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La ‘crisi’ dell’Arte: un mercato per il Bello. Dalla connoisseurship all’expertise

 L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni

Un dubbio che fino ai nostri giorni non ha mai smesso di riprodursi nel sottosuolo dei cosiddetti fouilles de l’art e che ha investito sempre il discrimine tra passione e professione, riguarda proprio la differenza tra il mestiere del connoisseur e quello dello ‘storico dell’arte’.[1]

Diversamente invece quando sui piatti della bilancia sono posti l’un l’altro accanto l’idea di connoisseurship e l’idea di ‘critica’, allora il nodo della questione più facilmente sembra sciogliersi.

C’è da chiedersi, per una domanda che non esige oggi nessuna risposta, quale sia, o possa supporsi, la causa di questa discriminatio concettuale. O, se volessimo porcene una più diretta, perché quando si parla di connoisseurship, la si identifica meglio rispetto a un connoisseur?

Che si tratti soltanto di un’oziosa impressione, e rimanendo questo pur un fatto non trascurabile soprattutto per la deontologia storico-artistica, quando si parla di connoisseurship si tende a immaginare in generale una branca del sapere quasi specializzata nella “ricognizione”, nella perizia attributiva e selettiva delle opere d’arte, antiche o contemporanee che siano.

Un’idea che di questa se n’è fatta è, per capirci, quella di “esperti cani da tartufo dell’arte”, legata appunto ad una concezione tutta empirica e pratica della conoscenza dell’arte. Dunque connoisseurship come ‘conoscenza’ esperta dell’arte e abilità intuitiva nella materia artistica, riconoscendone all’interno di essa principalmente la maniera e la tecnica, sulla base delle quali vi sarebbe provata sufficienza per l’individuazione di falsi e originali.

Per coerenza e conseguenza di quanto detto, il connoisseur dovrebbe dirsi facilmente essere colui che è esperto d’arte, cioè il conoscitore della materia artistica. Ma se dovessimo attenerci all’idea generica del suo profilo più diffusamente recepita?

Rimarremo legati a un profilo ‘romanticamente’ indefinito nella sua area di occupazione in relazione allo studio dell’arte, scisso tra «ricercatore fuoriclasse» e storico antiaccademico, posizionato idealmente tra la figura del collezionista d’arte e quella del critico d’arte. Il connoisseur sarebbe pensato più come soggetto autonomo in sé e distaccato dalla metodologia istituzionale degli storici dell’arte, con propri metodi più investigativi che storiografici, e con tenore d’indagine più privato che pubblico. Insomma si equivarrebbe al pensarlo come “detective” privato dell’arte.[2]

Un senso, quello descritto, che gliene deriva da tutta una letteratura periegetica settecentesca[3] e da un ‘misticismo’ winckelmaniano[4] che nello sforzo di elevarsi definitivamente dall’antiquaria assegnava all’arte uno studio immersivo e introspettivo per un esito di ricerca più selettivo.

Lo scavare continuo di quest’epoca nei dipinti e nelle statue di nuovi sensi storici per nuovi soggetti teorici, o il più delle volte araldici, come accadeva nelle grandi casate romane, accelerava il processo di revisione storica dell’arte, accennando nello stesso tempo a due diverse linee di ricerca, dettate entrambe da due diverse committenze ed esigenze. L’una si poneva sempre più in un’ottica filologica ed archeologica, e dunque storiografica, per impulso della cosiddetta ‘scuola tedesca’[5]. L’altra invece si poneva in aperto contrasto col metodo filologico, avviandosi verso una prospettiva d’indagine che si basava principalmente sul metodo analogico che meglio si prestava all’esigenza ingombrante delle commissioni aristocratiche per l’attribuzionismo autoptico.[6]

Sarebbe impuntuale inoltre trovare nel neonato gusto classicistico una causa responsabile di questa rotta negli studi dell’arte.[7] D’altra parte però sarebbe parimenti sbagliato trascurare come sia stata quella teoria kantiana del “Bello”, qui talmente in auge da ricercarne nelle fasce più abbienti, con altrettanto ostinato buongusto[8], gli autori o più inaspettati o più conclamati dalla tradizione, la proclamazione dell’Arte come ricerca della «nobil potestà».

