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«Non è mai troppo tardi», …per scoprire Alberto Manzi

Per me, scrivere di questo (bel) libro della studiosa (oltre che carissima amica) Tania Convertini, docente di Lingua e Cultura italiana al Dartmouth College ad Hanover, nel New Hampshire, significa confessare pubblicamente che, leggendolo, non ho soddisfatto soltanto la felicità mentale, ma ho potuto fare anche un bilancio, un ripensamento complessivo del mio essere (stato) docente. Dal prossimo primo settembre, infatti, dopo 43 anni, 5 mesi, e 3 giorni (come recita il decreto INPS), andrò in pensione. Quindi, la lettura di questo alfabetiere sul metodo pedagogico del maestro Manzi, sulle sue idee, sui suoi valori e sulle sue suggestioni, ha significato, per me, guardarmi allo specchio, ricevere un po’ di «conforto», per tutto quello che di «anomalo», di bizzarro e di irregolare, ho fatto, nella mia minuscola esperienza di docente di lingua e letteratura italiana, nella scuola secondaria di secondo grado, e di professore universitario a contratto (a Foggia e a Bari, inclusa una breve parentesi in Polonia, a Stettino). Anche sotto questo profilo privato, dunque, devo ringraziare Tania Convertini, per aver scritto questa mirabile narrazione su Alberto Manzi, e sulla sua «lezione» di maestro.

Motivo occasionale del libro della Convertini è stata, certissimamente, la ricorrenza centenaria della nascita di Alberto Manzi (1924 – 2024), il «maestro della TV», come, ancora oggi, lo si sente apostrofare, da quelli della mia generazione, che lo ricordano per le trasmissioni del fortunatissimo programma «Non è mai troppo tardi», andato in onda tra il 1960 e il 1968, in bianco e nero, sulla RAI, seguito da milioni di spettatori, che aveva l’obiettivo di contrastare, attraverso il mezzo televisivo, l’analfabetismo ancora dilagante, nella popolazione adulta italiana di quegli anni. Il successo di quella trasmissione televisiva si misurò anche dal fatto che il suo nome divenne immediatamente espressione proverbiale, «non è mai troppo tardi», come a dire, «si può sempre provare», «si può sempre rimediare», «c’è ancora tempo per…». Il libro di Tania Convertini, tra le altre cose, serve anche a questo, a dare dimensione e corpo alla figura e al pensiero pedagogico attivo di Alberto Manzi, che non fu solo un attore, che non fu solo un interprete televisivo di successo, ma che fu, soprattutto, e per tutta una vita, maestro vero, con alunni veri, in una scuola vera (per decenni, Manzi fu maestro presso la Scuola Elementare «Fratelli Bandiera», di Roma). Proprio ricorrendo ai ricordi di molti suoi ex-alunni, Tania Convertini ha co-costruito questo suo libro (che è anche, quindi, anche un libro loro, un libro collettivo). Manzi fu maestro vero e geniale, di quelli che non hanno mai inteso il loro essere maestro come semplice trasmettitore di conoscenze e di nozioni, ma che, al contrario, hanno sempre puntato a trasferire alle studentesse e agli studenti la capacità di pensare, l’attitudine all’onestà, la difesa della libertà, la consapevolezza del «noi», la ricerca della parola precisa, il gusto per la curiosità e per la scoperta, il valore della «disobbedienza», e tanto altro ancora. Leggere il libro di Tania è come fare un viaggio fascinoso attraverso l’universo umano e professionale di Alberto Manzi, come entrare nella sua aula laboratorio (fatta di spazi chiusi, ma, soprattutto, di spazi aperti, come il terrazzo adiacente all’aula, e di aperture mentali sconfinate). Una lettura agile, coinvolgente (senza la zavorra delle note a piè di pagina, e senza i continui rinvii bibliografici), un libro divulgativo e rigoroso, al tempo stesso, passionale e scientifico, finalizzato a trasmettere al lettore il convincimento che Alberto Manzi abbia ancora molto da dire e da dare, a ciascuno di noi, si sia insegnanti, genitori, ex-alunni, formatori, amministratori, intellettuali, gente comune. Altro merito (e non di poco conto) del libro di Tania Convertini è quello di aver inserito il lavoro attivo del maestro Manzi, e il suo pensiero generativo, all’interno di una «rete» di ricercazione pedagogico-didattica, da Dewey a oggi, tanto per intenderci, che lo stesso Manzi non cercò, in vita, e non esplicitò (ma che praticò, nel suo quotidiano e concreto fare scuola).

