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Un cervellaccio fertilissimo: Alfonso Ceccarelli tra vero, falso e finto

L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni

L’atto di accusa contro Alfonso Ceccarelli è chiarissimo e ben circostanziato. A vergarlo quello che Francesco De Sanctis definiva «il Muratori della nostra letteratura», Girolamo Tiraboschi, che al Ceccarelli dedica non poche righe o poche pagine ma addirittura un intero volume: le Riflessioni su gli scrittori genealogici, uscite a stampa nel 1789.

Tiraboschi è implacabile e lungo le 87 pagine del trattatello ascrive al Ceccarelli tutte le colpe della circolazione di genealogie incredibili delle famiglie nobiliari, fondate su testi spesso inventati di sana pianta dal Ceccarelli medesimo, oppure pesantemente interpolati. La posizioni del Tiraboschi è dunque chiara: il Ceccarelli fu «un de’ più furbi e de’ più arditi impostori che siensi al mondo veduti» (p. 5), dotato di una «pericolosa abilità di imitare gli antichi caratteri» e di una fervida inventiva, tale che egli «riempisse il mondo» di imposture. Tali frodi ebbero, per fortuna della Storia, un «reo frutto»: il Ceccarelli fu infatti condannato a morte il 1° giugno del 1583 e decapitato a Roma, di fronte a Castel Sant’Angelo, il successivo 9 luglio all’età di 51 anni.

Ceccarelli era infatti nato a Bevagna il 21 febbraio del 1532 da Claudio, notaio di famiglia originaria di Città di Castello, e da Tarpea Spezi. Divenne medico ed esercitò la professione in varie cittadine del centro Italia (nel 1559 lo sappiamo a Canzano, vicino Teramo; nel 1565 a Sangemini; nel 1573 a Nepi). La medicina, tuttavia, gli va stretta: già a partire dagli anni Sessanta si affacciò al mondo dell’antiquaria e dell’erudizione, limitandosi prima a quella locale umbra e poi a quella nazionale. Raccoglie infatti maeriali eruditi e genealogici, in parte autentici e in parte fabbricati da lui stesso, coi quali progressivamente soddisfa l’orgoglio personale o comunitario di uomini e paesi con cui viene in contatto (diventerà per questo cittadino onorario di Teano, Pesaro e Gubbio).

La sua prima opera è un Opusculum de tuberibus (che resta, comunque, il primo trattato dedicato al tartufo nero) con aggiunto un Opusculum de Clitumno flumine in cui sono inventate alcune fonti solo per proiettare all’indietro la gloria mavenate: viene così citato lo storico latino Fabio Vopisco che (ammesso che sia mai esisitito: un Flavio Vopisco è infatti uno degli autori della Historia Augusta, tra l’altro anch’essa probabilmente falsa) mai si è occupato delle fonti del Clitunno, e fa la sua comparsa il De eparchigraphia Italiae dell’inesistente geografo Gabinio Leto.

