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Il paradosso della conoscenza, alta e profonda solo se umile

L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni

 Queste mie parole e questi miei pensieri sono dedicati alla libera ricerca dei neodottori e, più in generale, dei giovani in formazione. Sono loro che danno vita all’Università, sono coloro che ogni tanto aprono le finestre e cambiano l’aria grazie a idee nuove; e che ciò avvenga credo non sia peraltro scontato. Quella degli Studi di Perugia è del resto una Università proiettata verso l’innovazione e questo è un aspetto molto importante.

Sono sinceramente e profondamente grato per quello che questo Ateneo mi ha donato, proprio in chiave di libertà di ricerca. La Fondazione Brunello e Federica Cucinelli di Solomeo, poi, per me ha costituito e costituisce una sorta di continuazione ideale di questo mio percorso, così come la Fondazione Centro studi Aldo Capitini di Perugia, che ho la fortuna di presiedere, mi offre preziose opportunità di crescita in termini di persuasione nonviolenta.

Il grande piacere di essere qui è accresciuto dal fatto che inauguriamo un percorso. È un incipit questo, un incipit bello perché dietro ha una precisa volontà, una visione. E quando l’Università ha una visione, allora c’è davvero qualcosa di importante, di profondo. Si tratta di una visione che non può che portare libera ricerca, appunto.

Il tema che ho scelto è molto legato al mio percorso, perché quella dell’umiltà intellettuale io credo – e ne sono sempre più persuaso – che sia la caratteristica peculiare della ricerca. Non si può essere in ricerca se non si è umili.

Mi sono chiesto: ma che cos’è la ricerca? In fondo, che cos’è la conoscenza? È forse una domanda indiscreta? No, «le domande non sono mai indiscrete. Le risposte, a volte, lo sono»: è così che fa dire quel genio di Sergio Leone a uno dei suoi iconici personaggi, riprendendo Oscar Wilde (è una citazione di Wilde). Non ci sono dunque domande indiscrete, a volte le risposte lo sono! Io ho provato a dare una risposta di senso a questa domanda su cosa sia la conoscenza. Devo confessare, dapprima ho provato a fare il furbo, ho cercato una scorciatoia, sono cioè andato alla ricerca di ciò che non è conoscenza. Sicuramente non è erudizione. E ho chiesto una mano a quel curioso personaggio di Ambrose Bierce, il cui Dizionario del diavolo del 1906 mi porto sempre dietro; e lì ci ho trovato una voce, “Erudizione”, che contiene due definizioni: erudizione I, “polvere di un vecchio libro versato in un cranio vuoto”; erudizione II, “il tipo di ignoranza che distingue lo studioso”. C’è ovviamente un bel po’ di ironia dietro…

Certo è che, complice l’insistenza di Francesco d’Assisi sull’idea di humilis, di ciò che parte dalla terra e alla terra rimane legato – il radicamento di tutto quello che conosciamo –, non ho potuto che avvertire la necessità di virare con decisione verso questa peculiare e necessaria caratteristica del sapere, l’umiltà intellettuale.

Come non riandare, allora, al buon vecchio Socrate? E in questo senso è quasi un’ossessione, la sua: egli andava in ogni angolo dell’agorà a ripetere la sua domanda delle domande, ti estì, ti estì, che cos’è? Questo interrogativo ‘ossessivo’, in fondo, conteneva un grande insegnamento, l’insegnamento del “so di non sapere”, forse la più profonda forma di sapere, ovvero la consapevolezza di dover rimanere umili sempre – anche quando si crede di sapere tanto – mentre si va facendo ricerca. Il gerundio è d’obbligo: si va facendo, non smetteremo mai di fare ricerca! Questo gerundio rappresenta, a mio avviso, la più autentica cifra della conoscenza. Sia essa scientifica, artistica, narrativa o anche spirituale.

