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L’eterno ritorno di Longhi. Lo scrittore che si fece storico dell’arte (e viceversa)

«J’ai deux amours / Mon pays et Paris». Chissà se Roberto Longhi, un giorno dei suoi tanti giorni parigini, uscendo dal Louvre ha fischiettato questo successo, indimenticabile, di Joséphine Baker del 1930: «Par eux toujours / Mon cœur est ravi» e via discorrendo. Magari pioveva. E Longhi, con la sua mente bruciata dalle immagini appena vedute, si sarà, per caso, rifugiato in quella medesima crèmerie di Rue de Rivoli, dove nel 1920, terminata la guerra, era riuscito a stendere in un gettito creativo folgorante gli appunti sull’Annunciata di Carlo Braccesco. Si era consumata in quella latteria la tenzone tra la poesia visiva e la poesia verbale, tra la filologia attributiva e lo slancio lirico: una paginetta di annotazioni che, ripresa da Longhi nel saggio su Braccesco del 1942, sarebbe divenuta un emblema del suo metodo critico. A pochi passi, in quella Parigi inizio anni ’20, Marcel Proust terminava, in duello contro la malattia e la morte, il proprio monumento alla letteratura, intesa come salvezza, come via di fuga rispetto a un senso del mondo perennemente, a sua volta, in fuga. Un grande interprete della prosa longhiana, Cesare Garboli, non ha mancato di porre in rilievo questa vicinanza storica e geografica tra i due: diversi e complementari, Proust e Longhi fondevano nella parola scritta quanto avevano vissuto e, al tempo stesso, l’urgenza di salvarlo, di cristallizzarlo in una nuova forma di immagine.

Parafrasando la canzone della Baker, dunque, il mistero, anzi lo scandalo dell’opera e dell’attività di Roberto Longhi è che davvero avrebbe potuto dire, confondendo qualsiasi gerarchia, qualunque grado di preferibile affiliazione disciplinare (accademica, professionale): «Ho due amori: la storia dell’arte e la scrittura letteraria» e viceversa, l’ordine è di comodo. E il mondo sembra scomparire, inghiottito, dentro questo fatale binomio, entro il quale il più insigne storico dell’arte italiano del Novecento ha fatto passare la sublimazione della propria esistenza. Questo oggi è un dato di fatto. Ma il riconoscimento di tale dualismo ineludibile ha una storia lunga, i cui momenti si intrecciano tra loro. Già gli atti del convegno dedicato al decennale della sua scomparsa, tenutosi a Firenze nel 1980 (era una sorta di primo, vero confronto con la sua lezione da parte di generazioni e mentalità diverse), testimoniano che persino gli storici dell’arte più severi e legati a una dimensione della materia più, diremmo, scientificamente delimitata, avevano dovuto iniziare le loro relazioni con un’ammissione. La storia dell’arte, la filologia artistica di Roberto Longhi è la sua scrittura. O meglio, come puntualizzava allora Giovanni Previtali, la pagina letteraria di Longhi è tanto un valore in sé quanto una funzione centrale del suo metodo di riconoscimento e di attribuzione delle opere d’arte. Supervisionava i lavori di quel convegno, così composito e pionieristicamente ibrido (Giovanni Testori e Previtali, Mina Gregori e Garboli, Ezio Raimondi e Giovanni Romano), ormai entrato nella leggenda, postuma, di Longhi, il suo amico fraterno Gianfranco Contini, gran sacerdote della filologia letteraria. Quest’ultimo, sette anni prima, aveva dato alle stampe un’antologia degli scritti longhiani, priva di immagini, da lui preparata con devota acribia. Curatore e curato, antologista e antologizzato avevano dato vita a un’esperienza unica: il «Meridiano» dal titolo programmatico Da Cimabue a Morandi. Il racconto della nostra civiltà pittorica nella seduzione degli artifici verbali longhiani, scelti con cura da un altro “scienziato” dalla penna quanto mai letteraria.