È sentita viva la necessità di conoscere a pieno la materia del Bello, e farsi interpreti esperti, laddove il Bello, per chi n’è in possesso, è emblema letterale del potere[9].

‘Farsi conoscitori’ e ‘cercare conoscitori’ allora diventano le i due vettori che sembrano guidare la storia dell’arte nelle sue embrionali origini settecentesche.

Questi conoscitori d’arte trovano inizialmente posizione di ruolo all’interno dei ceti aristocratici, d’alta ecclesia e d’alta borghesia, continuando ad averla almeno sino alla prima metà dell’Ottocento, nell’area europea e balcanica, ma pur sempre investiti d’una patina amatoriale, cioè “d’appassionati d’arte”. In quanto eclettici eruditi[10], e non filologi né pittori, non conducevano studi specialistici sui soggetti artistici e monumentali, ma soltanto appassionate e approfondite ricerche comparative di matrice quasi vasariana con qualche, si direbbe, spiccata tensione sensitiva verso quegli oggetti di loro maggiore interesse.[11]

Si noterà la natura fortemente soggettiva e poco storiografica del ruolo del conoscitore in questa fase, nella quale tuttavia, insieme alle pesanti accuse delle nascenti scuole archeologiche e filologiche di infondatezza scientifica sulle «descrizioni» delle opere d’arte di quegli eruditi, stavano emergendo anche figure di maggiore complessità intellettuale come lo stesso Antonio Canova.

Nuovi pittori che non si dicevano solo produttori dell’arte, ma che in quanto creatori, rivendicavano l’autorità della loro voce nella pratica di esegesi e lettura non limitatamente alla propria opera, ma soprattutto per quelle precedenti ad essi. Nuovi scultori che scolpivano accanto ai nuovi busti marmorei cardinalizi anche nuovi profili e canoni estetici proprio riconoscendone a memoria la fortuna dei singoli modelli quattro-cinquecenteschi. Nuovi artisti quindi che iniziano verso la fine dell’Ottocento, in piena età napoleonica, a conoscere la storia dell’Arte attraverso nuovi codici tecnici e metodologici. Nuove ‘guide’ che allineando a sé una vasta gamma di interpreti alternativa ai teorici studi filologici e archeologici, propugnano una visione conoscitiva della materia artistica profondamente empirica e materialmente pratica, non da trattare con manuale ma da toccare con mano. Ed è questa faida quasi ideologica che si crea tra teoria e pratica, tra accademici e ricercatori, che in un tempo come a metà Ottocento vedendo i prodromi del capitalismo, lasciava notevole spazio all’inserirsi di una nuova categoria non propriamente appartenente alla sfera intellettuale quanto squisitamente materiale, o per meglio dire, economica.

I mercanti, sono i mediatori[12] di questa faida e al tempo stesso anche i definitivi marcatori (o mercatores non sarebbe qui troppo astratto), tra due ambiti che saranno una volta tanto chiaramente distinti. La storia dell’arte e la «fiera dell’arte».

Specchio fedele della loro ibridata condizione sociale, intrisa di velleità aristocratiche e plasmata in realtà corporative, quali botteghe artigiane e maestranze varie, sono riflessi nella loro interazione con l’arte talune concezioni teoriche derivate da intense frequentazioni accademiche, che qui chiameremo ‘nozioni’, e altre attitudini più empiristiche derivanti da strati più economicamente attivi e mondani.

Ciò che se ne riscontra è una terza esigenza, di coniugare il verosimile, già fatto sintesi delle due idee concorrenti, all’utile, sintesi di uno studio non autonomo come scienza, ma remunerabile come impegno contingente verso un cliente.

