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Cinquant’anni fa “La storia” di Elsa Morante

Usciva esattamente cinquant’anni fa La storia di Elsa Morante, nel mese di giugno del 1974, nella collana «Gli Struzzi» (58) della casa editrice Einaudi, dopo anni di silenzio creativo, e dopo tre anni di intenso lavoro, dal 1971, al 1974, appunto. La scrittrice, con determinazione, impose all’editore che questo suo nuovo romanzo uscisse in edizione economica (il costo di copertina era di sole due mila lire, pari a un euro di oggi), in brossura, cioè, non rilegato (quindi, non con una veste editoriale lussuosa, come per altre collane di narrativa Einaudi), e con una tiratura altissima (primo lancio con ben 100 mila copie). Oltre all’imposizione, sempre da parte della scrittrice al suo editore, del divieto assoluto di anticipazioni di contenuto (che però fu trasgredito da Natalia Ginzburg, suo malgrado). L’editore si lasciò convincere, non senza discussioni accese, per il duplice azzardo della tiratura altissima e del prezzo economico, ma i fatti dimostrarono immediatamente che Elsa Morante avesse proprio ragione. In soli cinque mesi, infatti, furono vendute più di seicento mila copie de La storia. L’intenzione della scrittrice era, evidentemente, quella di arrivare a quanta più gente possibile, specie di arrivare ai non lettori di romanzi. Morante dedicò il libro agli «analfabeti», mettendo in esergo, un versetto tratto dal Vangelo di Luca: …hai nascosto queste cose ai dotti e ai savi e le hai rivelate ai piccoli… – …perché così a te piacque. [X, 21].

La prima pubblicazione del libro fu anticipata anche da una campagna pubblicitaria sui maggiori quotidiani del tempo, piuttosto inconsueta per la Einaudi, che annunciava l’imminente uscita del nuovo libro di Elsa Morante, in una collana economica, a basso prezzo, e con una altissima tiratura di lancio. Anche questi aspetti, come dire, redazionali e di promozione alla vendita, furono suggeriti e seguiti passo passo dalla stessa Elsa Morante, che tornava, nel 1974, nelle librerie, con un’opera di quasi settecento pagine, dopo aver pubblicato nel 1968 Il mondo salvato dai ragazzini, un canzoniere provocatorio, che fu accolto malissimo dalla critica borghese (per Carlo Bo, e per altri suoi colleghi, con quel libro, la Morante dimostrava di non appartenere per nulla alla tradizione lirica contemporanea, e di avere, tuttalpiù, solo una vocazione per la provocazione, e per il sovvertimento anarchico). Solo Pier Paolo Pasolini lesse Il mondo salvato dai ragazzini come un «manifesto politico», scritto con grazia, con poesia, e con umorismo. Nel 1974, dunque, erano oramai lontani gli anni de L’isola di Arturo, il romanzo che nel 1957 arrise alla scrittrice il prestigiosissimo Premio Strega; come pure, ancor più lontani, gli anni di Menzogna e sortilegio, risalente al 1948, con discreto successo di pubblico, e con riconoscimenti critici internazionali. In entrambi i casi, comunque, si trattava di due felici esempi di coraggio creativo della Morante, dal momento che, sia per Menzogna e sortilegio, che per L’isola di Arturo, la scrittrice si metteva su di un terreno distante dal dominante neorealismo, per aggirarsi lungo i sentieri della favola e della magia (oserei dire, del realismo magico). Con la pubblicazione della Storia, Elsa Morante provava a dire nuovamente la sua, con un’opera prodigiosa, e d’immenso impianto romanzesco ed etico, spiazzando ancora una volta tutti. Nella bagarre delle accesissime polemiche e delle ferocissime critiche, che si scatenarono nell’immediatezza dell’uscita del romanzo, provenienti da tutti i fronti, sia da destra che da sinistra, con decine e decine di articoli, che, per mesi, uscirono su tutti i quotidiani, i settimanali e i rotocalchi del tempo, occupando finanche le rubriche delle lettere al direttore (si pensi che la stessa Rai si convinse a realizzare una serata di dibattito sul romanzo di Elsa Morante), compreso l’amico Pier Paolo Pasolini, che, in due lunghi articoli, criticò l’opera, giudicandola, sostanzialmente, in alcune sue corpose parti, ancora acerba, poco pensata, non degna di essere mandata in pubblico, se non dopo un altro anno, o due, di riflessione, e di labor limae. In alcuni passaggi, così scriveva Pasolini del romanzo di Elsa Morante: «L’ultimo romanzo di Elsa Morante è un poderoso volume di 661 pagine, e il suo «soggetto» è proprio quello che dice il titolo, cioè la Storia. È difficile con­cepire un progetto più ambizioso di questo […]. La Morante avrebbe forse dovuto lavorarci ancora un anno o due […]. La lunghezza del tempo (necessaria a un romanzo come questo) è sentita come prolissità verbale: e un elementare gioco combinatorio tra varie sotto-storie è sentito come capace di sostitui­re la «successività» naturalistica: ossia l’unilinearità della storia (privata o pubblica). Questo equivoco fa sì che in realtà permangano e incombano minacciose nel romanzo sia la successività naturalistica che l’unilinea­rità storica».

