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L’Eredità di Seneca fra Medioevo e Umanesimo. Dialogo con Sara Fazion

Sara Fazion svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna, dove ha conseguito il Dottorato di ricerca in Culture letterarie e filologiche, la Laurea Magistrale in Italianistica, Culture letterarie europee e Scienze linguistiche con una tesi in Filologia medievale e umanistica e la Laurea in Lettere moderne con una tesi in Letteratura latina. I suoi interessi concernono specialmente la ricezione dei classici durante il Medioevo e l’Umanesimo, il fenomeno della lectura e del commento agli auctores, e la formazione coeva delle biblioteche. Autrice di vari contributi e articoli, ha da poco pubblicato per Franco Angeli la monografia Seneca tragico fra Medioevo e Umanesimo. Esegesi e fortuna.

Innanzitutto, carissima Dottoressa Sara Fazion, la ringrazio per aver accettato di parlarci del suo nuovo libro Seneca tragico fra Medioevo e Umanesimo. Esegesi e fortuna. Perché ha scelto di scrivere su questo argomento e qual è stata l’importanza delle tragedie di Seneca durante il Trecento e l’inizio del Quattrocento nel contesto culturale italiano?

Gentilissimi redattori, anzitutto vi ringrazio molto per avermi invitato a conversare con voi sul mio libro Seneca tragico fra Medioevo e Umanesimo. esegesi e fortuna. L’interesse per questo argomento ha in realtà, per me, origini remote. Ho infatti da sempre nutrito un grande amore per gli scritti di Lucio Anneo Seneca, almeno sin da quando frequentavo le scuole superiori. In seguito, frequentando l’Università, ho potuto approfondire lo studio delle opere di Seneca, cominciando da quelle filosofiche ma finendo per appassionarmi alle sue Tragoediae. “Punto di non ritorno” di questo amore è stato scoprire che anche un illustre autore della letteratura italiana si era interessato alle Tragoediae: mi riferisco a Francesco Petrarca, che lesse e postillò l’opera nel ms. Escorialensis T III 11, rievocandola poi in modo originale nei propri scritti. Questo dialogo filologico e interpretativo mi affascinò moltissimo, tanto da farne l’argomento della mia tesi di laurea magistrale. Al termine di questo studio, divenne però palese che Petrarca non era stato l’unico intellettuale del Trecento a interessarsi alle Tragoediae. Iniziai quindi a seguire le orme che l’opera aveva lasciato sul sentiero della sua tradizione da fine Duecento ai primi anni del Quattrocento. Accanto a nomi di lettori e interpreti ben noti, come Nicolaus Trevet, Albertino Mussato, Giovanni Boccaccio, incontrai anche quelli di alcuni professori-esegeti del Trecento meno studiati, come Giovanni del Virgilio, Pietro da Moglio, Domenico Bandini, Bartolomeo del Regno, Petrus Parmensis, e quelli di alcuni loro allievi importanti, come Francesco da Fiano, Francesco Piendibeni da Motepulciano e soprattutto Coluccio Salutati. Risultò allora chiaro che le lezioni e i commenti dedicati alle Tragoediae dagli esegeti del Trecento avevano giocato un ruolo fondamentale per la diffusione dell’opera e per la sua comprensione da parte di quegli allievi che diverranno in seguito i paladini dell’Umanesimo, che proseguirono e incentivarono i riferimenti ai classici (compreso Seneca tragico). Dunque, studiare il fenomeno di esegesi e lectura delle Tragoediae fra XIV e XV secolo – anche attraverso l’edizione di testi rimasti inediti o pubblicati parzialmente – mi sembrò fondamentale: scopo era infatti spiegare come mai tale opera, quasi dimenticata fino al Duecento, avesse poi conosciuto grande fortuna durante l’Umanesimo quattrocentesco e ancor più nel corso del Rinascimento, quando divenne anzi uno scritto imprescindibile per la rifondazione del teatro europeo.

Come hanno gli autori, gli studiosi e i commentatori di quel periodo interpretato e utilizzato le Tragoediae di Seneca nei loro scritti? Può farci qualche esempio?