A partire dalle ricognizioni napoleoniche in Italia[13], sebbene se ne potesse scorgere il fenomeno già ai tempi di Lorenzo il Magnifico, l’Arte aveva assunto uno statuto tale da esercitare in pieno Ottocento addirittura un controllo intrinseco sul mercato tra paesi esteri ed europei, se i generali olandesi muovevano ancora guerra ai confini per i troni barocchi voluti in eredità dai sovrani e principi locali. Essa era divenuta uno strumento politico insieme al suo valore economico che stava fissandosi proprio nelle fiere a fondo espositivo che organizzavano i mercanti al nord del continente europeo. Uno strano strumento di potere che però, fatto bizzarro, vedeva il suo primo luogo di «immatricolazione» dei signori in grandi sale dove si alternavano carrelli e cavalletti di quadri, dipinti e blocchi scultorei, sovente affiancati confusamente da oggetti d’antiquariato.

Erano queste le prime esposizioni d’arte, che non seguivano la linea ufficiale inaugurata dalle recenti mostre francesi, organizzate come musei universali per la storia dell’arte, ma riproducevano tendenzialmente la stessa concezione di collezione privata preromantica, della quale molto spesso facevano da vetrina al pubblico erudito e facoltoso. Era piuttosto vicino questo tipo di sito espositivo a una galleria d’asta contemporanea, e implicava un’importante operazione preliminare di (pre)selezione dei soggetti artistici da esporre, non attraverso gli stessi criteri tematici e storici impressi dal coevo Denon[14], altresì per gerarchia anagrafica e iconografica. Sostanzialmente il «mercante d’arte», della cui collezione si faceva ‘curatore’, potremmo dire, procedeva alla detta scelta utilizzando come unica regola attendibile il “principio di attribuzione”, che gli derivava dalla sua pregressa esperienza di conoscitore esperto, e stando alla quale sapeva riconoscere da piccoli dettagli e segni che l’oggetto mostrava, la sua autenticità e autorità, ovvero se fosse soltanto una copia e chi ne fosse l’autore. Concorreva inoltre, è evidente ormai, alla fase valutativa che infine prezzava il valore con cui l’oggetto doveva essere venduto, la componente empirica del gusto a cui la sua cronologia generalmente apparteneva.

In quella fase di ricognizione e attribuzione che precedeva la selezione era anzi il gusto un elemento fortemente contaminante la validità dell’esito attribuito.[15] E quando l’erudizione dell’agiato cliente dovrà trovarsi di fronte alle scelte operate dal conoscitore/curatore, avrà bisogno lui stesso in quella molteplicità materiale di avere un conoscitore che scelga per lui, qualora già egli non lo fosse.

Un altro conoscitore, un altro mediatore, ma anche un altro mercante d’arte?

Assunta l’iniquità del sillogismo per cui ogni conoscitore è mercante d’arte[16], si dovrebbe rispondere negativamente al quesito. Eppure ciò non significa che l’altro conoscitore, rivestendo sempre il ruolo di mediatore, non debba essere capace di leggere il linguaggio d’un’opera traslato dal curatore stimandone l’autore, nel rapporto che quell’oggetto avrà col pubblico spettatore una volta accresciuto il patrimonio di un’altra casata.

Il secondo conoscitore[17] per tutte queste ragioni dovrà necessariamente provenire da una cerchia sociale che di certo non tiene con quella accademico-universitaria, bensì da una borghesia a stretto contatto col cinismo economico e commerciale di un sempre più dinamico panorama europeo e transatlantico.

Colui che sarà incaricato di valutare quale opera possa essere «la più bella», cioè soddisfacente e originale per quel gusto del Bello, e non solo, ma soprattutto più pregevole per il potere di chi la acquista, sarà sicuramente un apprezzato artista o collezionista[18]. Più difficilmente sarà invece un filologo o un teorico pioniere di storia dell’arte, che risulterebbe del tutto avulso dalla rete modale di quel savoir faire, e di quel buongusto definito empiricamente.