È da quest’ultima accusa, dalla (presunta) perdita di linearità narrativa, giudicato elemento negativo, secondo Pasolini, che dissento profondamente. Proprio il gioco combinatorio e l’assunzione della multi-linearità sarebbero, a mio modesto avviso, il segno del possesso, da parte di Elsa Morante, di una cifra narrativa e stilistica (e ideologica) che diventerà, di lì a qualche decennio, la cifra distintiva della letteratura post-moderna, e che, evidentemente, Morante già sperimentava. Basterà ricordare soltanto l’esempio de La coscienza di Zeno, di Italo Svevo, che, sul modello di Joyce (e dietro suo suggerimento), agli inizi del secolo scorso, faceva deflagrare la linearità del romanzo occidentale, dando vita a un’opera le cui parti non fossero più legate tra loro dalla logica causa / effetto, ma che, al contrario, fossero indipendenti e interscambiabili (l’idea del tempo misto, e la prassi della multi-linearità narrativa, appunto). Ebbene, Elsa Morante si metteva in questa stessa direzione, con la sua scelta stilistica (e ideologica) ne La Storia, dando vita a una narrazione che non fosse più lineare, ma ipertestuale, a incastro, a spirale. A dir il vero, questo esperimento narrativo, Elsa Morante lo aveva già provato in Menzogna e sortilegio, che è di trent’anni prima, rispetto a La Storia (ci lavorò, infatti, a partire dal 1943). Inoltre, partendo proprio da quel suo primo romanzo, farei pure notare che già in esso è possibile ravvisare, a proposito di deflagrazione della linearità narrativa (e conoscitiva), il recupero e il riuso di un aspetto dello stile narrativo ariostesco, la cifra narrativa della multi-linearità del Furioso, di quel suo magistrale (e mirabilissimo) tessere e reggere le fila di tanti racconti simultaneamente, a incastro, racconti multipli, inseriti a spirale (ipertestualmente) in un’unica narrazione, in un universo (non solo letterario) che si era aperto alla molteplicità dei mondi (la terra non più centro dell’universo, e, di conseguenza, l’uomo non più centro del mondo). Tradizione e innovazione, dunque, caratterizzavano l’orizzonte letterario e ideologico di Elsa Morante, nel momento in cui impostava il racconto non più in modo lineare e unidirezionale, ma multi-lineare e ipertestuale. Non si trattò, dunque, di difetto, ma di pregio. Del resto, Italo Calvino, da acutissimo lettore, già negli anni Cinquanta aveva colto questo aspetto della narrativa di Elsa Morante, riconoscendole una capacità di cogliere, in un mondo in frantumi e impazzito in tante schegge, il filo conduttore per tenerlo assieme: «[…] Tu senti che il mondo è fatto a pezzi, che le cose da tener presente sono moltissime e incommensurabili tra loro, però con la tua lucida e affezionata ostinazione riesci a far tornare sempre i conti». (Lettera di Italo Calvino a Elsa Morante, 2 marzo 1950).