Ripensare, oggi, da parte mia, all’esperienza delle lezioni in Rai di Alberto Manzi (e non si trattò soltanto del programma «Non è mai troppo tardi», ma anche di altri programmi televisivi da lui ideati e realizzati, qualche anno dopo, come, per esempio, «Educare a pensare», in 13 puntate), mi ha confortato nell’idea che da diversi anni vado teorizzando e praticando intorno al concetto del «pop», della divulgazione letteraria pop, dove l’espressione «letteratura pop» non sta solo per «popolare», per tutti, ma anche per «contaminata», una letteratura cioè aperta a tanti altri codici e linguaggi espressivi (dal fumetto, alla canzone, dal cibo, al videogioco, dai social network, a Tik-Tok, e così via). Da un paio di decenni, infatti, mi son messo contro-vento, rispetto all’Accademia, e ho cominciato a non frequentare più soltanto i convegni universitari, ma le piazze, le strade, i festival, i lidi, le televisioni e le radio locali, per parlare a tutti di letteratura, ricorrendo all’utilizzo di linguaggi e di modalità espressive contaminate, irregolari, ma rigorose, esattamente nel segno di quelle sperimentazioni e di quelle innovazioni che praticava il maestro Manzi. La «ludo-didattica», come amo definirla, anche sulla scia della rivoluzione umanistico-rinascimentale della «Ca’ giocosa» di Vittorino da Feltre, che fa arricciare il naso a qualche collega, o che fa gridare allo scandalo, da parte di qualche (presunta) vestale della tradizione, ma che, al contrario, incontra il favore di chi ascolta (siano essi studenti, o villeggianti, genitori, o semplici curiosi), che mi fa sentire un autentico (e utile) «maestro di strada». La lettura di questo studio di Tania Convertini mi ha fatto pure constatare, ancora una volta, con dolore, che tutte le innovazioni di Manzi, ovvero quelle analoghe di Rodari, o di Lodi, o di don Milani, o di tanti altri valorosissimi (e coraggiosi) maestri della scuola italiana, si son sempre fermate, pur generando semi fertili, agli anni della scuola primaria. Parrebbe, infatti, che oltre quella fascia d’età, non debba avere cittadinanza didattica il «gioco», in quanto strumento di insegnamento / apprendimento disciplinare. Nella fascia della secondaria, specie in quella della secondaria di secondo grado (la fascia d’età dell’odierno sistema dei licei), infatti, tutto questo non entra, nemmeno oggi. Il mio cruccio principale, come docente di scuola, è stato sempre questo, non riuscire a trasferire questo immenso patrimonio didattico-ludico anche nell’insegnamento / apprendimento della letteratura italiana. Ovviamente, nel mio microcosmo, l’ho fatto, mi sono cioè sempre cimentato con percorsi di ludo-didattica (e di didattica digitale ludica), infischiandomene dei giudizi dei colleghi, o di qualche perplessità dei Dirigenti Scolastici, invitando le mie ragazze e i miei ragazzi a giocare con la parola d’Autore (fosse Dante, o Leopardi, o Montale), a manipolare i loro versi, e i loro testi, a non guardarli come testi sacri e immodificabili, partendo, per esempio, dall’analisi giocosa degli autografi di A Silvia, per ridere e per riflettere sui dubbi e sui dilemmi del poeta, sulla sua ricerca della parola precisa e sonante, sulle cancellature, sui ripescaggi, sulle varianti, sull’accostamento dei suoni e delle sillabe, esattamente come ciascuno di noi fa, in fase di scrittura (fosse pure la scrittura di una lettera di protesta da indirizzare all’amministratore di condominio), né più, né meno. Giungere, attraverso questo approccio ludico-immersivo, ad agguantare il senso della lettura di un Classico oggi; giungere a intravedere, cioè, il perché, oggi, si debba (o non si debba) continuare a leggere un autore di tradizione, poniamo, Foscolo, o Parini, o Ariosto, o Calvino (o Pasolini, o Pirandello), e giungere a intuire il perché non si debba (più) leggere un autore come Manzoni, o come Guicciardini.