Sembra perciò di assistere a un processo di “aggettivazione” dell’arte nelle maglie più larghe della borghesia intellettuale, ma al tempo stesso di divaricazione tra l’atto di contemplazione e quello di valutazione, in un momento in cui appaiono sul fronte letterario le prime manifestazioni di cultura realistica che spingendosi col positivismo reazionario fino al primo quarto del secolo successivo, darà stavolta un cambio di rotta nell’espressione artistica.[19] È questo il tempo infatti in cui si genera per la prima volta una vera e secca scollatura dall’arte precedente che fino ad allora continuava ad essere veicolata attraverso l’enfasi manieristica del verismo. La reazione più spontanea di divaricazione da quell’arte è la nascita dell’idea di una avanguardia dalla maniera obsoleta con cui pensare ancora l’Arte. Una avanguardia che iniziando a stridere con la sua fase impressionistica giungerà, senza respiro, a urlare col dadaismo futuristico per poi urtare contro il relativismo della convergenza cinematografica.

Una reazione quella di fine Ottocento all’«aggettivazione» di cui s’è detto, che non ha avuto come esito diretto però solo le avanguardie, provocando invece la comparsa di una nuova figura per una nuova temperie intellettuale. Nasce adesso il connoisseur.

Il mestiere del connoisseur sembra fare comparsa proprio quando l’Arte cercava di sfuggire all’oggettivismo della storia sostituendo l’atto teoretico con quello mimetico. Come a dire di un’arte che stava giungendo al suo più estremo punto d’arrivo ormai, in una crisi sociale e politica che investiva l’intera scena globale, tale da rinunciare alla forma per l’idea. Da qui la sua posteriore definizione di “arte astratta”.

In realtà tale definizione era stata pensata già dal connoisseur svizzero Burckhardt, che proprio in questo momento avanza i suoi studi e le sue ricerche sull’arte rinascimentale sospinto dall’energia intellettuale di un altro come lui lucido studioso d’arte italiana, Giovanni Morelli.[20]

È da ravvisare negli scritti e nelle analisi comparate di osservatori come loro il grado di scientificità che ha avvicinato maggiormente l’occhio dei conoscitori a quello di storici dell’arte, laddove già molte università non solo francesi avevano introdotto a nuovo insegnamento la “storia dell’arte”.

Ma se finalmente esistevano delle cattedre che si occupavano scientificamente della questione storico-artistica, in cosa differiva ora il mestiere dei connoisseurs da quello dei conoscitori come Passavant?

Una migliore risposta la si darebbe chiedendosi allora in cosa differiva l’opera di Richter da quella di Cavalcaselle, d’altronde risulterebbe anch’essa ermetica per una soluzione più chiara che si tenti.

Certamente i connoisseurs come Richter non ignoravano quanto gli storici dell’arte esponevano sopra un soggetto di comune interesse, anzi si impossessavano della materia accademica talora trattandola come un casus quasi maniacale, fino a ritrattarla secondo le loro norme da taccuino.[21]

L’attitudine dei connoisseurs non era infatti antiaccademica[22], ma vedeva come principio cardine della loro ricerca proprio il dubitare dell’evidenza in quanto possibile causa di rischio di superficialità. Si poneva quindi la connoisseurship in qualche modo come studio complementare a quello accademico concepito tuttavia ancora come troppo formale, rigido e teorico per la complessità plastica della storia dell’arte.

Altro spartiacque ben più visibile che segnava il discrimine dalla comunità accademica delle università era anche una particolare sensibilità, enclave si direbbe in un periodo storico in cui la direzione era del tutto opposta, verso una storia dell’arte che tendenzialmente non superava la seconda metà dell’Ottocento, focalizzando la ricerca sulla fase rinascimentale. Non era un passivo ondeggiare sul carattere mitologico di Raffaello, come potrebbe apparire, quando era di contro la sua aurea leggendaria qui una delle questioni centrali da sfatare con un occhio più «critico».