È l’universo frantumato dell’«irrealtà», per usare una metafora di Elsa Morante (della Morante del Mondo salvato dai ragazzini), nel quale proprio la cifra stilistica scelta dalla scrittrice (e già praticata sin dai tempi di Menzogna e sortilegio), in totale e coraggiosa solitudine, rispetto al dominante neo-realismo, irrompe, e pone ordine, grazie a quel suo modo narrativo ariostesco e ipertestuale di affabulare le storie. Modo narrativo, che è un autentico elemento di continuità, per la letteratura di Elsa Morante, che durerà fino all’ultimo romanzo, fino ad Aracoeli, come tecnica affabulatoria, e non solo, direi, come disposizione ermeneutica, rispetto al groppo dell’irrealtà, che M.I., i Molti Infelici, non riescono a cogliere. Riporto, qui, un piccolissimo esempio, tratto da Aracoeli, di questa scrittura a spirale e avvolgente:

Difatti, come può accadere a certi straccioni muniti di doppio orgoglio quando vengano promossi alle «alte sfere», lei per prima andava assumendo verso il proprio passato, in talune circostanze, un duro sprezzo mondano addirittura snobistico, e inquinato pure, senza rimedio, da una rozza vergogna; ma sempre mischiato, fin dentro i visceri, da una gelosia feroce, che interdiceva agli estranei il suo piccolo territorio, come una proprietà consacrata dei Muñoz Muñoz.

Da Menzogna e sortilegio (1948), fino ad Aracoeli (1982), dunque, la continuità, nell’universo letterario morantiano, va ricercata in questa persistenza del suo modo narrativo, dell’assunzione (direi dell’invenzione, o della re-invenzione, se riconoscessimo, in questa tecnica narrativa, l’illustre antecedente ariostesco) della scrittura a spirale, ipertestualizzata, che tiene assieme tutti i «pezzi» di quel mondo in frantumi di cui scriveva Calvino, riconoscendo a Elsa Morante il dono (la capacità) di ricomporre in unità l’irrealtà informe e caotica dell’universo. Funzione e ruolo del poeta così lucidamente espressi, da Elsa Morante, già nel saggio Pro o contro la bomba atomica (1965), che non può non rinviare ai primissimi versi della poesia manifesto di Giovanni Pascoli, I due fuchi, nei quali, appunto, il poeta dichiara che suo compito sia proprio quello di cogliere l’universo torbido, e di spiegarlo al mondo, o con un ragionamento («lucida parola»), o con una poesia («dolce verso»):

Tu poeta, nel torbido universo
t’affisi, tu per noi lo cogli e chiudi
in lucida parola e dolce verso;

sì ch’opera è di te ciò che l’uom sente
tra l’ombre vane, tra gli spettri nudi.

[dalle Myricae]

La tecnica narrativa della Morante (a spirale e avvolgente, ipertestuale), a un certo punto, compie un (apparente) minuscolo passettino avanti, introducendo nell’ordito testuale un elemento di novità, buttato lì quasi per caso, e, proprio intorno a tale elemento di novità (personaggio o situazione che sia), subito dopo, la scrittrice riprende a tessere le spire della danza (alla maniera dei dervisci rotanti), riavvolgendo il lettore, tenendolo nel mondo sognante, e solo in apparenza immobile, che si è materializzato dinanzi ai suoi occhi, portando comunque avanti l’intreccio. Esattamente come la terza rima dantesca, che sembra riavvolgersi su sé stessa, ma che, in realtà, porta avanti la narrazione. Nell’esempio precedente, infatti, tratto dalle pagine incipitarie del romanzo Aracoeli, e riguardanti i segreti della madre del narratore onnisciente (oltre che protagonista) della storia, Manuele, la scrittura a spirale prosegue per altre due pagine, rispetto al brano citato sopra, e poi, improvvisamente, lascia che faccia capolino nella narrazione una novità, intorno alla quale, ovviamente, ricomincia il ballo narrativo:

Ma su tutti i suoi vicini, compaesani e congiunti, anzi su tutto il popolo andaluso e spagnolo, troneggiava il suo unico fratello Manuel, detto anche Manolo e Manuelito. Questo mio zio (destinato a restarmi per sempre sconosciuto) era minore di lei di età, ma…

La crisi che Elsa Morante visse, come poeta e come cantastorie (e come intellettuale), verso la metà degli anni Sessanta del secolo scorso, in parte, testimoniata dalla conferenza Pro o contro la bomba atomica, dal saggio sul romanzo, e da altri scritti e interventi (poi, raccolti in volume presso Adelphi, nel 1987, con la prefazione e con la curatela di Cesare Garboli), che molti critici hanno interpretato come giro di boa, come sterzata, tra un primo tempo (Menzogna e sortilegio e L’isola di Arturo), e un secondo tempo (La Storia  e Aracoeli) della sua produzione narrativa, mettendo al centro, quasi uno spartiacque, Il mondo salvato dai ragazzini, in realtà, trova, a mio modesto giudizio, unità e continuità di lunga durata nel modo narrativo utilizzato da Elsa Morante, in quella sua scrittura a spirale, avvolgente e ipertestuale, presente in tutte le sue opere, da Menzogna e sortilegio a Aracoeli.

Per avere un’idea di tutto il dibattito, che accompagnò la pubblicazione de La Storia, tra interventi positivi (pochi), e stroncature feroci (molte), di recente, la studiosa Angela Borghesi ha raccolto (e  analizzato) tutti gli articoli di quel periodo, realizzando un libro di ben 918 pagine (edizioni Quodlibet, 2019). A cominciare dal giallo della doppia copertina del libro. Nel 1974, in prima edizione, quella che vendette più di seicento mila copie in soli cinque mesi, la copertina recava una fotografia di Robert Capa, che riproduceva un bambino morto, sulle macerie della guerra civile spagnola. In seconda edizione (e poi per sempre, fino a  oggi), quella fotografia fu rimossa e fu sostituita con un’altra, che riproduce sempre macerie di guerra, ma con un bambino vivo, seduto sulle macerie. Inoltre, la frase «Uno scandalo che dura da diecimila anni», che, nella prima edizione, campeggiava in copertina, dalla seconda edizione del romanzo, scompare.

Adesso, comunque, non mi interessa seguire e dar conto di tutta la storia editoriale di questo libro (e dell’accesissimo dibattito culturale e politico-ideologico, che si sviluppò, sin dai primissimi mesi della sua uscita), quanto, piuttosto, proporre un piccolo focus critico sull’incipit del romanzo della Morante.

L’incipit de La Storia è, al tempo stesso, strepitoso e reticente, nel senso che è un esempio di attacco formidabile, per una narrazione, che promette di avvolgere il lettore e di catturarlo:

Un giorno di gennaio dell’anno 1941, un soldato tedesco di passaggio, godendo di un pomeriggio di libertà, si trovava, solo, a girovagare nel quartiere di San Lorenzo, a Roma. Erano circa le due del dopopranzo, e a quell’ora, come d’uso, poca gente circolava per le strade. Nessuno dei passanti, poi, guardava il soldato, perché i Tedeschi, pure se camerati degli Italiani nella corrente guerra mondiale, non erano popolari in certe periferie proletarie. Né il soldato si distingueva dagli altri della sua serie: alto, biondino, col solito portamento di fanatismo disciplinare, e, specie nella posizione del berretto, una conforme dichiarazione provocatoria.