Per comprendere le varie sfaccettature della ricezione delle Tragoediae nel Trecento, credo sia utile distinguere almeno due schieramenti di intellettuali che lessero e interpretarono l’opera: ossia, gli ‘autori’ e i ‘professori-esegeti’. Premetto che questa è solo una differenziazione utile a esemplificare la capillarità della ricezione delle Tragoediae, dato che, nella realtà, i rapporti tra ‘autori’ ed ‘esegeti’ furono assolutamente stretti. Si pensi ad esempio al fatto che Pietro da Moglio, esegeta e professore delle Università di Bologna e Padova, fu intimo amico di Petrarca e di Boccaccio, tanto da ospitare il secondo in casa propria e da scambiare con il primo diverse missive private. Ma torniamo alla questione dell’utilizzo delle Tragoediae, focalizzandoci anzitutto su un ‘autore’ come Petrarca. Come anticipato, egli lesse l’opera in modo esteso e durante più momenti della sua vita, lasciando, nel suo manoscritto, diverse annotazioni a margine del testo al fine di evidenziare determinati concetti e immagini. Poi, ricordando i passi di Seneca, Petrarca alluse alle parole dell’autore in maniera originale nelle proprie opere, trattando ad esempio di temi politici, filosofici, letterari, religiosi, ma anche della sua vita personale o di questioni di erudizione. Stessa cosa fece Boccaccio, che riprese le Tragoediae in un numero davvero elevato di luoghi. Testimonianze, queste, alle quali per ora purtroppo non possiamo però affiancare postille di Boccaccio al testo delle Tragoediae, non essendo ancora stato identificato con certezza alcun manoscritto senecano appartenuto all’autore del Decameron. Parlando, invece, degli esegeti-commentatori, le testimonianze superstiti ci mostrano l’abitudine di questi intellettuali ad approcciarsi alle Tragoediae in vari modi. Ad esempio, citando l’opera entro commenti da loro composti attorno ad altri scritti (come fece Giovanni del Virgilio), oppure focalizzando intere lecturae sullo scritto di Seneca. In quest’ultimo caso, abbiamo testimonianza di almeno due pratiche di commento del testo. Da un lato, sono infatti sopravvissuti innumerevoli manoscritti che, nei margini e nelle interlinee del testo delle Tragoediae, recano gli appunti (recollectae o reportationes) che gli studenti trascrivevano ascoltando le lezioni tenute dai professori, i quali prestavano dunque la massima attenzione a spiegare le parole di Seneca e i contenuti del testo. D’altra parte, sono sopravvissuti anche veri e propri testi composti dai professori per agevolare la comprensione degli studenti: è il caso, ad esempio, dei brevi riassunti (argumenta) mnemonici di Pietro da Moglio, costituiti da dieci esametri, ciascuno riassuntivo del contenuto di una tragedia senecana. In passato questi argumenta furono pubblicati dall’illustre Giuseppe Billanovich, il quale aveva però potuto basarsi su una recensio ridotta, che assommava una decina di manoscritti latori degli argumenta di Pietro. Invece, avendo trovato questi riassunti in una quarantina di codici, ho deciso di redigere una nuova edizione critica degli argumenta, di cui ora ho individuato quattro versioni. Altri riassunti da me esaminati nel libro sono poi quelli composti da un giovane studente, Lorenzo Ridolfi, probabilmente sotto l’influenza del magistero di Domenico Bandini (professore a Bologna e in Toscana) e del famoso Coluccio Salutati. Sebbene in maniera un po’ incerta, e pur commettendo errori tipici per uno studente alle prime armi, questo giovane ci mostra indirettamente come i suoi maestri si rapportassero con il testo delle Tragoediae, prestando attenzione a questioni grammaticali e formali, ma anche ai messaggi morali celati dalla cortex della poesia senecana.

Potrebbe descrivere il contributo di figure come Giovanni del Virgilio e Pietro da Moglio all’interpretazione delle tragedie di Seneca?