Ecco allora che Francesco tiene per mano, da una parte, Socrate e, dall’altra, il grande Albert Einstein, altro eccezionale maestro di umiltà intellettuale. Einstein è umanista nel senso più pieno del termine, egli che incarna la migliore riprova nell’epoca contemporanea delle due più profonde “verità” dell’umanesimo. Cioè, intanto del fatto che la scienza non può essere scientismo, allo stesso modo in cui la laicità non può essere laicismo: laicità è sinonimo di apertura, non di chiusura, non di steccati, non di esclusione, bensì di dialogo. Anzi, io credo che la scienza ci suggerisca proprio questo, questo intimo legame con l’umanesimo che è in costante dialogo, di apertura e di coevoluzione, con la filosofia, con le cosiddette scienze umane. E poi c’è l’altra “verità” (mi si passi il termine) dell’umanesimo, quella in virtù della quale il vero umanesimo stesso non contempla affatto né l’antropocentrismo, né lo specismo, altrimenti sarebbe una forma di violenza. Tutto è l’umanesimo tranne che violenza.

Umiltà, dunque, sia nel rapportarsi agli altri che hanno differenti competenze, esperienze, pensieri, percorsi di ricerca, sia nell’atteggiamento di fondo verso il mondo che abitiamo e che condividiamo con altri viventi, a noi somiglianti o meno. Ecco perché mi fa piacere ricordare con voi una lettera tra le mie preferite, molto intensa, è di Rosa Luxemburg, che l’ha scritta nel dicembre del 1917 all’amica Sonja, moglie di Karl Liebknecht: «Ahimè, Sonička, qui ho provato un dolore molto intenso. Nel cortile dove vado a passeggiare arrivano di frequente carri dell’esercito, zeppi di sacchi o vecchie giubbe e casacche militari, spesso con macchie di sangue. Vengono scaricate, distribuite nelle celle per i rattoppi e quindi di nuovo caricate e rispedite all’esercito. Qualche tempo fa è arrivato un carro tirato da bufali anziché da cavalli. Per la prima volta ho visto questi animali da vicino. Di struttura sono più robusti e più grandi rispetto ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è più simile a quello delle nostre pecore, completamente nero e con grandi occhi mansueti. Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra… I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia stato difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com’erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché non valse anche per loro il detto “vae victis”… Soltanto a Breslavia, di questi animali, dovrebbe esservene un centinaio; avvezzi ai grassi pascoli della Romania, ora ricevono cibo misero e scarso. Vengono sfruttati senza pietà, per trainare tutti i carichi possibili, e assai presto si sfiancano. Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi, accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì chiedendogli se non avesse un po’ di compassione per gli animali. “Neanche per noi uomini c’è compassione” rispose quello con un sorriso maligno e batté ancora più forte… Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava… Sonička, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta… gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime – erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza. Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania! Quanto erano diversi, laggiù, lo splendore del sole, il soffio del vento, quanto era diverso il canto armonioso degli uccelli o il melodico richiamo dei pastori! E qui… questa città ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e… le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto i carcerati correvano operosi qua e là intorno al carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano dentro l’edificio; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una canzonaccia. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi»[1].

Questa intensa lettera di Rosa Luxemburg, che ho voluto qui condividere, non deve peraltro indurre alla tristezza, semmai l’ho voluta citare perché penso contenga dei semi importantissimi per una pianta da coltivare, come quella della solidarietà, della fraternità, del sentire con l’altro, il che credo sia uno dei più profondi significati del ricercare, del conoscere, del sapere.

Bene, tornando ad Einstein, egli non solo ci ha donato una delle più belle risposte che l’umanità abbia mai dato a una delle domande più maligne di sempre – il modulo per gli immigrati negli States chiedeva di indicare la razza di appartenenza e lui scrisse “umana” –, ma inoltre ci ricorda qualcosa che non dovremmo mai dimenticare.

Poco importa se vi sia qualche incertezza di attribuzione della frase, è il messaggio che vi è dietro che secondo me è profondamente einsteiniano in questo senso di umiltà intellettuale: «La struttura alare del calabrone, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso». Ora i fisici potrebbero ben sostenere il contrario, tuttavia il suggerimento mi pare quello in virtù del quale troppo spesso ci facciamo appesantire dal sapere. Quando invece dovrebbe valere l’opposto: il messaggio del sapere è la levità, il vivere le cose senza troppo appesantire il cuore e anzi acquistare leggerezza mentre si fa ricerca. Sarebbe prezioso coltivarla sempre con tenacia, questa preziosa levità, nella elaborazione del pensiero come pure nella prassi quotidiana.

