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Disiecta membra e unità poetica ne “La scatola onirica” di Maurizio Cucchi

«L’uomo manifesta la sua libertà non nel disciogliere, ma nell’intelligenza del connettere. Ciò che la dóxa percepisce come disiecta membra, frammenti travolti nella corrente interminabile del divenire, l’uomo libero, con gli occhi della mente, guardando in alto, riconosce come elementi di un integro insieme in sé compiuto.»

Questo breve passo della Metafisica concreta, il più recente studio filosofico di Massimo Cacciari, tratto dal capitolo La Musa del filosofo (Adelphi, 2023, pag. 35) mi tornava curiosamente più volte alla mente nel leggere La scatola onirica di Maurizio Cucchi.

Fatte salve infatti tutte le facilmente intuibili, costitutive differenze di linguaggio, di contenuto e di finalità, tra il robusto tomo filosofico e il più agile volume poetico, resta tuttavia valida l’analogia tra l’inesausta ricerca di frammenti e di «… tracce / in luoghi sparsi e minimi partendo / in un circuito di radici nella domestica / geografia del minimo» che fin dagli esordi, tanto poetici quanto narrativi, pur se quest’ultimi pubblicati molto più tardi, ha caratterizzato il coerente percorso letterario di Maurizio Cucchi e quei disiecta membra che vanno pur sempre e comunque a costituire «un integro insieme in sé compiuto». Una compiuta unità, tutta esistenziale e poetica, quella di Cucchi, che, come giustamente fa notare Paolo Ruffilli si realizza nella ostinata «persistenza, nella continua variazione, di quella sua voce che insegue, mentre la vive con intensità, una definizione della vita. Vita che in mille rivoli e frammenti continuamente scivola via, scorre, inafferrabile eppure tenuta, provata, goduta per qualche attimo.» L’attimo necessario a ricomporre la materia viva nella parola poetica affinché possa vincere «il tempo e la sua deriva» come scrive ancora Ruffilli. È lo stesso poeta milanese a confermare questo metodo di indagine e di scrittura – la sua personale «mentale escursione» – che così diviene, per stare all’analogia iniziale, «poesia concreta».

In una recente intervista di Ernesto Vergani alla domanda «Sta già lavorando a nuovi progetti?» Cucchi risponde: «Per ora non ho progetti e neppure primi abbozzi di nuovi testi. Come sempre ho fatto, aspetto che il vivere mi insinui nuove proposte, nuove suggestioni, in vista di un possibile mio futuro poetico». Quella formulazione – «aspetto che il vivere mi insinui nuove proposte» – è decisiva per comprendere l’essenza stessa di questa scrittura che si snoda tutta dentro il «guscio provvisorio» della propria esistenza, in quell’«assurda armonia» che viene sempre a costituirsi nell’intreccio, a un tempo necessario e inesplicabile, di vita e poesia.