Il contributo dell’operato di questi esegeti fu davvero importante: anzi, sono certa che, quante più testimonianze verranno scoperte a tal riguardo, tanto più sarà possibile comprendere la portata del loro lavoro. Del resto, l’aula universitaria era allora un formidabile medium di diffusione culturale: tutto quello che veniva letto e commentato a lezione, oppure scritto e fatto circolare in correlazione ad essa, acquistava dunque una risonanza davvero significativa. Riguardo a Giovanni del Virgilio, si può osservare che egli, all’interno della sua Expositio alle Metamorfosi di Ovidio, in diversi casi rievoca le Tragoediae di Seneca, ad esempio per confrontare certi dettagli della trama dei miti raccontata da Ovidio con la versione di altri autori. Questa operazione ci suggerisce allora che il professore cercava di stimolare gli allievi che lo ascoltavano a costituirsi una cultura enciclopedica, e a esercitare in continuazione il loro ragionamento critico. Cosa che si rivela ancor più interessante se pensiamo che, molto probabilmente, tra quegli ascoltatori era presente niente meno che un giovane Francesco Petrarca. Egli negli anni Venti del Trecento si trovava difatti proprio a Bologna, ed era solito disertare le lezioni di giurisprudenza impostegli dal padre per ascoltare le lecturae che si tenevano alla facoltà di lettere. D’altra parte, enorme risonanza ebbero le lezioni e i testi su Seneca prodotti da Pietro da Moglio. I suoi argumenta, difatti, continuarono a essere copiati e usati a lezione, in qualità – evidentemente – di strumento didattico utile, addirittura fino a metà del Quattrocento, in un periodo in cui la didattica umanistica aveva ormai rigettato i modi e i testi della didattica medievale. Ne è un esempio il ms. ms. B. 3470 della Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna: qui, in testa a una reportatio scritta dall’umanista Pontico Virunio e riguardante lezioni su Thyestes ed Hercules Oetaeus tenute da Battista Guarini a Ferrara, di nuovo compaiono i datati argumenta di Pietro da Moglio sulle Tragoediae. In questa prospettiva, fa dunque un po’ sorridere che, in un’epistola della seconda metà del 1415, vent’anni dopo la morte di Pietro, il grande professore di retorica Guarino Guarini (padre di Battista), cercasse di screditare il vecchio maestro bolognese condannando lo stile di una sua lettera, all’oggi sconosciuta. Anche se magari questo giudizio non era poi così sbagliato – dovremmo leggere il testo della missiva, per dirlo –, ai nostri occhi risulta però palese che d’altra parte l’esempio di Pietro era ancora ben vivo nella pratica didattica! Si ricordi poi che Pietro fu professore niente meno che di Coluccio Salutati, il quale, durante la sua vita, continuò a pensare con nostalgia al maestro bolognese, rivolgendogli alcune lettere. Non sorprende allora che, senz’altro ricordando gli insegnamenti di Pietro, Coluccio abbia poi copiato, letto e postillato le Tragoediae nel ms. London, British Library, Additional 11987, e citato le parole di Seneca in un numero davvero impressionante di luoghi delle proprie opere: una quarantina entro missive da lui inviate e ben 152 nel De laboribus Herculis.

In che modo la riscoperta delle Tragoediae di Seneca ha influenzato la letteratura e la poesia del Rinascimento italiano?

Tutto il lavoro di esegesi compiuto fra Trecento e Quattrocento fu fondamentale sia per diffondere materialmente le Tragoediae – che circolarono entro manoscritti provvisti di glosse e commenti e spesso anche di miniature –, sia per agevolare la comprensione dei significati filosofico-morali del testo poetico stesso, che non sempre risultavano chiari. Questo è il punto di partenza per un lungo percorso interpretativo, che in pieno Rinascimento vedrà gli intellettuali apprezzare le Tragoediae sia per lo stile incisivo di Seneca e per le sue sententiae poetiche particolarmente evocative, sia, appunto, per i significati filosofici del testo. Si pensi alla continua esemplificazione, nel teatro di Seneca, del conflitto tragico che si manifesta nell’animo umano, scisso tra desiderio di potere, brame di vendetta, passioni amorose funeste e la consapevolezza della gravità di questi errores, che sviano dal vero bene. Fu però l’opera di esegesi compiuta fra Trecento e Quattrocento sul testo di Seneca a preparare il terreno per comprendere questi aspetti. Dunque, grazie a questo clima culturale di ‘consapevolezza esegetica’ ormai matura, in seguito il Rinascimento poté capire a fondo i concetti del testo di Seneca, e avvertirli come congeniali al proprio tempo. Mi tornano a riguardo in mente certe parole di Ezio Raimondi, secondo il quale come «ha scritto Eliot, solo le epoche di dissoluzione e di caos sembrano chiamare a riscoprire il senechismo tragico e la sua retorica del grido, della ferocia metafisica». A livello pratico, inoltre, durante Umanesimo e Rinascimento fu soprattutto grazie alla diffusione e alla comprensione delle Tragoediae (e dell’Ars poetica di Orazio) che la cultura europea poté riappropriarsi dei concetti di “tragedia” e “teatro” divenuti evanescenti nel Medioevo, e dunque riflettere in modo compiuto sugli strumenti e sui mezzi espressivi più adeguati per ottenere un testo consono alla messinscena. Non è quindi casuale che proprio alle Tragoediae si riferirono, tra Quattrocento e Cinquecento, grandi scrittori che riplasmarono il genere drammatico. Si allude, per l’Umanesimo, ad Antonio Loschi, Gregorio Correr, Leonardo Dati, Ludovico Romani da Fabriano, Giovanni Manzini della Motta, Laudivio Zacchia (o Laudivio de’ Nobili), Carlo e Marcellino Verardi, Giovanni Armonio Marso, e poi, per il Rinascimento, a Giraldi Cinzio, Sperone Speroni, Lope de Vega, Calderón de la Barca, Racine, Corneille e William Shakespeare. Certe soluzioni retoriche e formali delle Tragoediae contribuirono inoltre a rinnovare il genere della novella, come testimoniano i testi di Matteo Bandello e gli Hecatommithi di Giraldi.