Quel libro voluttuoso, per i giochi stilistici della prosa di Longhi (che Contini vuole fotografare nel suo mutare, nel suo progressivo ridurre la propria marcatissima espressività degli esordi, ripulendosi, classicizzandosi), e iconograficamente ascetico, ora per merito di Einaudi è tornato a disposizione dei lettori. Ma non si tratta di una ristampa, di una riproposizione identica all’edizione mondadoriana esaurita e di difficile reperibilità. Ammettiamolo: il tempo è passato anche su Longhi. Piaceva a Garboli insistere, mentre chiudeva in quel convegno del 1980 il proprio raffronto tra lo storico dell’arte e Proust, sugli ultimi istanti narrativi della Recherche, quando il Narratore crede che i suoi amici si siano mascherati; e invece, era solo il passare degli anni che aveva mutato i loro volti. Anche alle più straordinarie e centrali esperienze intellettuali accade questo, ed è risaputo, per quanto sia complesso e talvolta imbarazzante misurare il deteriorarsi di quanto ci aveva rapito, mentalmente sedotto. Di quanto avevamo cominciato ad applicare o imitare in pedante fascinazione rimane solo la coscienza dell’errore: i primi amori, epistemici, sono spesso, se trascinati alla lunga, catastrofici e petulanti. Soprattutto in un campo come quello della storia dell’arte italiana, cioè in continua evoluzione di scoperte e di perpetua resa dei conti con gli errori attributivi degli studi precedenti, un tempo all’avanguardia, ora in parte superati. Eppure, Longhi è a pieno diritto un privilegiato: viaggia su una strada tutta sua, in virtù di quella parola letteraria e scientifica che invera costantemente il suo metodo, persino quando le conclusioni cui è giunto non sono più attendibili o condivisibili. L’operazione einaudiana si colloca, dunque, in un interstizio difficile, parimenti cauto e spericolato: da una parte, riconsegna la medesima scelta di testi costruita da Contini, primo, sistematico architetto della fortuna di Longhi, una volta che questi, personaggio ammaliante e dal carisma favoloso, è uscito di scena; dall’altra, la contestualizza, innovandola dall’interno. Il volume, corredato da uno splendido apparato iconografico, – tipico del resto della collana dei «Millenni» cui questa antologia appartiene –, riporta la rievocazione longhiana delle immagini nel segno materico della pittura. Ovviamente, continuano ad aleggiare i fantasmi dentro questo libro: non vanno rifiutati, giacché il loro domatore d’elezione è proprio quel Longhi, che inventa finte lettere di finti corrispondenti di eruditi come l’abate Lanzi, o che sa richiamare in vita nomi completamente dimenticati grazie al riconoscimento di un particolare (del brillare di un certo colore, del trasudare accaldato di un dettaglio floreale). Non cessa mai, però, di essere rigoroso, implacabile nell’interrogare direttamente l’opera e nel farsi confidare i suoi segreti, giocando con il suo, più apparente che reale, disprezzo per i documenti, per le carte che circondano, come fonti per nulla accessorie, i dipinti e la loro storia. Ogni saggio di questa nuova edizione presenta un ricco e puntualissimo cappello introduttivo a firma di uno specialista del testo in questione. Lo studioso di turno non solo ripercorre la genesi, ma compie altresì l’ardua impresa di porsi in ascolto della riflessione longhiana, ponendola a confronto con quanto dei suoi specifici risultati, presentati in quelle pagine, ormai è fuori dal tempo, inciso nella sua prosa. Non sono più testimonianza di una certa e particolare verità: bensì verità assoluta, di poesia che trascende la funzione per cui è nata, senza però dimenticarla mai.

