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Teresa Franceschi intervista Jón Kalman Stefánsson

Interview in English

Jón Kalman Stefánsson nasce a Reykjavík il 17 dicembre 1963. In giovane età, in seguito alla morte prematura della madre, si trasferisce col padre a Keflavík, nella zona sud-occidentale dell’isola. La cittadina si sedimenta nel suo immaginario letterario e ritornerà più e più volte nelle trame dei suoi romanzi. Prima di approdare al campo della scrittura svolge una serie di altri mestieri: lavora come insegnante di letteratura alle scuole superiori, poi come bibliotecario presso la Biblioteca Mosfellsbær vicino alla capitale islandese[1]. A partire dagli anni 2000 si dedica a tempo pieno all’attività di scrittore. È del 1988 il suo esordio con la raccolta di poesie Með byssuleyfi á eilífðina[2] (La prima volta che il dolore mi salvò la vita[3]), divenendo figura di spicco del panorama letterario e dando così avvio a una brillantissima carriera. Sebbene nasca come poeta, Stefánsson è anche un eccellente prosatore: i suoi romanzi sono stati plurinominati al Premio letterario del Consiglio Nordico e con l’opera Sumarljós og svo kemur nóttin[4] (Luce d’estate ed è subito notte[5]) ha vinto il Premio Letterario Islandese[6]. Il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia è Guli Kafbáturinn[7] (Il mio sottomarino giallo[8]).

Il fatto che Stefánsson esordisca come poeta è il motivo per cui la sua prosa risulta così musicale e ritmica. Caratterizzata da frasi lunghe, divagazioni e ragionamenti che seguono il filo e la forma dei pensieri, la scrittura di Stefánsson è alla costante ricerca di suggestioni che trascendano la realtà e possano restituire l’immediatezza e l’intensità delle emozioni umane. Questo particolare stile è una risposta alla frustrazione che lo scrittore esperisce rispetto alla limitatezza del linguaggio, incapace di esprimere adeguatamente il sentire umano. Ciò che muove la vena creativa di Stefánsson è l’irresistibile curiosità di indagare tutto ciò che non è trasparente e che sfugge a ogni tentativo di comprensione. Il suo marchio di riconoscimento è lo stile semplice e mai artificioso, che prende le mosse dall’apparente trivialità degli oggetti quotidiani e, a partire da essi, costruisce una riflessione universale di stampo esistenziale, al cui centro vi è l’essere umano nella sua infinita complessità. La forza di questo scrittore sta nella sua capacità di restituire sensazioni tanto vere e universali, pur nell’estrema fedeltà alla terra che gli ha dato i natali: infatti, quasi tutte le sue storie sono ambientate in Islanda e sono profondamente radicate nella cultura dell’isola. A determinare la direzione delle vicende che racconta è innanzitutto la prospettiva dalla quale le si osserva: talvolta a narrare gli eventi è una sorta di spirito, come nel caso del dittico di romanzi Fiskarnir hafa enga fætur[9] (I pesci non hanno gambe[10]) e Eitthvað á stærð við alheiminn[11] (Grande come l’universo[12]); altre volte, invece, la trama si snoda attraverso flashback e flashforward, in uno spostamento continuo lungo l’asse temporale che riesce a rendere la complessità dell’esistenza, come nel romanzo Saga Ástu[13] (La storia di Asta[14]).

L’intervista presentata in questa sede ha un approccio per così dire induttivo: in linea generale, partendo da alcuni casi o passi specifici, le domande hanno cercato di fare riferimento ai temi più ricorrenti dell’opera di Stefánsson, ma con l’intenzione di offrire una chiave interpretativa rinnovata e originale. Si è scelto di indagare la dimensione della memoria, che appare uno degli aspetti più significativi della personalità letteraria dello scrittore: il compito di uno scrittore, che Stefánsson persegue come fosse una missione di cui si sente investito, è quello di fermare la morte ed evitare l’oblio cui tutte le cose sono costrette dallo scorrere inesorabile del tempo. È pur vero, tuttavia, che i ricordi possono essere pericolosi, farsi breccia nella nostra mente e imporci delle decisioni che inevitabilmente modificano il corso degli eventi. Soltanto Stefánsson saprà spiegare in che modo tutto questo possa coesistere. La natura è un altro dei temi sui quali ci si è interrogati: una natura ingombrante, rispetto alla quale l’essere umano si trova costretto a combattere in una vera e propria lotta alla sopravvivenza. Tutto ciò è, forse, tanto più vero nel caso dell’Islanda; è come se la Natura sull’isola avesse sempre rappresentato un nemico, alla stregua di re e sovrani nelle altre nazioni d’Europa. Una questione altrettanto ricorrente riguarda il legame di amore e odio con la terra nativa, vale a dire la necessità di allontanarsi dall’isola, nell’estremo bisogno di istituire una distanza da essa; tali sensazioni sono, però, sempre accompagnate dal corrispettivo desiderio di ritorno, nel disperato bisogno di un ricongiungimento definitivo che restituisca all’individuo parti dimenticate della propria identità. Alle questioni citate faranno da cornice alcune domande che hanno l’obiettivo di chiarire i modelli letterari a cui Stefánsson si è ispirato e il ruolo che ha giocato, nella storia nazionale dell’Islanda, il rapporto con i paesi esteri e, in particolare, con gli Stati Uniti d’America.