Scoprire, leggendo il saggio di Tania Convertini, che, per esempio, Alberto Manzi praticasse decenni e decenni prima della formalizzazione pedagogica la sperimentazione delle così dette «aule Dada», nella convinzione che l’arredo, il setting d’aula, come si dice oggi, non è affatto indifferente, ai fini di un più efficace e fertile percorso apprenditivo. Si vedano le pp. 21 e seguenti, per leggere il racconto di alcuni ex-alunni del maestro Manzi, che ricordano come, il primo giorno di scuola, il maestro iniziasse a far lezione in un’aula vuota, totalmente spoglia, e come, di giorno in giorno, scoprissero, con il maestro, il valore pedagogico dell’arredo scolastico, dell’arredo della singola aula. In anticipo di decenni, dunque, e non soltanto sotto questo profilo, del «setting d’aula»; penso pure alla metodologia del «debate», come si usa dire oggi, che Alberto Manzi, con le sue studentesse e con i suoi studenti, già praticava, di fatto, decenni fa. Scoprire quanto sia attuale il pensiero del maestro Manzi, sulla necessità di impadronirsi del linguaggio, in quanto strumento essenziale «per l’accesso a servizi essenziali, quali l’istruzione, la salute, i trasporti e persino la capacità di orientarsi negli spazi» (p. 44). Ebbene, oggi, se solo aggiungessimo alla parola «linguaggio» l’aggettivo digitale, se cioè aggiungessimo la necessità di padroneggiare la capacità di saper comprendere e di saper utilizzare i linguaggi dell’odierna comunicazione digitale (cellulare, tablet, rete Internet, ecc.), noteremmo che il monito di Alberto Manzi è metodologicamente attualissimo, per l’accesso e per la fruizione di servizi essenziali.

Segnalo, dal libro di Tania Convertini, e la scelta di selezione è davvero difficile, perché dovrei segnalare pagine e pagine, esempi su esempi; ebbene, segnalo soltanto un paio di esempi, in merito all’assenza di moralismo e di autoritarismo, da parte del maestro Manzi, nel far cogliere ai suoi ragazzi la necessità di porsi, sempre, nei “panni” dell’altro, prima di emettere una sentenza, o prima di assumere un comportamento: «Racconta Danilo P., uno degli ex alunni del maestro, che una loro compagna di classe ci vedeva pochissimo e leggeva con difficoltà stando con il naso attaccato al libro tutto il tempo. Per questo alcuni compagni la prendevano in giro. Il maestro un giorno fece uscire la bambina dalla classe con un pretesto. I vetri erano appannati dalla pioggia e non si vedeva niente di ciò che c’era fuori. Portò i bambini davanti alla finestra e disse loro: “Ecco, la vostra compagna ci vede esattamente così”. Fu una lezione di empatia semplice e efficace […]. L’esperienza diretta di quella visione indistinta di forme aveva offerto loro un punto di vista nuovo e inaspettato, e con questo l’opportunità di vedere attraverso gli occhi dell’altro» (p. 49).

Come la pagina nella quale la Convertini illustra cosa significasse, per Manzi, «tensione cognitiva» e «curiosità», in quanto molla dell’apprendimento: «…portò l’esempio di un bambino sul seggiolone, intento a sperimentare la caduta degli oggetti. Il piccolo, con grande soddisfazione […] faceva cadere ogni oggetto e lo osservava nella sua caduta, soddisfatto nello scoprire che la sua azione (lasciar andare gli oggetti nel vuoto) produceva sempre la stessa risposta (la loro caduta). “Ha conquistato una verità. Ogni oggetto lanciato, ricade a terra. Io però – continua il maestro – sono stato cattivo. Un giorno gli ho portato un palloncino ben gonfio. Lo tengo in modo che non vada in alto. Glielo offro. L’afferra e poi si sporge dal seggiolone. Allunga il braccio per poggiarlo a terra e…oplà. il pallone non va giù ma va in su. Lo guarda preoccupato. Come mai tutte le cose cadono e questo no? Lo faccio riprovare. E lui butta prima il cucchiaino in terra, poi il palloncino… No, va in aria. Così scopre che ci sono cose che cadono giù e cose che vanno in su. Perché?” » (p. 147).

Di qui, da questa constatazione, dalla sorpresa e dalla conseguente confusione, scattarono, nel bambino, appunto, la curiosità, la tensione cognitiva, per saperne di più, per scoprire il perché di quel comportamento differente del palloncino, rispetto agli altri oggetti. Il maestro orchestratore, provocatore, di questa nuova conoscenza, di questa nuova scoperta.