Questa nuova lente di cui si riveste l’occhio del connoisseur ha facilitato lo sviluppo, nel limbo creatosi tra gli storici dell’arte e i connoisseurs, della ‘critica d’arte’.[23] Non a caso sul finire ultimo dell’Ottocento toccherà a Cavalcaselle fondare la sintesi ormai consolidata tra le due parti, della critica d’arte moderna. Seppur egli ancora rudimentale nella dottrina estetica, e non fosse propriamente definibile un critico d’arte, aveva comunque posto le basi della sintassi diatribica di un mestiere gravoso e sottilmente suscettibile come quello del critico d’arte.[24]

E quanto la crisi dell’arte[25] fosse il vero abisso da cui il critico doveva saper ascoltare e scorgere la storia, ce lo mostra il chiaro paradigma di Roberto Longhi, il quale elevò il vertice della storia dell’arte più di quanto fece mai prima uno storico dell’arte.

La critica, sostituendosi man mano alla connoisseurship anche nel compito più materiale della valutazione con l’expertise, tuttora costituisce per la storia dell’arte una indispensabile scienza esegetica dalla quale lo storico dell’arte farebbe bene a non privarsene.

Tuttavia su suggestione di Peter Burke, non sarebbe troppo utopistico sperare oggi che uno storico dell’arte prima di dichiararsi tale, sappia essere innanzitutto un critico d’arte.

 

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[1] Differenza che è stata messa in evidenza dalle non trascurabili parole, almeno in questa sede, di Andrea BACCHI nella sua Introduzione in Il mestiere del conoscitore. Federico Zeri, a cura di A. BACCHI, D. BENATI, M. NATALE, per la Fondazione “Federico Zeri” dell’Università di Bologna, Silvana Editoriale, Bologna, 2021.

[2] Cfr. M. MINARDI, Come la bestia e il cacciatore, Proust e l’arte dei conoscitori, in ‘Sguardi’ vol. 2, Officina libraria, Roma, 2022, Introduzione, pp. 5-7.

[3] Cfr. C. GALASSI (a cura di), L’abregé della Guida al Forestiere per l’Augusta Città di Perugia di Baldassarre Orsini (1788): un “libretto compendiato e tascabile” in mano ai commissari napoleonici, in ‘Atti del Convegno’ Guide e viaggiatori tra Marche e Liguria dal Sei all’Ottocento, a cura di CLERI, B., PERINI, G., Urbino, Palazzo Albani, 26-27 ottobre 2004.

[4] R.B. BANDINELLI, Introduzione all’archeologia classica come storia dell’arte antica, Laterza editore, Bari, 2005, pp. 25-34.

[6] Per la metodologia della connoisseurship, vd. D. CARRIER, In Praise of Connoisseurship, in «Journal of Aesthetics and Art Criticism», vol.61, no.2, Wiley, 2003, pp. 4-10.

[7] Vd. ad esempio l’originale contributo offerto dal volume di C. GALASSI, Il tesoro perduto. Le requisizioni napoleoniche a Perugia e la fortuna della scuola umbra in Francia tra il 1797 e il 1815, Volumnia editrice, Perugia, 2004, pp. 27-40 per la ‘teoria del gusto’ che modellerà il collezionismo post-moderno e l’opinione della critica in contrasto con la connoisseurship novecentesca.

[8] Ibidem

[9] Per il problema della dialettica “arte-potere” nella sfera visiva, vd. T. HÖLSCHER, Visual power in Ancient Greece and Rome, between Art and Social Reality, University of California Press, Oakland, 2018, pp.158-168.

[10] R.B. BANDINELLI, cit. Introduzione all’archeologia classica, pp. 55-67.

[11] V. LOCATELLI, “Es sey das Sehen eine Kust”. Sull’arte della connoisseurship e i suoi strumenti, dagli atti del convegno “La storia dell’arte tra scienza e dilettantismo. Metodi e percorsi”, Accademia Nazionale di San Luca, Roma, 2012, pp. 2-5.