Se tra il 1564 e il 1569 il Ceccarelli lavora indefessamente tra archivi e biblioteche per raccogliere materiale, il salto di qualità si ha tra il 1569 e il 1572, anni in cui produce falsi per i Podiani di Rieti e per i Cybo di Massa e in cui cominciano i rapporti con l’orvietano Monaldo Monaldeschi. La vera svolta nella carriera del Ceccarelli si ha però nel 1574. In quell’anno, infatti, venuto in contatto con il vescovo e cardinale di Orvieto Girolamo Simoncelli, nipote di Giulio III, riuscì a farsi assumere come medico di famiglia dalla zia di lui Ersilia Cortese del Monte, nella cui casa romana si trasferì almeno dalla fine del 1574. Legato alla figura del Simoncelli è tra l’altro uno dei più noti falsi ceccarelliani: quello delle cosiddette profezie di Malachia arrivate alla stampa nel 1595 nel Lignum Vitae del benedettino Arnoldo Wion. A Roma Ceccarelli respira l’aria dell’antico ed entra in contatto con i circoli antiquari e cerca di imporsi con un’ambizione smodata che lo porta a qualificarsi come «filosofo eccellentissimo trovatore delle grandezze del mondo et tribuno delle delitie dell’alma natura» (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottob. lat. 3033, f. 98r) o a asserire: «ho un cervellaccio che cape molte cose et gli miei studi, sono fertilissimi» (ibid., f. 100r). Tra Roma e Orvieto produce una gran quantità di falsi, che genealogisti appena un poco meno inclini alle favole non tardano a smascherare: nonostante i dubbi di alcuni dei suoi committenti (prima Alberico Cybo principe di Massa, poi l’orvietano Ludovico Monaldeschi) la fama del Ceccarelli cresce a dismisura; con gli anni Ottanta comincia a scrivere l’opera che lo dovrebbe consegnare all’immortalità: la Serenissima nobiltà dell’alma città di Roma. D’improvviso, però, la farsa diventa tragedia, anche se i contorni della vicenda non sono del tutto chiari: Ceccarelli – questo è certo – falsifica alcuni documenti relativi a testamenti, fidecommissi, passaggi di proprietà, finendo per coinvolgere le famiglie Anguillara e Cesi e forse, sia pure indirettamente, anche precisi interessi dei Boncompagni. Certo è che, contro di lui fu avviato un processo dinanzi al tribunale della Camera apostolica, in cui agì come parte lesa, oltre al Fisco, anche Paolo Emilio Cesi.

L’impostura storica trova dunque nella fine del Ceccarelli la sua giusta ed esemplare punizione. Roberto Bizzocchi in uno studio del 1995 che si può ben definire fondamentale (Genealogie incredibili. Scritti di storia nell’Europa moderna) fa della condanna senza appello pronunciata dal Tiraboschi un fatto più culturale che fattuale: e, in effetti, «la responsabilità di essere il paradigma, se non il fondatore, di un intero genere letterario è un po’ troppo pesante per le spalle di quello sventurato. E del resto, il suo fallimento personale contrasta in modo un po’ troppo stridente con la fortuna del genere» (p. 13). La considerazione di Bizzocchi è verissima, e ciò che Tiraboschi contesta al memoriale difensivo del Ceccarelli (di aver falsificato solamente per attestare il vero e di aver prodotto documenti falsi sulla base di quanto emergeva dai buoni autori) è in realtà la prassi in quella epistemologia della presupposizione su cui si fonda la scienza genealogica cinque e seicentesca: la storia non si costruisce sui documenti, ma usa i documenti come conferme, e – in assenza – li postula: falso, insomma, può essere contrario di vero, ma non contrario di autentico.

Eppure anche qui una domanda all’opposto si pone. La condanna severissima di Tiraboschi cade più di due secoli dopo la caduta della testa del Ceccarelli: non vi è forse un eccesso di acrimonia in una condanna solo “culturale”? E andando a ritroso, non è forse troppo poco pensare al Ceccarelli come semplice bersaglio di una cultura storica e erudita finalmente avvertita che lo addita come esempio negativo, come fa Giusto Fontanini nel 1711 che definisce il Ceccarelli «famoso impostore di scritture antiche»; come da Gottlieb Spitzel che lo inserisce nel 1680 nell’Infelix literatus come archetipo di falsario; o come fa Leone Allacci che pubblica nel 1640 addirittura una Animadversio in libros Alphonsi Ciccarelli?

Partiamo proprio dall’Allacci, che è il primo a occuparsi sistematicamente della figura del Ceccarelli: in appendice all’Animadversio, riprendendo sia il Dupplicatus index inserito nella condanna del Ceccarelli sia l’elenco di opere del falsario redatto dal Contelori traccia un panorama della produzione del Ceccarelli, diviso in tre indici. Il primo contiene le opere a stampa e manoscritte che il Ceccarelli attribuisce a sé stesso (ne elenca 41); il secondo contiene le opere false che il Ceccarelli dice di conservare nella propria biblioteca (e ne elenca 79); il terzo contiene le opere false solamente citate, ma che il Ceccarelli dichiara di aver visto in biblioteche altrui, oppure di cui non dà notizie più specifiche circa il possessore (e sono qui censite ben 136 opere); a questi numeri vanno poi aggiunti almeno 103 diplomi sicuramente camuffati dal Ceccarelli.

