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Contro la maschera di Lindoro. Un profilo di Giulio Bollati

Il verdiano Duca di Mantova non disdegna, – ogni melomane un filo accorto lo sa –, di mescolarsi al popolo e di sedurre l’altera moglie del Conte di Ceprano, ma anche l’umilissima Gilda, la figlia del proprio buffone. Memorabile la scena del Rigoletto in cui, avendo udito il Duca che Gilda non lo avrebbe amato se nobile o ricco («sento che povero / più l’amerei»), si dichiara pomposamente (è la vanità di una facile astuzia) «studente e povero». Dopo, la sventurata Gilda dovrà dolersi di questo binomio, a dir poco mendace soprattutto se paragonato alla vera natura e agli interessatissimi fini del Duca. Qualcosa di simile, anche se l’inganno è volto in bene, e il lieto fine è, fin da subito, in agguato, avviene nel rossiniano Barbiere di Siviglia. Il corteggiatore di Rosina, il Conte di Almaviva, – magari impersonato da un immortale Alfred Kraus –, che si rivela, grazie al consiglio di Figaro, maestro di travestimenti, nel primo atto si finge il puro di cuore e assai vuoto di tasca Lindoro, facendo vertere su quel nome parlante, e fasullo, il gioco della sua seduzione: «Se il mio nome saper voi bramate, / dal mio labbro il nome ascoltate. / Io son Lindoro». E ovviamente, va da sé che «l’amoroso e sincero Lindoro / non può darvi, mia cara, un tesoro». Non è ricco, non è Conte: se Rosina lo vuole, deve sposare, al modo di una disinteressata prova d’amore, il casto nome con cui si è travestito, e poi si vedrà. Ad arbitrio del Conte, che sa al momento giusto dare il benservito all’utile e servile maschera di Lindoro.

