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Il greco di Han Kang

«Ma, a mio avviso, c’è grandezza solo nella dolcezza», diceva Simone Weil. «Io direi piuttosto», replicava Maurice Blanchot, «non c’è nulla d’estremo se non nella dolcezza». È tra questi due poli, la dolcezza e l’estremo, che sembra svolgersi L’ora di greco della scrittrice coreana Han Kang, pubblicato da Adelphi nella traduzione di Lia Iovenitti, con la cura editoriale di Milena Zemira Ciccimarra.

La dolcezza è un modo di stare al mondo, mentre estrema è la sofferenza che accomuna i protagonisti di questa storia di approssimazione, più che di amore. Non hanno un nome, sono un’allieva e un uomo in cattedra. Quello che li avvicina è una mancanza – della parola per l’una, della vista per l’altro – che rende incerti i loro rapporti con la società.

La donna ha uno sguardo intelligente ma difficile da scorgere dietro le palpebre tremolanti. Ha la schiena e le spalle curve, come se volesse fuggire dal mondo e rintanarsi nei suoi vestiti neri, senza colore. Le unghie sono cortissime, come ritirate. La affligge «quella cosa» che già l’aveva tormentata da ragazza, e che adesso, senza alcun segnale di preavviso, è tornata sei mesi dopo la morte della madre e alla fine di una battaglia legale che le ha tolto l’affidamento del figlio. «Quella cosa», che non per caso nel romanzo non ha un nome, è l’impossibilità della parola. D’un tratto, la donna ha dimenticato come usare le labbra. Il suo corpo è assediato dal silenzio. Lo spasmo alle palpebre ha sostituito la capacità di parlare. La sua voce non si propaga più e lei ha preso a occupare meno spazio nell’universo. Ha sospeso il lavoro all’università, dove insegnava letteratura, e ha cominciato a seguire un corso di greco antico, nella speranza che, come era avvenuto in passato, una lingua sconosciuta possa far sì che d’improvviso un borbottio cominci a sgorgare da lei.

Il professore, tramite di quella lingua antica che in quanto tale forse può essere appresa anche nel silenzio, ha poco meno di quarant’anni, è minuto, con un sorriso appena accennato come nel tentativo di frenare le emozioni. Indossa una giacca di velluto con le toppe ai gomiti e le maniche un po’ troppo corte che lasciano i polsi scoperti. Convive con una diagnosi che è una condanna, vive nell’attesa che tutto diventi nero. Porta delle spesse lenti verde chiaro, attraverso cui, durante le lezioni, fissa la bocca serrata della donna. Lei, a sua volta, osserva sul viso dell’uomo una cicatrice che parte dall’occhio sinistro e termina accanto alle labbra e che sembra il percorso solcato dalle lacrime.

Da un lato c’è l’afasia, dall’altro la cecità incalzante. Esseri senza nome e senza rifugio, entrambi portano le tracce di un dolore estremo somministrato al lettore con oculatezza, senza sentimentalismi, senza platealità. Insieme scoprono «che non c’è mai nulla di perfetto, non in questo mondo, perlomeno». Le conversazioni possono solo essere immaginate, ma, come diceva Borges, «il mondo è un’illusione e la vita un sogno».

Il tema è tutt’altro che leggero, eppure pochi altri libri incarnano come L’ora di greco quell’ideale di leggerezza descritto da Calvino nelle Lezioni americane. I due protagonisti sono sgravati da qualcosa, sono costruiti per «sottrazione di peso», hanno una rara dolcezza d’animo che li allevia dalla pesantezza del vivere. L’assenza del nome dei personaggi diventa allora il simbolo della rinuncia a un rapporto di pienezza con il mondo circostante. E quando il mondo ovattato dell’allieva e quello sfocato dell’uomo in cattedra si intersecano, persino la scrittura si alleggerisce, si fa frammentata, quasi volatile. Splendida l’opera di Ji Seok Cheol in copertina, Non-esistenza (2009), che, riprendendo le parole di Calvino, simboleggia la «dissoluzione della compattezza del mondo».

teresa.lussone@uniba.it

(L’articolo è stato pubblicato in precedenza sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” il 2 gennaio 2024)

 

L'autore

Teresa Lussone
Teresa Manuela Lussone è ricercatrice di Lingua e traduzione francese all'Università di Bari Aldo Moro. Specialista delle opere postume di Irène Némirovsky, ha curato con Olivier Philipponnat la nuova edizione di Suite française (Denoël, 2020) e di Les Feux de l'automne (Albin Michel, 2014). Con Laura Frausin Guarino ha tradotto Tempesta in giugno, prima parte di Suite française (Adelphi, 2022). Ha scritto svariati articoli sull'autobiografia di Sartre e attualmente sta preparando l'edizione di due opere di Sophie Cottin per Classiques Garnier.
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