Un grande maestro, non solo di Maurizio Cucchi, Andrea Zanzotto, a commento della sua Elegia in petèl – petèl, parola dialettale veneta per indicare in duplice valenza «la lingua vezzeggiativa con cui le mamme si rivolgono ai bambini piccoli, e che vorrebbe coincidere con quella con cui si esprimono gli stessi» – aveva adombrato, proprio partendo dalla considerazione del fondamento reale e biologico del pensiero poetante, una possibile «fine della lingua e della poesia». Cucchi nel dare il titolo alla quinta sezione del suo libro – «Sfiorando l’afasia» – non può non aver pensato anche al poeta di Pieve di Soligo. L’interrogazione ossessiva della parola di cui Sabatino, il personaggio dal «nome elegante» è protagonista, giunge però a un esito solo apparentemente lontano dall’afasia, a quel piacevole impasto dove molteplici linguaggi diversi si incontrano «in un sovrapporsi quasi gaddiano di idiomi». Una ricchezza espressiva sempre tutta permeata da una mai esibita e pur soave, tenerissima e quasi infantile levità. In-fante, appunto, pre – o – a-linguistica, come nell’evocato bambino di Turkana o «homo ergaster». Ed è qui che Maurizio Cucchi fa risuonare le parole altissime di un altro grande Maestro, Umberto Saba, trascrivendo i versi iniziali della poesia “Parole” – «Parole, / dove il cuore dell’uomo si specchiava / – nudo e sorpreso – alle origini.» Poesia che mi piace continuare a citare: «un angolo / cerco nel mondo, l’oasi propizia / a detergere voi con il mio pianto». Oasi propizia la chiama Saba, «una città di pace antica» per il poeta milanese che, «allibito», s’imbatte, chissà se casualmente o per destino, in una località in provincia di Pavia denominata sorprendentemente “Casa Cucchi” come viene documentato da una bella foto in bianco e nero del relativo cartello stradale riportata nel libro. E qui il poeta dà prova grande di sé. Pavia è provincia lombarda di confine, di là c’è il Piemonte, la provincia di Alessandria e il pensiero corre ai miti sportivi della propria fanciullezza e della propria adolescenza, alla cittadina di Castellania che dette i natali a Fausto Coppi, il «grande airone solitario» scrive oggi il poeta riprendendo quanto annotato da Orio Vergani nel lontano 2 gennaio 1960, giorno della morte del Campionissimo: «il grande Airone ha chiuso le ali».

È la vita che prepotentemente s’insinua con tutte le sue fascinose suggestioni, anche memoriali, dentro la poesia che a sua volta ci restituisce, nel suo integro, non effimero nitore, non solo squarci di storia collettiva ma anche le singole, più intime emozioni personalmente vissute.

Rara disiectaque aedificia dicevano i latini per indicare sperduti borghi rurali costituiti da pochi isolati, anche distanti fra loro. E così deve essere apparsa “Casa Cucchi” al nostro poeta nella sua perenne ricerca delle proprie origini, anche le più remote:

«E non c’è banca, non c’è chiesa o farmacia. Segno che i suoi abitatori sono residui felicemente estranei a homo oeconomicus, ai suoi traffici e non temono, dunque, il male fisico o dell’anima. Li ignorano».

E qui conviene sommessamente notare che il poeta allunga forse un po’ troppo il passo del suo ardito sillogismo, infatti quegli «oltre cinquanta residenti» di Casa Cucchi potrebbero temere e non ignorare i mali del fisico e dell’anima e semplicemente accettare, nonostante il timore e la conoscenza, quelle condizioni di vita.

Ma al di là di ciò è bello rilevare come continui inesausta, varia e coerente insieme, la sua ricerca identitaria, umana e artistica, iniziata con Il disperso nel lontano 1976:

«Ma a questo punto è inevitabile / per il soggetto indagatore tornare a muoversi / in modo puntiglioso sulle tracce / minime, sparse o immaginarie / di radici e origini a lui ignote, / nel gioco arduo eppure sorridente / di una mitologia più o meno familiare, / nel poco territorio le cui voci / anche ignote tornano a lui / come da un fondo oscuro e incancellabile / che pure accoglie dalla sua stessa voce / come una lingua, un dialetto, comunque, / in prima persona mai parlato prima.»