Di particolare pregio, soprattutto rispetto alla sfida dell’editore di conservare e frammentare il disegno tracciato da Contini, si rivela essere la prefazione di Lina Bolzoni. Quest’ultima in Italia ha contribuito a colmare quella distanza tra parole e immagini, altrove già da tempo superata e, dunque, divenuta linea di ricerca fertile di studi fondamentali, nel solco, anche e non solo, di Aby Warburg e dell’Istituto che porta il suo nome. Nella doppia veste di storica della letteratura italiana e di specialista di questo intreccio tra tecnicamente differenti forme d’espressione, Lina Bolzoni si mette sulle tracce di un Longhi mimetico di fronte alla realtà fisica e pittorica, come già lo presentava l’introduzione di Contini del 1973. Tuttavia, la studiosa precisa subito che, mentre il grande filologo cercava con ogni sforzo di consegnare Longhi alla letteratura, in questo momento storico ciò che interessa è il modo in cui «nelle pagine longhiane, parole e immagini interagiscono, in un dialogo, in uno stile e in un linguaggio inconfondibili, che forse oggi siamo più in grado di apprezzare». Si tratta di una giustificazione necessaria per i cambiamenti apportati da questa edizione nel meccanismo di un libro dove, al suo apparire, le immagini tacevano e i singoli saggi erano lasciati al lettore senza alcun filtro culturale, senza una prospettiva d’insieme già al tempo, almeno per i saggi della giovinezza, difficilmente eludibile. Ma che cosa s’intende per mimetismo longhiano? Questa categoria o, se si preferisce, sfumatura ermeneutica continiana è ancora valida? Per la Bolzoni, «siamo davanti a una straordinaria sfida comunicativa, difficile, coinvolgente, a volte respingente». Longhi è mimetico, ossia sommamente teatrale, costruisce nelle sue descrizioni ecfrastiche una scena intessuta di percorsi inaspettati, di scoperte tanto logiche, cioè condotte sul filo di una razionalità lucidissima, quanto sorprendenti. E dunque, anche di polemiche e sprezzanti idiosincrasie. Per dare voce a un mondo che, al modo di Proust, da vero e autentico novecentesco (non per nulla, massimo critico di Giorgio Morandi), Longhi avverte squalificato dal punto di vista ontologico, questo studioso-scrittore (o scrittore-studioso) si fa attore, respiro recitante della farsa di esistere. La pittura è specchio della realtà, quindi di un nulla da rievocare come se fosse l’opposto? Oppure, solo attraverso l’illusione pittorica si può giungere alla realtà? E la parola del critico narratore che ruolo riveste? La sua mimesi è finzione della finzione? Rappresentazione/spiegazione della verità del quadro, conquistata più dal critico che dal pittore, suo creatore? Il nodo appare inestricabile, quindi siamo invitati a misurare il nostro passo, a procedere per gradi, saggio dopo saggio: «Longhi guida il nostro sguardo su di un particolare e nello stesso tempo lo mette in scena, convoca intorno a quel punto una miriade di associazioni, un proliferare di metafore e rinvii che incatena la nostra attenzione e insieme ci coinvolge nella frequentazione del cosmo rievocato», sintetizza la Bolzoni.

In definitiva, il piacere di ripercorrere un libro come questo re-inventato Da Cimabue a Morandi equivale a trovarsi a confronto con interrogativi sulla natura della personalità e della scrittura longhiana che si sono sedimentati per decenni nell’immaginario tanto di esperti quanto di appassionati lettori. Le domande, affrontate nella condizione storica di pagine talmente celebri da sembrare senza origine, senza data, senza storia, volgono però tutte nella medesima direzione. Possibile consegnare al pubblico un “Longhi” non scisso, colto nel cuore della complessità, nella sua sconvolgente modernità, senza trascurare i limiti della sua prospettiva? Se, come sottolinea sempre Lina Bolzoni in chiusura del proprio saggio, per Longhi la poesia, le parole ricadevano, annullandosi o sublimandosi, nel turbine della traduzione verbale dell’immagine; è però altrettanto vero che affiora costantemente il dubbio che, per legittimo paradosso, i quadri non esistano fuori dalle parole, da quella poesia di cui ci si è serviti. Ci si avvii, allora, alla sfida di questo volume, splendido e un po’ spiazzante, fermandoci quando ci si deve fermare, balzando, alla bisogna, lungo le analogie e le visioni baluginanti di quel mistero, indefettibile scardinatore di discipline e di confini, chiamato Roberto Longhi: «J’ai deux amoursPar eux toujours / Mon cœur est ravi».

jacopo.parodi@phd.unipi.it

 

 

 

L'autore

Jacopo Parodi
Jacopo Parodi é dottorando di ricerca in Italianistica presso l’Università degli studi di Pisa in cotutela con l’Università di Siena. Ha studiato principalmente Daniele Del Giudice e Giulio Bollati.