Altre pagine che segnalo son quelle sistemate sotto la lettera «Z» come (non stare) Zitti. Pagine eccellenti, come tantissime altre del libro (si vedano, le pp. da 164 a 170). Dopo aver illustrato le diverse tipologie del silenzio, il silenzio cioè come scelta pedagogica, e non come assenza di comunicazione, il silenzio inteso da Manzi come spazio di crescita, esattamente – mi viene da scrivere – come il silenzio di alcune poesie di Giuseppe Ungaretti, i suoi «vuoti», che, in realtà, dicono esattamente quanto (se non più) delle parole; ma le suggestioni letterarie, che affiorano nella mia mente, sono tante, per esempio, l’incipit de La pioggia nel pineto, di Gabriele d’Annunzio, con quel suo perentorio «Taci», con il quale il poeta invita la sua donna a fare silenzio, per poter ascoltare le «voci» non umane della selva; oppure, l’analogo invito di Gianni Rodari, in una sua filastrocca, a entrare nel bosco e a far silenzio, in modo da sentire tutte le diverse voci del bosco; ebbene, superata la tassonomia dei «silenzi», Tania Convertini guida il lettore nell’analisi del valore del silenzio del maestro. Generalmente, nella scuola italiana, per la didattica tradizionale (riversativa e nozionistica), il maestro parla, e il bambino ascolta. Manzi invece era solito tacere, ed era solito ascoltare. Decenni e decenni dopo avremmo avuto la formalizzazione metodologica nota come «flipped class-room», il modello, appunto, della scuola rovesciata, in cui è il ragazzo che parla, e il docente ascolta (e orienta, ma, soprattutto, ascolta, e osserva). Come pure il silenzio fatto di parole «non dette». Momenti durante i quali Manzi lasciava che negli interstizi di quel suo non detto, galoppasse la fantasia dei suoi alunni. Parole non dette, taciute, ovvero, suggerite. Esattamente come fa Dante, in molti luoghi del suo poema, allorquando tace, non riferisce le (belle) cose che ha ascoltato (da Virgilio, da Stazio, da Beatrice), scatenando nei suoi lettori la curiosità, la fantasia (cfr. Inferno, IV, verso 104: «parlando cose che ‘l tacere è bello»).

Un valore civile e rivoluzionario, in questo ambito del tacere e del non tacere, assume l’invito a non tacere, che Manzi rivolgeva a sé stesso, e ai suoi alunni, anche a costo di subire ritorsioni e punizioni (Convertini ricorda, nel libro, che il maestro Alberto Manzi fu sospeso per alcuni mesi dall’insegnamento e dallo stipendio, per non aver voluto compilare le schede di valutazione periodica degli alunni, giudicandole sciocche e inopportune), in presenza di norme e di prescrizioni palesemente ingiuste. Convertini cita, a p. 170, una poesia di Manzi, che invita, appunto, a non tacere, dinanzi alle ingiustizie, che suona come un monito alla cittadinanza attiva:

Io devo cantare
la rabbia del silenzio.
Devo gridare il dolore della parola.
Devo farlo, ora, se voglio ancora
sentirmi uomo, essere uomo.

Quanta distanza, a mio modo di vedere, dal silenzio tremebondo di Alessandro Manzoni, che, al contrario, rispetto a Manzi (e a don Lorenzo Milani), nel sugo della sua storia, faceva dire a Renzo, in forma di manifesto pedagogico del qualunquismo, di aver imparato a non mettersi nei tumulti, a non parlare in piazza, a non dire quello che pensasse, insomma, di aver imparato a farsi i fatti propri. Bell’esempio di diseducazione civica, quella di Manzoni.

trifone.gargano@uniba.it

 

L'autore

Trifone Gargano
Trifone Gargano
Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura». Ha insegnato «Linguistica italiana» al Corso di Laurea Magistrale in «Scienze della Mediazione Linguistica», e «Didattica della lingua italiana» per l’Università degli Studi di Foggia, e «Storia della lingua italiana» in Polonia (Università di Stettino). È autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani, con il quotidiano «Corriere del Mezzogiorno» («Corriere della sera»), e con diversi blog letterari. Realizza lezioni-spettacolo sui Classici della Letteratura italiana, ed è commentatore televisivo e radiofonico.