E dal quel «fondo oscuro» ecco riemergere la figura se non decisiva certo imprescindibile per ricostruire radici, origini ed identità esistenziale ed artistica: la figura paterna. Qui avviene un vero e proprio miracolo poetico. Dopo aver ritrovato il proprio «quartiere di lignaggio» in un «umano pulviscolo locale» ed essersi fatto «spettatore di se stesso» mentre la «macchina mirabile», quella «scatola», che dà il titolo alla raccolta, non più intesa solo anatomicamente come “cranica” ma soprattutto poeticamente avvertita come “onirica”, continua incessantemente a trasmettere segnali come quella «parola antica e ruvida / da chissà quali / remotissime radici» e quelle «minuzie dei frammenti / oscuri connessi alle vicende» tipiche dello stato onirico. E qui, in questo sogno intriso di materia, di storia e di viva realtà viene finalmente ritrovato il «padre». Ma non il padre biologico che resta pur sempre presente con tutte le sue amatissime peculiarità familiari di «timidezza, ritrosia e insieme orgoglio timido», bensì qualcuno, altrettanto amato, cui si è scelto di dare «decoro di nuovo padre». È dunque nella dimensione semicosciente del sogno e della poesia che la vacillante concretezza della realtà trova la sua integrità indistruttibile. Tutto ciò accade nella terza sezione del libro intitolata “Dediche e Devozioni” e il «nuovo padre» elettivo è Giovanni Raboni, l’amico poeta dall’«orecchio assoluto» e dalla «eleganza impeccabile». Davvero intensi e suggestivi i componimenti dedicati all’amico poeta nel ricordo dei luoghi milanesi insieme amati e vissuti: «Cammino, ancora un po’ trasognato, / nei tuoi luoghi in città, e dunque volta a volta / Fiori Chiari, San Gregorio, Fatebene- / fratelli, nell’attesa e nell’ansia / di vederti, chissà, magari spuntare / da un portone per un mio nuovo abbraccio.»

Un abbraccio che presto si estenderà a molte altre dimensioni della vita e dell’arte seguendo la via tracciata dal critico Flavio Caroli cui è dedicata la penultima sezione del libro “L’immagine, la parola”. Una ricca rassegna dei maggiori artisti contemporanei – pittori, scultori, ceramisti ma anche cineasti, registi e scrittori – sono destinatari della riflessione poetica di Cucchi. Mi piace qui citare i versi dedicati a un semplice oggetto un «Sacco» di Alberto Burri: «oggetto elementare, inatteso che turba / l’occhio di norma educato, / vanamente selettivo, come leggendo / il poeta che scrisse “questo sporco / catino dove mi lavo le mani”.» Il poeta citato è ancora Giovanni Raboni.

«Guardando in alto» si legge nel passo citato all’inizio della Metafisica concreta per indicare «l’uomo libero» che ricostruisce la propria integrità in sintonia con il tutto e Maurizio Cucchi, nell’ultima sezione del suo libro, quasi sospinto dal medesimo afflato filosofico-poetico, ci dona questi versi:

C’è chi si aggira con lo sguardo al suolo
e dunque a capo chino e chi invece
osserva diversamente il modo
in cui si trova immerso e scruta, perlustra
lassù i disegni fantastici e insondabili
di minute particelle e cristalli in forme
galleggianti perché a sua volta attratto
da correnti ascensionale cui si vorrebbe
parte coinvolta in un più ampio
e virtualissimo spazio, sentendosi fratello
sempre in divenire di chi viaggia
al tempo stesso inquieto e sereno
tra parola di poesia e sogno musicale. 

paolo.ottaviani@libero.it

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'autore

Paolo Ottaviani
Paolo Ottaviani è nato a Norcia nel 1948 e vive a Perugia. Laureato in Filosofia con una tesi su Giordano Bruno, ha pubblicato negli Annali dell’Università per Stranieri di Perugia saggi sul naturalismo filosofico italiano. È stato direttore della Biblioteca della medesima Università e ha fondato la rivista Lettera dalla Biblioteca. In poesia ha fra l’altro pubblicato: Funambolo (Edizioni del Leone, Spinea, 1992) con prefazione di Maria Luisa Spaziani; Geminario (Edizioni del Leone, 2007), poemetto bilingue vergato in un idioletto neo-volgare e in lingua italiana, con una nota di Paolo Ruffilli;  Il felice giogo delle trecce (LietoColle, 2010) vincitore del Premio “Verba Agrestia”; Trecce sparse (Grafiche Fioroni, 2012) quaderno d’arte diretto da Eugenio De Signoribus; Nel rispetto del cielo (puntoacapo Editrice, 2015) con postfazione di Mauro Ferrari; La rosa segreta – Velate assenze d’armoniche rime (Manni Editori, 2022).