Per tutto questo, è a maggior ragione che ricordo con un poco di amarezza la discrepanza tra due esperienze che mi capitò di vivere quando ero un giovane giornalista, nel 2001. Un filosofo molto noto, che stimavo, non conoscendo la testata per la quale scrivevo non mi volle rilasciare l’intervista che gli avevo chiesto. Un giornalista televisivo altrettanto noto, invece, non solo rispose a tutte le mie domande, ma mi raccontò tanti retroscena della sua professione e poi, alla fine, mi donò un disegnino fatto all’istante, un Bacio Perugina con scritto tutto attorno “Buona carriera, Giuseppe!”. Una profonda delusione, da un lato, e una inattesa lezione di cordialità, dall’altro.

Poi un incontro che ha cambiato la mia vita non posso non ricordarlo. Sono gli incontri a cambiarle, le nostre vite, non certo il carattere: quello che chiamiamo per comodità “il carattere” non esiste, in realtà è una sorta di alibi per non cambiare; mentre gli incontri sì che ce la cambiano, la vita! E a me l’ha cambiata l’incontro con la pagina di Aldo Capitini.

In quel testo Capitini invitava – e mi sento di rivolgere l’invito a tutti i giovani ricercatori – a essere “migliori della vita” con gli anziani perché, precisava, la vita indurisce loro le vene, rende loro faticoso vivere e noi, in qualche modo, siamo chiamati a dare un’aggiunta, ad aggiungere qualcosa che potrebbe rivelarsi importante, sia essa una cura, un’attenzione, un sorriso… Questo mi ha fatto riflettere molto. Mi ha appunto cambiato la vita: non che prima fosse un delinquente, però grazie a questo incontro con Capitini posso dirmi un persuaso nonviolento.

Ecco che la conoscenza, liberata dalla paura, si fa il migliore antidoto alla violenza. Ce lo suggerisce un figlio di Perugia, Aldo Capitini, che per motivi economici non poteva iscriversi al Liceo Classico, fece degli studi tecnici, però sentiva fortissimamente di dover recuperare la classicità greco-latina e allora fece da autodidatta un lavoro straordinario, studiando di notte e perdendo tante diottrie. Da solo imparò il greco e il latino e trovo commovente un’immagine di lui, ragazzo, che va sotto le finestre aperte del Liceo Mariotti ad ascoltare come si pronuncia il greco! Poi vince una borsa di studio che lo porta alla Normale di Pisa, dove però era direttore Giovanni Gentile. Il quale, dopo un po’, gli presenta una tessera che lui naturalmente non accetta, non può accettare. Non solo: Gentile era impaziente che Capitini facesse le valigie anche per un altro fondamentale motivo. A mensa lo vedeva sedersi accanto agli studenti e quei giovani, dinanzi alla scelta vegetariana di Capitini – scelta etica e politica insieme – di non permettere l’uccisione degli animali, avrebbero potuto esitare un domani, chiamati da Mussolini alla trincea, al cospetto del “nemico” da uccidere.

Il giovane Capitini, insomma, rinuncia a quella che sarebbe stata una importante carriera accademica. Torna nella sua Perugia e c’è una lettera anch’essa commovente in cui scrive: «Non potrò essere presente alla cerimonia perché il vestito buono sta in lavanderia». L’unico vestito buono… Si fanno delle scelte quando si fa un percorso di ricerca e alcune di esse sono molto radicali. Mi torna in mente anche un’altra immagine di Capitini che, per il suo antifascismo, seppur nonviolento, finì in carcere due volte e la seconda alle Murate di Firenze. Trascorreva le giornate a liberare dalla sua cella le cimici: le portava fuori, quelle rientravano, lui le riprendeva, le riportava fuori e così via. Poi nell’ora d’aria i suoi amici e allievi gli chiedevano: “Professore, ma come fa lei a liberarsi di queste cimici che ci tormentano senza sosta?”. “Perché, voi le uccidete?” fu la sua replica immediata. Questo significa essenzialmente attenzione al microcosmo. Significa anche mettersi in cammino per un dialogo di apertura con le altre specie; ecco perché non posso non citare brevemente quella che è una delle più belle definizioni capitiniane di nonviolenza.