[12] M. FITZGERALD, Making Modernism. Picasso and the creation of the market for the twentieth century art, University of California Press, 1996, pp.4-5. Cfr. anche F.POLI, Il sistema dell’arte contemporanea, Laterza, 1999, p.146.

[13] Sulle cui vicende e contributi che hanno dato all’odierna critica d’arte e al collezionismo, si veda anche C. GALASSI, cit., Il tesoro perduto. Della stessa GALASSI, per una dettagliata storia degli inizi della connoisseurship in Italia attraverso l’opera ricognitiva di Cavalcaselle sul patrimonio disperso in Umbria, si consiglia il volume ID., L’occhio del conoscitore. Le ricognizioni di Cavalcaselle e le opere della Galleria Nazionale dell’Umbria nel Taccuino XI della Biblioteca Marciana, ed. illustrata, Aguaplano editore, Perugia, 2023.

[14] ID., Il tesoro perduto, pp. 69-84.

[15] E. CRISPOLTI, Come studiare l’arte contemporanea, Donzelli, 1997, pp.164-170.

[16] Sillogismo già messo in discussione e confutato della sua astratta valenza letteraria sull’esempio del Morelli da G. ANGELINI, nel suo volume Giovanni Morelli tra critica delle arti e collezionismo, in ‘Quaderni di Artes’, 7, Edizioni ETS, Pisa, 2020. Si veda il capitolo Connoisseurship e semiotica visiva di Maurizio LORBER, alle pp. 11-22.

[17] Ovvero il tipo tedesco, il cui modello si afferma con preminenza nella cultura “conoscitiva” storico-artistica soprattutto dei primi anni del Novecento. Si veda a riguardo il caso trattato nella sua esemplarità paradigmatica nel saggio di Dóra SALLAY, «Pratichissimo della scuola senese»: Johann Anton Ramboux (1790-1866) conoscitore in I conoscitori tedeschi tra Otto e Novecento, a cura di F. CAGLIOTI, A. DE MARCHI, A. NOVA, Officina Libraria editore, Milano, 2018.

[18] Cfr. A. BACCHI, cit., Introduzione.

[19] Al concetto di «dissoluzione del Bello» ha partecipato notevolmente la critica hegeliana al positivismo post-romantico, sul quale tema si consiglia il saggio di Robert B. PIPPIN, After the Beatiful. Hegel and the Philosophy of Pictorial Modernism, in ‘Universa. Recensioni di filosofia’, Anno 3, vol. 2, University Chicago Press, 2014.

[20] MINARDI, M., Morelli, Berenson, Proust. «The Art of Connoisseurship», in ‘Studi di Memofonte’, 14/2015, «Fondazione Memofonte», Firenze, 2015, pp. 220-223.

[21] Ivi, pp.213-218; D. CARRIER, cit., In Praise of Connoisseurship,.p. 165.

[22] BACCHI, Op. cit.

[23] CARRIER, pp. 165-168.

[24] Ibidem.

[25] J. BAUDRILLARD, La sparizione dell’arte, Politi, 1988.

 

L'autore

Mauro Di Ruvo
Classicista, critico letterario e filologo classico, si è laureato a Bari in Lettere Classiche con una tesi sperimentale in filologia rinascimentale e critica ariostesca dal titolo "La mediocrità pensosa nell'angulus del Furioso" relata dal prof. Davide Canfora. Giornalista redattore di politica interna presso la testata "Lanterna", si occupa di Archeologia classica e diritto romano a Perugia, dove è specializzando in Archeologia e storia dell'arte. Si è occupato di Estetica cinematografica e filosofia del linguaggio audiovisivo a Firenze presso la storica rivista “Nuova Antologia” e collabora con la Fondazione Spadolini. È l'autore del romanzo Pasqualino Apparatagliole (2023, Delta Tre Edizioni).