Si tratta, già a un primo sguardo, di un numero di opere gigantesco: le opere false citate dal Ceccarelli sarebbero, fatte le somme, 215 (e 103 diplomi). Sui diplomi il Ceccarelli è un falsario come tanti: la sua tecnica, molto banale, è quella di modificare ad arte diplomi originali. Per quanto riguarda le fonti delle sue mirabolanti e onnicomprensive opere Ceccarelli è molto più creativo e sistematico. Egli introduce innanzitutto testi falsi sotto il nome di opere realmente esistenti – come accade per esempio con il Liber ritualis vetustissimus, che riprende la titolazione canonica di una delle parti del Liber censuum Romanae Ecclesiae di Cencio Camerario: il testo originale nulla ha a che vedere con le citazioni del Ceccarelli – oppure attribuisce opere inventate a un autore realmente esistente, in modo che l’autorità dell’opera autentica spinga a credere buona anche l’opera falsa, come accade per esempio con la cronaca De Regno catholico Romanae Ecclesiae attribuita a Giovanni del Virgilio.

La prassi più frequente, tuttavia, è quella di spargere in opuscoli manoscritti le opere false che egli stesso produce a sostegno delle altre opere false. Il falsario cercava, poi, di introdurre questi libelli da lui fabbricati all’interno di qualche biblioteca stimata, di modo che altri autori e genealogisti fossero a loro volta spinti a citarla. È quanto accade per esempio con il De familiis illustribus Italiae di Fanusio Campano, vera “bandiera” dei falsi del Ceccarelli, o con il libro di Giovan Pietro Scriniario o con lo Statuto dell’arte della lana. Inoltre, come ha ben mostrato Fumi per le opere latine, egli creava dei fitti richiami di rimandi interni tra un’opera e l’altra. Di fatto, il sistema ceccarelliano finisce per essere un sistema autosufficiente in cui le opere citate non sono dei semplici nomi, ma opere effettivamente esistenti, perlopiù consultabili in qualche biblioteca nobiliare. L’abilità del Ceccarelli, soprattutto nel momento della sua venuta a Roma, fu che non solo le opere false erano caratterizzate da tutti gli aspetti tipici di queste opere (assenza dell’originale o di testimoni antichi; copie solo coeve alla scrittura del falso; assoluta mancanza di citazioni o di fonti coeve all’autore o all’opera; perfetta congruenza tra conteniuto del falso e scopi che si prefiggevano l’autore della genealogia e la famiglia che la richiedeva) ma anche dall’uso delle medesime opere, cui si attingeva per la creazione di più genealogie, sicché il complesso reticolo che si crea viene a far sì che sia impossibile discernere ciò che è sicuramente falso, ciò che è solamente interpolato dal Ceccarelli e ciò che invece, per un semplice prodotto del caso, è rimasto solo in manoscritti tardocinquecenteschi e seicenteschi ma è invece opera buona.

In alcuni casi, poi, c’è da chiedersi in realtà se sotto la furia iconoclasta dell’Allacci non siano cadute solamente delle pseudotitolazioni date dal Ceccarelli. È il caso per esempio del «Perdanus sive Ricordanus Malispina» di cui il Ceccarelli citerebbe, all’interno del Fanusio Campano, due opere, la Chronica e il De familiis et nobilitate Florentinorum. Ora, a prescindere dal curioso caso per cui la Cronica del Malispini è essa stessa un falso scritto con forti motivazioni genealogiche (che sono perlopiù rappresentate dalla genealogia delle famiglie discese da Uberto Cesare e dai nomi dei cavalieri nominati da Carlo Magno), è anche ben possibile che il riferimento di entrambi i titoli sia effettivamente alla Cronica di Ricordano Malispini.

C’è tuttavia un dato su cui vale la pena soffermarsi. Nella produzione ceccarelliana l’arrivo a Roma segna una cesura culturale netta. Se infatti in tutte le opere precedenti il 1574 i falsi ceccarelliani (e le citazioni ceccarelliane) sono pressoché esclusivamente latine, con la venuta a Roma il Ceccarelli comincia a dedicarsi anche a falsi in volgare. Per molte di queste opere di falsificazione prodotte in ambito romano parrebbe di poter indicare la collaborazione di almeno due suoi sodali: Silvio Lari e Fulvio Arcangeli.