In Religione aperta del 1955 scrive che «si deve tentare e fare cinquecento, se anche non si può fare mille. Abbiamo visto che la nonviolenza è un cominciare, un progredire, un allargarsi»; e poco prima: «le difficoltà non impediscono di cominciare, di farsi centro di nonviolenza. Ogni musica ha cominciato prima di aspettare che tutti ascoltassero; ognuno che è innamorato non aspetta che tutti quanti si innamorino»[2]. Questo è un messaggio valido anche per i giovani ricercatori, i quali la ricerca la fanno senza aspettare che tutti si mettano a fare ricerca!

L’abitudine del passato è qualcosa di profondamente contrario all’umanità. Capitini stesso, in Le tecniche della nonviolenza del 1967, scriveva a chiare lettere: «Più che l’abitudine del passato può la prospettiva per l’avvenire»[3]. Ecco perché nei giovani ricercatori ci sono quei semi della pianta bellissima che si chiama cooperazione, che si chiama ricerca condivisa, che si chiama solidarietà, che si chiama apertura e condivisione. E appunto dinanzi all’abitudine al passato, alle cose che sono sempre andate così, noi invece possiamo ben dire di no, che non debbano continuare a essere così: basti pensare alla guerra, che non fa che mortificare l’umanità.

L’abitudine al passato, ce lo suggerisce in chiave allegorica un racconto esoterico del 1922 del mio scrittore preferito, Franz Kafka, ovvero Indagini di un cane, è tra i peggiori mali con i quali abbiamo a che fare. Ho selezionato dei brevi passaggi che aiutano a comprendere perché; ed è un cane che parla: «proprio noi viviamo lontani gli uni dagli altri, in professioni singolari spesso incomprensibili perfino al cane vicino, ligi a disposizioni che non sono quelle della caninità, ma anzi ad essa contrarie»[4]; «Cani che non rispondono al richiamo dei cani, un reato contro la decenza»[5]. Poi: «La vita è difficile, la terra restia, la scienza ricca di cognizioni, ma abbastanza povera di risultati pratici»[6]; «La scienza indica le regole, sì, ma arrivare a comprenderle […] non è affatto facile, e una volta comprese, solo allora arriva la difficoltà vera e propria, quella di applicarle alla situazione locale»[7]; «Nella scienza, che di solito tende ad una sconfinata specializzazione, trovai sotto certi aspetti una semplificazione straordinaria». E infine soprattutto: «Ma non solo il sangue abbiamo in comune, anche la conoscenza, e non solo la conoscenza, ma anche la sua chiave. Non la posseggo senza gli altri, non posso averla senza il loro aiuto»[8].

Quindi, anche grazie alle parole di Kafka, io credo che posso serenamente avviarmi alla conclusione con tre auspici: non uno, non due, ma ben tre che rivolgo ai giovani dottori di ricerca. Il primo auspicio è appunto di eco kafkiana, perché auguro loro che possano fare della conoscenza, con umiltà, un terreno di coltura della solidarietà, della cooperazione. Proprio perché conosco grazie agli altri.

Il secondo auspicio che formulo lo prendo in prestito da un certo signor Kant. Alla domanda che si era posto, Che cos’è l’Illuminismo? (lo si sa come fanno i filosofi: da soli si pongono le domande e poi si danno le risposte!), ha dato una meravigliosa risposta, vale a dire: “la fuoriuscita dallo stato di minorità”. Conoscendo e mettendo in pratica le nostre conoscenze con mezzi e modalità di natura nonviolenta cooperativa, possiamo fuoriuscire da ogni stato di minorità! E ne esistono tanti: nella scuola, nei luoghi di lavoro, nelle relazioni umane, nella politica…

La conoscenza, in questo senso, è liberatoria. Provo pertanto ad ‘aggiornare’ Kant rintracciandone una lontana eco nella felice penna di uno scrittore contemporaneo, lo svedese Björn Larsson, che nel suo fortunato La vera storia del pirata Long John Silver, da novello Robert Louis Stevenson, così fa dire all’icastico capitano Barlow: «Leggere è la cosa più importante. Lasciatelo dire, non ci sono molti marinai che sanno leggere, ed è un male, perché così firmano qualsiasi contratto. Gli viene detto che dovranno trasportare tabacco da Charleston, ma nessuno gli ha accennato che prima devono caricare schiavi in Africa»[9]. E quanti esseri umani ancora oggi sono ridotti in schiavitù? Dalla conoscenza noi possiamo pretendere un antidoto per tutto questo, per la violenza – che si trova a suo agio con l’ignoranza – e per tutte le sue espressioni diversificate.