La storia di queste mistificazioni operistiche, del nobile che si finge un povero di buon cuore per sedurre la bella e ingenua popolana o semi-popolana, avrebbe potuto, e forse voluto, scriverla l’insospettabile Giulio Bollati. Lasciamo, però, Lindoro a cantare e, tra finzione e verità, sospirare d’amore «dall’aurora al tramonto del dì»: il nodo culturale del travestimento dell’aristocrazia, a svantaggio di un popolo ingannato che la crede vicina e benevola, si riflette nel melodramma. Preoccupiamoci dell’interprete, prima di ritornare sulla scena del travestimento. Infatti, se Giulio Bollati ha fatto correre nelle sue pagine, pubbliche e private (lettere, appunti), il filo rosso dell’inganno e della seduzione che Lindoro incarna; occorre, altresì, situare l’opera di Bollati nel suo tempo storico, nel suo dialogo con i protagonisti del secondo Novecento italiano. Di Bollati, Einaudi, alla fine di un anno dedicato alle celebrazioni per il centenario della sua nascita, con ristampa di alcuni volumi che raccolgono i suoi scritti letterari e storico-politici, ha pubblicato una ricca e sfumatissima scelta dell’epistolario editoriale, a cura di Tommaso Munari. Serio, moralmente intransigente funzionario editoriale, che per quasi trent’anni, dal 1949 al 1978 formalmente, Bollati è stato de facto alla guida dell’Einaudi. E per essa, riassumendo le considerazioni della sua maggiore storica, Luisa Mangoni, si intende la casa editrice italiana che, più di ogni altra, ha saputo costruire, nell’immediato dopoguerra, una solida egemonia culturale, capace di passare tanto attraverso la narrativa italiana (contribuendo in modo determinante a disegnarne la fisionomia), quanto per la saggistica universitaria e in generale rivolta a un pubblico di media cultura, desideroso di migliorarsi. Quindi, chi era veramente Giulio Bollati? Quando il suo cammino si intreccia con sedicenti Lindori, siano essi Conti o Duchi, e usa la penna per tracciare il negativo, fuor di melodramma, del tradimento di un’intera classe di nobili e di intellettuali (nobiltà e intellighenzia, per lunghi secoli, coincidono saldamente, tanto in Europa quanto, soprattutto, in Italia)? Anch’egli di nobili origini, savoiarde (Delio Cantimori, suo maestro, lo chiamerà sempre, vezzeggiandolo con scherzo, «Signor Barone»), Bollati è nato nel 1924 a Parma, negli anni ’40 diventa allievo della Scuola Normale Superiore di Pisa, raffinatissimo italianista, autore di pagine illuminanti su Leopardi già dai tempi universitari (la sua tesi di laurea su Leopardi e i romantici milanesi è un capolavoro di passione civile e di acume storico-critico), e poi funzionario editoriale, per un caso della sorte (stava andando a Parigi per una borsa di studio, quando si ferma a Torino a salutare un amico all’Einaudi: e, assunto dal volitivo Einaudi, a Parigi, a fare l’aspirante professore, non andò più). Comincia subito a scrivere lettere, di ogni genere. Scrive, soprattutto agli esordi, lettere diplomatiche, in cui cerca di attenuare, di travestire e addolcire le decisioni di Giulio Einaudi e del consiglio editoriale. Del resto, Tommaso Munari, che si è già occupato in passato della pubblicazione, in due volumi che attenderebbero ancora un degno seguito, dei Verbali del Mercoledì, sa bene come la voce di Bollati, per quanto nascosta in una sorta di zona grigia manageriale che solo queste lettere permettono ora di illuminare, si sia fatta sentire chiaramente già nell’immediato periodo che segue la morte di Cesare Pavese. In un consiglio editoriale del 1951, opponendosi ad Antonio Giolitti, – in quel momento ancora rappresentante dell’ortodossia comunista –, lamenta l’odore stantio dell’antifascismo torinese, di quella tradizione cui egli si richiamava, sì, ma di cui intravedeva tutti i limiti. Soprattutto, se sposava le inerti e autocompiaciute nostalgie del proprio eroismo con un comunismo cieco. Cioè, una dottrina marxista che, invece di rileggere attivamente, in modo critico e inquieto la lezione di Gramsci e del liberale Gobetti, si proponeva di imporre un’editoria dispotica, volta all’educazione delle masse, alla loro istruzione mediante certi libri e non altri. Le aperture alle nuove scienze, alle nuove frontiere della sociologia, del cinema, dell’arte, delle scoperte tecnico-scientifiche non dovevano essere delle concessioni filtrate dalle alte sfere del PCI, al fine non di informare bensì di formare (e, diremmo meglio, di indottrinare), ma al contrario un obbligo cui, da intellettuali consci del proprio ruolo, non ci si poteva sottrarre. Certo, tutto deve essere, come testimoniano le preoccupazioni progettuali di Bollati presenti come un filo rosso nelle lettere raccolte da Munari, dosato con armonia, con paziente cura degli equilibri: le collane editoriali, così come i singoli libri (quando, come nel caso di una magnifica lettera a Leonardo Sciascia dell’ottobre 1974, sono aperti a consigli e suggerimenti), rispondono a un ideale più grande, cioè a una visione d’insieme, ben rappresentata negli scritti editoriali che coronano l’elegante volume einaudiano. Umanesimo tradizionale, di ascendenza classica, e scienze dure, matematica o fisica e retorica classica, economia politica e poesia, narrativa intimista e filosofia, archeologia e fantascienza: nulla può e deve essere trascurato da parte di chi, attraverso il lavoro editoriale di cucitura delle collane e dei libri altrui, intende, come scrive egli stesso su «MicroMega» alla fine degli anni ’80 (quando ormai si è consumato il suo breve ritorno all’Einaudi, dopo la bancarotta e l’addio temporaneo di Einaudi medesimo), ambire per sé e soprattutto per gli altri a una cultura che sia «visione planetaria». I suoi veri modelli, risvegliati da un anacronismo, pur colmo di celebrazioni, in cui la loro sconvolgente lucidità anzitempo li aveva confinati, sono Leopardi, Marx (in particolare modo, il Marx giovane dei Manoscritti economico-filosofici) e Baudelaire. In breve, i grandi interpreti della modernità, di un Ottocento che si fa carico di sconvolgimenti scientifici, sociali, culturali la cui incomprensione impedisce al secolo successivo di risolvere le pesanti e terribili contraddizioni lasciate dalla Rivoluzione industriale. Essa, con i suoi effetti e ricadute di largo raggio, è in sostanza la modernità, per Giulio Bollati.