Per di più – il che non sorprende alla seconda metà del Cinquecento (basti pensare a quanto accade con i Diunali del sedicente Matteo Spinelli da Giovinazzo) – i falsi del duo Arcangeli-Ceccarelli o del trio Arcangeli-Ceccarelli-Lari ricorrono spesso a un volgare locale di stampo antichizzante. Un caso molto evidente è in un’opera che oggi si ascrive pacificamente alla penna del Ceccarelli, gli Annali dell’orvietano Lodovico Monaldeschi: «Subito che fu incoronato Ludovico, isso voze fare lo Papa, perchè diceva, che toccava ad isso; ma era più rabbia, che lo Papa l’havea scommonicato; et incoronao Papa no cierto Pietro da Corvaro dello Contado de Rieti, ch’era Frate de Zuoccolo de S. Francisco. Fu chiamato Cola V. Fece muti cardinali; e quanno si fece frate, havea mogliere. Lo quale assolvè l’Imperatore dalla scommunica. De chisso tiempo morse la sora degli Anibali d’Anibaldeschi, ch’era na bella femena, e morìo de morte subitanea; donde grandemente si dolse lo figlio de Urso Conte dell’Anguillara, che ne iva fortemente arso, e sperava la pace con chisto matremonio de cheste due famiglie».

Il dialetto, qui, pare alquanto pasticciato, ma ciò dipende forse dal manoscritto viennese scelto a base dell’edizione dal Muratori. Una sezione di un tardo manoscritto (Vat. lat. 8255, che contiene varie opere riconducibili all’ambiente ceccarelliano) contiene anche un estratto di una cronaca “antica”, il cui uso non si riscontra direttamente nel Ceccarelli ma è mediato in un’opera strettamente dipendente dalla sua produzione, i Comentari historici di Monaldo Monaldeschi della Cervara, pubblicati a Venezia nel 1584: «Anno 1040. Fu creato imperatore Henrico iii figlio di Corrado ii lo quale se ne venne a Roma con mute iente armata, perché allo Monte Cellio ci era uno papa, alla chiazza de Missere Mattia ce ne era un autro, a mano manca allo Campidoglio ci n’era un autro. Venne lo granne Herrigo e se presentao allo Campidoglio, et chiamao lo nobile M.re Oddo della Colonna e cedette che raunasse tutta la fattione sua, et allora se presentao Mano de Vico, Ianni Castellano, Ciccio de Anibali, Manno Franiapane, Cincis, chilli de Papazzurri, chilli de Crescensio, chilli de Tito Menio, chilli della Caffarella…».

Di là dall’interesse genealogico, è evidente anche qui una tendenza “dialettizzante”, sia attraverso forme mai altrimenti documentate nell’area laziale o umbra meridionale (come muto ‘molto’), sia attraverso forme presenti, ma per la metà del Trecento non in area orvietana (autro, che è attestato invece nella Mascalcia sabina).

Questo manoscritto mostra perfettamente come sia pervasiva l’opera del Ceccarelli (e, eventualmente, dei suoi sodali) e quanto possa essere difficilissimo ancora oggi discernere le opere “vere” citate dal Ceccarelli e giunte – per un caso della tradizione – solo in manoscritti tardi dalle opere false. Per una prima idea di questa confusione basti pensare a quanto afferma Iacopo Grimaldi nel De sacrosancto sudario Veronicae (e tal quale l’affermazione è poi riportata da Leone Allacci), che derubrica a falsificazioni (almeno parziali) del Ceccarelli il Cola di Rienzo (ossia la Vita di Cola, il fortunato estratto corrispondente ai capitoli 18 e 27 della Cronica dell’Anonimo Romano) sia un’altra opera molto diffusa in manoscritti romani dell’epoca, il Castallo Metallino: «Alcuni hanno sospettato che i libri di Cola di Rienzo e di Castaldo Metallino fossero in molte parti interpolati, con commenti aggiunti di Alfonso Ceccarelli, il quale per l’acuta capacità al male nell’adulterare e nel portare improvvisamente alla luce false lettere apostoliche, istrumenti e antiche memorie, imitando i caratteri con un modo di parlare antiquato, e la carta pergamena con certi usi segreti, per farla sembrare antica, ottenne meritatamente la morte per decapitazione a Castel sant’Angelo sotto Gregorio XIII».