Come dialogavano Medioevo e Umanesimo attraverso l’esegesi delle Tragoediae di Seneca?

Il dialogo mise senz’altro in gioco diversi aspetti dell’una e dell’altra forma mentis. Da un lato, gli esegeti del XIV-XV secolo furono debitori alle indagini di carattere “umanistico” svolte già durante il Medioevo, prime fra tutte quelle di Petrarca e Boccaccio. Da queste, ad esempio, si desunse l’importanza di rapportarsi agli scritti classici in veste completa e soprattutto per via diretta; cioè, senza la mediazione di florilegia, excerpta, antologie e summae, invece centrali nella didattica della scuola e dell’Università medievale. Alcune modalità di esegesi, tuttavia, erano ancora essenzialmente figlie dello stesso clima medievale: si pensi alla tecnica parafrastica, e pure alla stessa pratica di comporre argumenta mnemonici. D’altro canto, l’ottica degli esegeti di fine Trecento sembra già proiettata verso prospettive che presupponevano un rinnovamento culturale. Molti tra i principali esponenti del successivo Umanesimo guardarono difatti con spirito di continuità a questa generazione di professori, che trasmise loro l’interesse per gli autori classici, l’attenzione per certi scrittori moderni, i principi per l’analisi dei testi; ma anche le chiavi concettuali necessarie per valutare correttamente la letteratura e la poesia nel quadro generale delle scienze, e per difenderla adeguatamente entro quella  famosa “battaglia delle arti” che avrà corso fino all’Età moderna, ma che ha le sue radici proprio nel Medioevo.

Quali erano le principali tecniche e metodi di esegesi usati dagli studiosi medievali e umanistici per analizzare le tragedie di Seneca?

I manoscritti sopravvissuti ci testimoniano differenti metodi di approccio all’analisi delle Tragoediae, a cui ho già parzialmente alluso nelle risposte precedenti. Anzitutto, la composizione di argumenta mnemonici brevi (Pietro da Moglio) o estesi (Lorenzo Ridolfi, sotto suggestione dei suoi maestri). Il commento in forma continua, entro cui incastonare riferimenti a più autori (Giovanni del Virgilio). L’esegesi con funzione parafrastica: si pensi al commento di Nicolaus Trevet, ma anche alle recollectae e alle note interlineari vergate in molti manoscritti latori dei riassunti di Pietro da Moglio, o connessi a Bartolomeo del Regno o a Petrus Parmensis. Ancora, l’estensiva redazione di glosse marginali, presenti con costanza nei codici appena citati, ma anche in quello di Coluccio Salutati, dove tali note furono da lui stesso vergate. Altro procedimento che spesso veniva seguito era poi il confronto filologico del testo di Seneca, presente su certo un manoscritto, con quello tràdito da un altro codice: fenomeno che poi si traduceva con la trascrizione di variae lectiones a margine del testo presente nel primo manoscritto.

Secondo lei, quale risonanza ha oggi lo studio delle tragedie di Seneca nell’ambito degli studi umanistici?

Riguardo le Tragoediae nello specifico, gli studi sulla permanenza del loro esempio nella memoria collettiva sono davvero molti e significativi. Grande rilievo hanno senz’altro assunto, nei secoli, i ritratti delineati da Seneca per i suoi personaggi negativi, primi fra tutti quelli femminili, come Fedra e Medea, ancora protagoniste degli studi di genere in campo umanistico. Diverse indagini e sperimentazioni sono inoltre state condotte riguardo la rappresentazione materiale – sul palcoscenico dei giorni nostri – delle Tragoediae. Come noto, queste pièces sono caratterizzate non da dialoghi serrati e battute brevi e incisive, ma da lunghi monologhi e da dialoghi complessi e profondi, nonché ricchi di artifici retorici. Ciò obbliga a pensare a un teatro che si svolga con tempi più distesi e meditativi, che potrebbero senz’altro rivelarsi piacevoli, se confrontati con la freneticità che oggigiorno caratterizza la nostra vita. In quest’ottica, comunque, lo studio di tutte le opere di Seneca si rivela utile per l’uomo contemporaneo. I suoi testi filosofici possono difatti stimolare l’interesse di qualsiasi lettore: per il loro stile immediato e incisivo, ma soprattutto perché sono veicolo di insegnamenti morali che possono davvero ancora insegnare qualcosa. Leggere Seneca difatti può aiutare a soppesare meglio le situazioni, ad approfondire l’analisi della realtà andando sotto la superficie, e, in prospettiva più ampia, a orientare il proprio comportamento verso i veri valori che dovrebbero animare la nostra esistenza.