Nell’introduzione del 1968 alla Crestomazia della prosa di Giacomo Leopardi, libro negletto, misconosciuto e relegato alla curiosità erudita, Bollati tratteggia un formidabile autoritratto di sé, che i lettori di questo epistolario ritroveranno non solo nello scambio con Sebastiano Timpanaro (riguardante nello specifico la Crestomazia e il dibattito sul Leopardi che ne esce fuori), ma in fondo in ognuna delle lettere pubblicate. Giulio Bollati consegna e restituisce un Leopardi fantasioso, animato da una straordinaria e vitale immaginazione, che si volge però in un progetto tanto utopico quanto preciso. Il poeta-antologista della prosa italiana taglia, cuce, ricuce, smembra e salda i testi altrui per liberarli del peso, dell’oscurità, delle inutili, a suo giudizio, eccedenze di stile e significato che il tempo in cui sono nati ha fatto crescere loro addosso. Li rende, in altre parole, moderni: ossia, aderenti e funzionali alla sua idea di modernità. Come puntualizza costantemente Bollati, Leopardi vuole far emergere da quest’opera compilatoria, che si svela essere di vera, autentica poesia, un uomo consapevole del crollo dell’Antico Regime e delle strutture sociali repressive, – arte compresa –, che lo sorreggevano e giustificavano. La Rivoluzione industriale, proseguimento di quella copernicana e galileiana che ha rivelato l’infinità dei mondi e la consequenziale miseria dell’uomo, smarrito in un vuoto cosmico, conferma e velocizza l’avvenuto sconvolgimento di quanto si credeva regolato dalla fede e dal potere tradizionalmente intesi. Eppure, soprattutto in Italia, questo non è stato capito. Anzi, – ed è questa la tesi centrale del saggio più famoso di Bollati, L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, pubblicato nel primo volume della Storia d’Italia Einaudi (1972) –, alla radice del misconoscimento del ruolo che avrebbero potuto giocare le masse nel mondo moderno, giacché lo smarrimento ontologico dell’uomo apre in teoria alla sua libertà dai vincoli pregressi, c’è indubitabilmente, secondo Bollati, l’accordo ingannevole tra la nobiltà intellettuale e la nuova borghesia capitalistica, assetata di profitto. L’Italiano si apre, non per nulla, nel nome rossiniano di Lindoro («Io son Lindoro», intona Bollati per esemplificare gli stereotipi dell’italianità). Lindoro è dunque la personificazione del nobile colto, ricco, che si traveste da benevolo galantuomo dal cuore sincero per amare e guidare la sua Rosina, senza far valere su di essa, in apparenza, la sua superiorità sociale. Come un pensiero fisso, un chiodo inestirpabile, come scrive Bollati al suo antico maestro Cantimori (con cui intrattiene un carteggio fittissimo per circa vent’anni, dal ’45 al ’66), questo storico della letteratura e della cultura italiana prestato all’editoria, spinto dal sogno leopardiano di rinnovamento della società umana, – utopico e realistico come è utopica e realistica la Ginestra –, riflette nel corso dei decenni sulle colpe di quella nefasta classe di aristocratici intellettuali, che promettono il progresso e l’amore fraterno al popolo, sfruttato dalle nuove logiche industriali, per mantenerlo sottomesso a regole e dettami che la modernità ha in realtà cancellato. L’origine di tale classe di bugiardi privilegiati, in cui si rispecchia una buona parte dell’intellighenzia italiana del primo e del secondo Novecento, è ricondotta con insistenza da Bollati ai romantici milanesi del «Conciliatore» (1816-1821). A questi è vicino, nella colpa, anche Alessandro Manzoni, il difficilissimo e tragico personaggio chiaroscurale, altissimo nel suo metafisico tormento, che abita in un complesso confronto di analogie e differenze con Leopardi, oltre alle vertiginose pagine che aprono le Tragedie manzoniane del ’65, anche le lettere di Bollati. Come quella splendida, vertice del Bollati epistolografo che Tommaso Munari sa svelare e cogliere nei suoi momenti migliori, a Elsa Morante sulla Storia in difesa delle critiche che il romanzo aveva ricevuto (è il 25 febbraio del 1974): «Bisogna dire che Manzoni e Leopardi, ciascuno a modo suo, e traendone conclusioni e risultati poetici molto distanti, hanno individuato il tema di tutti i temi: il posto dell’uomo inerme nell’urgano della Storia contemporanea. Questo tema è stato troppo spesso dimenticato dagli scrittori venuti dopo, e preso di scorcio, o deformato in altri. Chi lo riprende in modo “classico” è Elsa Morante».