Incipit decisamente memorabile. E mi riferisco all’incipit vero, non alle primissime pagine del libro, che, come per ogni capitolo de La Storia, riportano notizie, in stile cronologico (annalistico), riguardanti i potenti della Storia; la narrazione vera e propria, invece, mette in scena gli ultimi, tutti coloro che non contano nulla, in termini di potere. Nell’incipit cronologico, infatti, Morante precisa che:

1906-1913

[…] anche il nuovo secolo si regola sul noto principio immobile della dinamica storica: agli uni il potere, e agli altri la servitù. E su questo si fondano, conformi, sia l’ordine interno delle società (dominate attualmente dai «Poteri» detti capitalistici) sia quello esterno internazionale (detto imperialismo) dominato da alcuni Stati detti «Potenze», le quali praticamente si dividono l’intera superficie terrestre in rispettive proprietà, o Imperi.

L’incipit narrativo, con il soldato tedesco che si aggira in quel pomeriggio, del mese di gennaio, dell’anno 1941, per il quartiere di San Lorenzo, a Roma, avviato e sospeso, verrà, infatti, ripreso più di quaranta pagine dopo:

E così, alla fine è chiaro perché la disgraziata, in un giorno del gennaio 1941, accogliesse l’incontro di quel soldatuccio a San Lorenzo come la visione di un incubo.

La «disgraziata» è Ida Ramundo, vedova Mancuso, di professione maestra elementare, nata nel 1903, e madre di un ragazzotto di 16 anni, Antonio, detto Nino. Il «soldatuccio» è Gunther, originario di Dachau, in Baviera, il cui cognome rimane sconosciuto, di stanza a Roma, per una brevissima tappa, in attesa di partire, con il resto del suo reggimento, per l’Africa. Gunther è a passeggio, da solo, nelle strade prossime alla caserma dove è alloggiato, e dell’italiano conosce soltanto 4 parole. L’«incubo» è il timore di Ida di essere scoperta, e arrestata, in quanto mezzosangue (giudìo e ariano, con prevalenza giudìo), ricevuto dalla madre, Nora Almagía, veneta, maestra elementare a Cosenza, dove ha conosciuto e sposato Giuseppe Ramundo, maestro elementare, anarchico (e un po’ ubriacone). In mezzo, tra l’attacco del racconto, e la sua ripresa, una quarantina di pagine dopo, c’è l’universo (a pezzi, per dirla con Calvino), che va necessariamente inserito, affinché il lettore abbia una cornice di senso della storia che sta iniziando a leggere. In queste quaranta pagine (circa), si trovano, incastrate l’una nell’altra, secondo il modo narrativo che fu di Ludovico Ariosto: la storia di Gunther; il dettaglio su Dachau (e sul suo campo di «lavoro e di esperienze biologiche», la delirante macchina del massacro nazista); l’Africa come destinazione di guerra, per Gunther; riferimenti al calcio e, in particolare, al campione tedesco Andreas Kupfer; alla misera conoscenza linguistica dell’italiano da parte di Gunther; la tappa presso la «tana» trattoria in San Lorenzo, dove Gunther, in quel suo peregrinare, berrà qualche bicchiere di troppo di vino; l’incontro casuale con Ida, di ritorno dalla spesa; la storia di Ida e dei suoi genitori (Giuseppe e Nora), delle intemperanze anarchiche di suo padre e delle sue sbornie settimanali, del suo male innominato (l’epilessia), e delle crisi che la tramortivano, della prima guerra mondiale, della fame che ne seguì e delle squadre nere che comparvero, del suo innamorato Alfio Mancuso, messinese, passato per caso da Cosenza, del loro matrimonio, della loro sistemazione a Roma, in San Lorenzo, dove Ida insegna, rione rosso e popolare (con gli unici morti nei giorni della facile marcia romana dei fascisti, della nascita di Antonio, detto Nino, della morte prematura, nel corso del 1936, sia di suo padre, che di suo marito, delle leggi razziali del 1938, e dei timori che il “segreto” di sua madre venisse scoperto, della morte di Nora, oramai squilibrata, su una spiaggia calabrese, in solitario viaggio verso la Palestina, l’esaltazione per il vitalismo fascista di suo figlio Nino, i gatti delle rovine del Teatro Marcello, nelle vicinanze del Ghetto, la descrizione del suo misero appartamentino («due camere, cesso e cucina»), dove Gunther l’ha accompagnata, e dove sta per violentarla.