Da un punto di vista della storia della ricezione dei due testi, la testimonianza non può non tenersi in debito conto, se non altro perché Grimaldi vive nel periodo di massima diffusione manoscritta della due opere (nasce infatti intorno al 1560 e muore nel 1623, l’anno prima della prima stampa braccianese della Vita di Cola) e perché, dalla sua posizione di scriptor della Biblioteca Vaticana, poteva avere un panorama assai chiaro della percezione che l’antiquaria romana avesse di due opere di amplissima circolazione.

D’altro canto al Ceccarelli (con la possibile complicità dell’Arcangeli, che era in rapporti strettissimi con la famiglia Boccapaduli, che conserva oggi un altro dei manoscritti che tramandano l’opera) va attribuito almeno un altro testo falso strettamente collegato alla Vita di Cola (probabilmente tra gli ultimi realizzati, perché non lo si trova citato in nessuna delle opere del Ceccarelli che ho consultato), la cosiddetta Vita dello Magnifico Mataleno, patrizio romano: si tratta di una sorta di contrafactum della Vita di Cola stessa, di cui Mataleno sarebbe stato successore (faccio notare che il nome Mataleno richiama il nome della madre di Cola, Matalena). Il testo tradito da almeno sei manoscritti, uno dei quali, oggi conservato a Subiaco presso l’Archivio Colonna, di mano di Alfonso Ceccarelli. Un falso del genere, tra l’altro, pare privo di qualunque interesse genealogico, e dunque economico. Sembra, al contrario, un testo creato per puro divertimento: «Fu nello tiempo delli Antichi Romani che Roma era trionfante, uno homo, per nome chiamato Mataleno Porta a casa, nato de vasso legnaio, figliolo del condam bona memoria Iacoviello de Porta a casa, notaro dello seconno collaterano, homo molto saputo e letteruto e de granne ignegno. Fune adottorato nello studio di Bologna, confermato da tutti li Avocati e Dottori dello Coleio de Roma nella Chiesa di santo Stati alla Doana. E fece publicamente la tamanta diceria, ch’a onne chivielli li piacette. L’avitazio sio era nello rione delli Monti».

giulio.vaccaro@unipg.it

(Il testo è stato letto nel ciclo delle Conferenze della Fondazione Carletti Bonucci)

 

L'autore

Giulio Vaccaro
Giulio Vaccaro, romano e romanista, è un ciclista amante delle salite lunghe. Insegna Storia della lingua italiana all’Università di Perugia, dopo aver lavorato all’Opera del Vocabolario Italiano e all’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea.
Dal 2009 al 2016 ha diretto il progetto DiVo – Dizionario dei Volgarizzamenti (di cui ha coordinato l’attività dell’unità della Scuola Normale Superiore di Pisa, all’interno di un progetto FIRB – Futuro in Ricerca 2010); dal 2014 al 2016 ha diretto il progetto bilaterale Manoscritti italiani in Polonia: ricerca, catalogazione, studio / Włoskie rękopisy w Polsce: poszukiwanie, inwentarz i badanie e ha coordinato il Laboratorio Volgarizzamenti: storia, testi, lessico presso il Centro di Elaborazione Informatica di Testi e Immagini nella Tradizione Letteraria della Scuola Normale Superiore. Nel 2018 è stato research fellow presso il Deutsches historisches Institut in Rom. Ha collaborato alla GSR-Grammatica Storica del Romanesco, finanziata dal Fondo Nazionale Svizzero e coordina un’unità del progetto CorTIM. Corpus Testuale dell’Italia Mediana. Si occupa di volgarizzamenti di classici latini e mediolatini negli antichi volgari italiani (Albertano da Brescia, Seneca, Vegezio), di studio materiale dei manoscritti ai fini della storia della tradizione dei testi, di testi genealogici tra Due e Cinquecento, di contatti tra Italia e Spagna nel Medioevo e di autori dialettali romaneschi (Sindici, Tacconi, Zanazzo).