La lettura di questo carteggio scelto di Giulio Bollati conferma, quindi, quello che scriveva su di lui Ernesto Ferrero, ossia che egli si muoveva con comodità tra Settecento e Ottocento come nelle stanze di un castello, di cui conosceva tutti gli anfratti, le stanze segrete, i corridoi che si aprono dietro a un quadro, le alcove recondite di peccati noiosi e inconfessabili. Ma era, concludeva Ferrero, il Novecento, la vera passione di Bollati. Nel Novecento questa singolare figura di editore, storico, critico letterario (oltreché esperto di arte, fotografia, dunque «planetario» sia nelle aspirazioni che nei fatti) intravede la possibilità di un riscatto. O meglio, nelle pagine di scrittori come la Morante o Sciascia, di intellettuali come Cantimori o Timpanaro, crede, se non realizzabile, almeno auspicabile un risveglio delle coscienze, uno smascheramento della frode che tiene fuori dalla Storia la maggioranza di coloro che, in definitiva, sono la Storia: le masse ridotte al silenzio o tuttalpiù al lamento, come avviene per il coro degli italici nell’Adelchi. Il ruolo dell’editore, – perché in fondo questo libro di lettere vuole essere una lezione, ricostruita, sì, ma fedele di editoria –, deve essere paragonabile a quello del menzionato Leopardi antologista: aiutare e indirizzare, mediante l’inserimento nella giusta cornice, gli sforzi degli scrittori verso una critica attiva e costruttiva della modernità. Leopardi e il suo ideale allievo e sodale, Giulio Bollati, non negano il progresso, né lo rifiutano. Ritengono, anzi, che esso debba essere vissuto fino in fondo, portando ai limiti estremi la comprensione di esso da parte della ragione: e alla fine del deserto ontologico ed esistenziale che essa ha svelato, annichilendo il velo della cultura salvifico della cultura tradizionale, è possibile ritrovare un sentimento sincero di fraternità umana. A tale ideale di democrazia e di uguaglianza aspirava l’uomo che dietro le quinte, nascosto da una maschera opposta a quella degli innumerevoli Duchi di Mantova o Conti di Almaviva, tutti travestiti da un a-temporale “Lindoro”, ha cercato di garantire una fertile, e quasi impossibile, comunione tra libertà creativa, salvaguardia dell’individualità di ciascuno e, per converso, quel disegno di convivenza civile più giusta e cosciente del vuoto spalancato dalla modernità. Su questo fragile filo, in sapiente equilibrismo, ha camminato tutta la vita Giulio Bollati. E ora le sue lettere consentono a noi testimoni ed eredi di tale lezione di integrare e leggere in controluce quei suoi saggi così luminosi e, talvolta, così spregiudicati che costituiscono, a nostro giudizio, la più organica meditazione di un italiano sulla necessaria e ineludibile sfida del diventare ed essere moderni. D’altronde, nonostante l’abilità di diplomatico dimostrata nelle pagine di questa raccolta, – abilità contro cui lo stesso Bollati si scaglia, come una semplificazione del proprio carattere, rivendicando la propria irrequietezza per esempio nella lettera del 8 settembre 1980 a Franco Fortini («Certo, io passo per un esperto diplomatico. […] Sono un irriducibile e sprezzante e insopportabile rompitore di taci accordi») –, egli resta e rimane, al modo del suo Leopardi, un elegante ma radicale, sovversivo, tenace oppositore. Alla ricerca di una società e di una letteratura più umane: ricerca, che nel tracciato, nel negativo fotografico delle lettere di Bollati ha il tono, il ritmo e il sapore di un’indomita avventura. Si possono applicare, dunque, a questo implacabile smascheratore di Lindori, di gabbie e inganni talmente diffusi e avvolgenti da essere impalpabili, le parole che egli rivolgeva, sempre l’8 settembre 1980, a Fortini: «Genialmente insopportabile, insopportabilmente geniale, non sarai perdonato». Quale migliore autoritratto del miracolo di un mascheramento sincero? Certo, squisitamente, bollatianamente, leopardiano.

jacopo.parodi@phd.unipi.it

 

 

L'autore

Jacopo Parodi
Jacopo Parodi é dottorando di ricerca in Italianistica presso l’Università degli studi di Pisa in cotutela con l’Università di Siena. Ha studiato principalmente Daniele Del Giudice e Giulio Bollati.