. Il tramonto del mito del super-uomo, Milano, Rusconi Libri, 1997.
[4] In tale contesto è preferibile tale traduzione a dispetto di quella di «oltreuomo» operata da Vattimo giacché esprime in maniera più compiuta l’idea di uomo superiore geneticamente.
[5] É importante sottolineare la generale assenza della dimensione etica nell’annuncio dell’Übermensch, poiché una lettura di questo tipo porterebbe ad una politicizzazione dell’annuncio stesso e di conseguenza alla convalida di quelle tesi che considerano Nietzsche come autentico precursore del nazismo.
[6] M. Heidegger, Nietzsche, Milano, Adelphi, 1994, p. 70.
[7] Si veda S. Weil, Sulla Germania totalitaria, Milano, Adelphi, 1990.
[8] Emblematico risulta essere in tal senso il cosiddetto «decreto Nerone» del 19 marzo 1945: l’ordine prevedeva la distruzione totale di qualsivoglia struttura militare, infrastruttura atta alla comunicazione al trasporto ai depositi o all’utilizzo industriale, nonché qualunque opera architettonica o artistica di valore; se la Germania avesse perso non vi sarebbe stata più alcuna Germania. Hitler andò ancora oltre, arrivando ad affermare che il fallimento della Germania fosse colpa dello stesso popolo tedesco, il quale non si era saputo dimostrare all’altezza del compito metafisico al quale era stato destinato.
[9] F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, Milano, Adelphi, 1982, vol. III, t. III, § 14.
L'autore
- Aurora Guzzetti è nata il 01/03/2000 ad Assisi (PG): dopo essersi diplomata al Liceo Artistico “A. Magnini” di Deruta nell’a.s. 2018-2019, ha conseguito una laurea triennale in Filosofia e scienze e tecniche psicologiche nel luglio 2022 con una tesi bilingue italiano-tedesco, dal titolo “Lo statuto dell’icona. Da La prospettiva rovesciata al giorno d’oggi”, e una laurea magistrale con lode in Filosofia ed etica delle relazioni nel luglio 2024 con un elaborato dal titolo “Aporia dell’ombra. La croce che divise l’Europa”, presso l’Università degli Studi di Perugia. I suoi principali interessi concernono lo studio dell’arte, dell’etica, della filosofia e della storia, passioni che l’accompagnano sin da bambina.