E il terzo auspicio lo faccio davvero di cuore. Anche a conferma che non di sola conoscenza si vive, desidero rivolgerlo dal profondo a tutti coloro che si accingono a fare ricerca: mi auguro che siano d’accordo pure loro con il gustoso motto di Bertolt Brecht “Sempre pronto a una nuova idea e un antico vino”.

Grazie di cuore alla nostra amata Università degli Studi di Perugia!

giuseppe.moscati@tiscali.it

(Lectio magistralis del 25 giugno 2024, tenuta nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università degli Studi di Perugia. Il testo è già stato pubblicato nel sito dell’Ateneo)

[1] R. Luxemburg, Un po’ di compassione, Adelphi, Milano 2007, pp. 19-21 (corsivi miei).

[2] A. Capitini, Religione aperta, con Prefazione di G. Fofi, Introduzione e cura di M. Martini, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 118, ma cfr. pp. 118-119.

[3] Id., Le tecniche della nonviolenza, Libreria Feltrinelli, Milano 1967, p. 31 (di imminente uscita una nuova ed. per i tipi di Manni Editore).

[4] F. Kafka, Indagini di un cane [con testo tedesco a fronte], a cura di U. Treder, Marsilio, Venezia 1992, p. 57. Mi viene immediatamente da pensare a chi eseguiva gli ordini nei lager nazisti, appunto ligi a ‘disposizioni’ che non sono quelle della umanità.

[5] Ivi, pp. 65-67.

[6] Ivi, pp. 79-81.

[7] Ivi, p. 111.

[8] Ivi, p. 89.

[9] B. Larsson, La vera storia del pirata Long John Silver, con Postfazione di R. Mussapi, Iperborea, Milano 1998, p. 52.

L'autore

Giuseppe Moscati
Dopo la laurea in Filosofia e il dottorato di ricerca in Filosofia e Scienze umane presso l’Università degli Studi di Perugia, è stato cultore della materia e tutore di sostegno presso le cattedre di Filosofia morale e di Psicologia generale; correlatore nella Commissione per le tesi di laurea del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione; collaboratore scientifico del Dipartimento di Scienze filosofiche per il Progetto di Ricerca “La filosofia di fronte alla violenza”.

Formatore sui temi della pace, del disarmo e della cooperazione internazionale, già vicepresidente della Associazione Nazionale Amici di Aldo Capitini, è Presidente della Fondazione Centro studi Aldo Capitini ed è Responsabile della Biblioteca Neoumanistica della Fondazione Brunello e Federica Cucinelli di Solomeo.

Autore di numerosi saggi su nonviolenza, filosofia e letteratura, scrive per varie testate e riviste culturali, tra le quali il quindicinale “Rocca” (1941) della Pro Civitate di Assisi, alla cui redazione ha lavorato per 17 anni. Ha curato G.Ch. Lichtenberg, L’uomo plasma se stesso (2017); B. Misèfari, Diario di un disertore (2024); volumi collettanei di studi capitiniani; il carteggio A. Capitini - G. Calogero, Lettere 1936-1968 (con Th. Casadei, 2009) e il Dossier Aldo Capitini. Sorvegliato speciale dalla polizia (con A. Maori, 2014).

Tra i suoi libri: Etos del sacrificio, passione per il mondo e filosofia d’occasione. La critica della violenza in K. Jaspers, H. Arendt e G. Anders (2010); Sandro Penna e Vittorio Bodini. Tracce di una compresenza poetica (2010); R come responsabilità (2012) e Questioni meridionali. Intervista politico-filosofica sul Mezzogiorno. Re-inventare il Sud (con P. Protopapa e A. Stomeo, 2021). Coltiva una passione per la scrittura aforismatica e per i racconti brevi; tra gli altri suoi libri di narrazione: Oniricos, il pianeta dei fiori azzurri (testo di narrativa per le scuole medie, 2008), La lumaca Maggiolina. Fiaba per i piccoli, ma anche un po’ per i cosiddetti grandi (2018) e In bocca al gufo. Racconti (brevi e brevissimi) e qualche haiku (2022).