Potrebbe dirci quali sono i suoi progetti futuri? C’è un nuovo libro in preparazione o altri progetti di ricerca che può anticiparci?

In questi anni sono stata coinvolta in ricerche che hanno in realtà esulato un po’ dal campo di studi della ricezione e dell’esegesi del classico. Mi sono infatti occupata di rintracciare, analizzare e schedare fonti e documenti inerenti la composizione di biblioteche e la circolazione di libri, dal Medioevo sino all’inizio del Cinquecento. L’indagine ha riguardato prima i territori di Modena e Reggio Emilia, e poi quello di Bologna. I risultati inerenti le prime due aeree geografiche sono da poco stati pubblicati in questo volume: RICABIM. Repertorio di Inventari e Cataloghi di Biblioteche Medievali dal Secolo VI al 1520, 6.1 Italia. Emilia Romagna. Modena e Reggio Emilia, a cura di Sara Fazion, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2024 (Biblioteche e Archivi, 44) https://bit.ly/3zwO97m. Dovrebbe seguirne un altro, dedicato invece alle biblioteche di medicina e scienza presenti a Bologna. Svolgendo queste ricerche, ho comunque sempre tenuta attiva la mia attenzione verso Seneca, Petrarca, Boccaccio e i prodotti dell’esegesi di fine Trecento. Mi è infatti capitato molto spesso di trovare citati, entro inventari e cataloghi di biblioteche, libri che appunto riconducevano a questi autori e a questo ambiente culturale. In futuro mi piacerebbe quindi recuperare tutti i ‘germogli’ che già segnalavo nel libro Seneca tragico fra Medioevo e Umanesumo e che – per ragioni di tempo – sono rimasti ‘incolti’. Anzitutto, vorrei assolutamente redigere l’edizione delle postille lasciate da Coluccio Salutati nel suo manoscritto di Seneca tragico, e poi analizzare i brani delle sue opere in cui le Tragoediae sono rievocate. Inoltre, mi piacerebbe studiare con maggiore attenzione il ms. delle Tragoediae Strozzi 133 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, nel quale ho trovato indizi che potrebbero ricondurre a Boccaccio e ai suoi codici perduti dell’opera. Ma vorrei anche occuparmi dell’edizione del commento in glosse al Bucolicum carmen di Petrarca redatto da Francesco da Fiano, allievo di Pietro da Moglio, poiché queste annotazioni sembrano rivelare informazioni davvero interessanti anche per ricostruire il complesso iter compositivo dell’opera petrarchesca, per la quale non si dispone ancora di un’edizione aggiornata. Insomma, gli spunti di ricerca sono davvero molti: spero davvero di trovare il modo di metterli in pratica!

anna.raimo@live.it

 

L'autore

Anna Raimo
Anna Raimo è nata a Pisa il 25 dicembre 1995. Laureata magistrale con il massimo dei voti in Linguistica e didattica dell’italiano nel contesto internazionale presso l’Università degli Studi di Salerno e l’Universität des Saarlandes di Saarbrücken, ha in seguito conseguito un Master di II Livello in Didattica dell’Italiano L2 presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla linguistica e didattica della lingua italiana alla storia, letteratura e poesia contemporanea. Si è infatti occupata dell’italiano dei semicolti nella sua tesi di Laurea Magistrale e ha recentemente pubblicato un articolo su una particolare varietà della lingua italiana: "L’e-taliano: uno scritto digitato semifuturista?", in (a cura di S. Lubello), Homo scribens 2.0: scritture ibride della modernità, Franco Cesati Editore, Firenze 2019, pp. 159-164. Tra i suoi autori preferiti vi sono Mario Vargas Llosa, Jung Chang, Philip Roth, Azar Nafisi, Orhan Pamuk, Anna Achmatova, Rainer Maria Rilke, Federico García Lorca, Alda Merini, Bertolt Brecht e Wisława Szymborska. Le sue passioni sono la lettura, la scrittura di poesie e i viaggi, soprattutto in Germania, paese di cui adora la storia, la cultura, l’arte e i magnifici castelli.