Quasi un incipit reticente, che stenta a dar conto, con immediatezza, dello stupro che Ida sta per subire, e che trova spazio narrativo solo a partire da pagina 63 (edizione Einaudi del 1974 del romanzo):

E senza neanche togliersi la cintura della divisa […], si buttò sopra di lei, rovesciandola su quel divanoletto arruffato, e la violentò con tanta rabbia, come se volesse assassinarla.

Il lungo incipit de La Storia è disseminato di notizie e curiosità sportive. A cominciare dall’esplicito riferimento al centrocampista della nazionale tedesca Andreas Kupfer:

Ogni tanto, si sfogava a calci contro i selci che gli capitavano fra i piedi, forse distraendosi, per un attimo, nella fantasia, con la finzione d’essere il famoso Andreas Kupfer, o qualche altro suo proprio idolo calcistico…

Centrocampista di ferro, Andreas Kupfer fu l’unico calciatore di nazionalità tedesca ad aver disputato sia l’ultima partita con la nazionale della Germania (nazista), che la prima della “nuova” Germania. Calciatore (e campione, dunque) prima e dopo la guerra, rappresentando, in tal modo, il simbolo vivente di una nazione che, attraverso lo sport, provava a rialzarsi, e a dimenticare le atrocità naziste e la guerra. Per le sue indubbie doti sportive, anche il giornalista sportivo e romanziere italiano Gianni Brera aveva visto in Kupfer un autentico campione dell’arte pedatoria, esaltandolo nei suoi scritti. Di Andreas Kupfer, i commentatori calcistici dicevano che avesse il dono di accarezzare la palla, con maestria e dolcezza, e che la palla, estasiata e soggiogata da lui, gli ubbidisse. Noto e temuto per il suo potente sinistro, e per le sue improvvise e rapidissime giocate. Autentico innovatore nel gioco del calcio, per gli anni Trenta del secolo scorso. Gianni Brera lo seguì durante una partita della nazionale tedesca del 1937, restandone colpito. E poi nel 1938, allorquando Andreas Kupfer fece parte degli undici selezionati a livello europeo per sfidare l’Inghilterra.

Altri riferimenti allo sport, e al calcio in modo particolare, si trovano in queste pagine incipitarie del romanzo, nel momento in cui, poco prima che lo stupro avvenga, la voce narrante descrive gli oggetti presenti sul divanoletto che in casa utilizza Nino: gazzette e giornaletti sportivi, buttate alla rinfusa, un pallone da football, lasciato su una sedia, e altri dettagli simili, come, per esempio, una maglietta a colori di una squadra. Dettagli prisma, che rinviano, cioè, a ben altro, dall’importanza che lo sport assunse in quegli anni (sia in Germania, che in Italia), in quanto potentissimo e suggestivo strumento di propaganda e di raccolta di consenso, capace di attirare giovani come Nino (che aprirà gli occhi sul regime, e sul fascismo solo dopo l’esperienza diretta e tragica della guerra), al culto e al mito del corpo sano e forte, a quello della prontezza fisica, da donare, ovviamente, alla patria, non solo per le glorie e gli appuntamenti sportivi, ma anche per quelli del superiore destino patrio, fino al sacrificio estremo della morte in guerra. Di questo, in modo prismatico, ci parlano la citazione di Andreas Kupfer, e i dettagli sportivi, che trovano posto in queste pagine avvolgenti, a spirali, ipertestuali de La Storia di Elsa Morante.

L'autore

Trifone Gargano
Trifone Gargano
Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura». Ha insegnato «Linguistica italiana» al Corso di Laurea Magistrale in «Scienze della Mediazione Linguistica», e «Didattica della lingua italiana» per l’Università degli Studi di Foggia, e «Storia della lingua italiana» in Polonia (Università di Stettino). È autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani, con il quotidiano «Corriere del Mezzogiorno» («Corriere della sera»), e con diversi blog letterari. Realizza lezioni-spettacolo sui Classici della Letteratura italiana, ed è commentatore televisivo e radiofonico.