Vale la pena ricordare che, con la sua opera, lo scrittore non intende in alcun modo creare un mondo alternativo che si sostituisca a quello reale, cui fare riferimento o nel quale nascondersi fuggendo dalla vita: Stefánsson, piuttosto, scrive per allargare quel mondo, per darci la possibilità di percorrere le infinite possibilità che vi ruotano attorno. Questo è il suo contributo più prezioso.

In Islanda più che in qualsiasi altro luogo, l’essere umano si trova a relazionarsi continuamente con la natura in tutta la sua grandiosità. Nel romanzo I pesci non hanno gambe, negli ultimi capitoli, il narratore dice che il protagonista ha vissuto in un luogo in cui “la vita umana si misura con l’oceano”. Crede che esista un qualche gioco di potere in questa relazione fra Natura ed essere umano in una terra come l’Islanda, per cui forse la prima prevale sul secondo? O ritiene, piuttosto, che essi si trovino sullo stesso piano?

Questa relazione è cambiata molto negli ultimi cento anni. Per secoli, o dal momento in cui l’Islanda è diventata una terra abitata, le forze della natura e gli agenti atmosferici sono stati in qualche modo la minaccia più grande col quale dovevamo relazionarci; proprio come lo erano i re, le signorie avide e i papi in Europa. Dal XIII secolo eravamo più o meno liberi dalle guerre, a parte qualche turbolenza all’inizio del XVI secolo. Questo per dire che nessun re né niente di simile ci ordinava di andare in guerra, e perciò non eravamo coinvolti in alcun conflitto. Le nostre guerre erano contro la natura. Non tanto perché essa fosse crudele, quanto piuttosto perché era dura; l’inverno può essere faticoso, abbiamo i vulcani etc. Quindi, la nostra è stata la storia del sopravvivere alla natura. Ciò è sicuramente cambiato, e nonostante la natura qui sia ancora molto travolgente, e possa effettivamente farci del male, noi in Islanda, così come in altri paesi, usiamo le risorse naturali non sempre in modo saggio né con rispetto. Talvolta, anzi, trattiamo la natura in modo così infimo che sembra quasi che ci stiamo prendendo una qualche rivincita su di lei. Ma penso che i nostri sentimenti nei suoi confronti siano in qualche modo più complessi che in molti altri paesi; sia per via della nostra storia, che anche per il semplice fatto che l’Islanda è più o meno solo natura, con giusto qualche persona sparsa in giro.

“Chi ama l’Islanda a volte deve allontanarsene”: nelle prime pagine del libro I pesci non hanno gambe il narratore pronuncia queste parole riferendosi al protagonista, che ha lasciato l’Islanda. Sembra che, insieme all’affetto e all’attaccamento all’Islanda, ci sia anche una qualche forma di dolore e di sofferenza. Può spiegare in che modo questi sentimenti possono coesistere? Inoltre, quale crede sia il motivo per cui una persona sente il bisogno di andarsene dall’Islanda per potersi sentire in pace con la propria terra d’origine? Che cos’ha quest’isola che la rende un luogo così problematico con il quale relazionarsi?

In parte ciò dipende dal fatto che viviamo su un’isola, e penso che sia comune, fra coloro che vivono sulle isole, nascere con il desiderio intimo di andarsene via, o almeno di viaggiare. Gli islandesi sono sempre stati curiosi del mondo, di tutto ciò che si trovava oltre la linea dell’orizzonte; ed è di vitale importanza, sia per un isolano sia per chi vive in un posto remoto come l’Islanda, dove la società è più o meno monotona e uguale a sé stessa, per il fatto che siamo pochi e molto simili gli uni agli altri, di andarsene per un po’, vivere all’estero, e ritornare con nuove esperienze e visioni del mondo, e in virtù di quelle arricchire la nostra società. Inoltre, e ciò vale per chiunque, non importa che viva negli Stati Uniti, in Italia, in Tailandia o in Islanda, ogni persona sarà più capace di comprendere sé stessa, così come il proprio paese d’origine e la rispettiva cultura, vivendo in luoghi diversi che abbiano a loro volta culture diverse. Andandosene, si ottiene un metro di paragone, e ciò ci arricchisce, rendendoci forse più riconoscenti per il nostro paese.

Alla fine del suo libro Grande come l’universo il narratore che ha raccontato la storia di Ari e del suo ritorno in Islanda si dissolve fino a confondersi con la neve che cade, al punto che non rimane più alcuna prova della sua esistenza. Quindi, la sua voce può essere interpretata sia come la coscienza del protagonista stesso che come uno spirito che lo guida nel corso della sua vita. Giorgio Manganelli, un importante scrittore italiano, ha viaggiato in Islanda e nel libro L’isola pianeta spiega come gli islandesi intrattengano un profondo rapporto con gli spiriti e con il mondo che si rivela attraverso i sogni, le visioni e le premonizioni. Che relazione intrattiene lei con questo mondo? Inoltre, crede che sia possibile interpretare il narratore del suo libro come uno spirito di questo tipo?

L’unica cosa che so è che non sappiamo abbastanza per rispondere. Gran parte della nostra mente è un mistero per noi; non sappiamo neppure come funziona il meccanismo del pensare; come il pensiero si formi, o cosa effettivamente sia pensare. Nessuno è mai riuscito a spiegarlo. Quindi, in qualche modo, persino noi siamo un mistero per noi stessi! E gran parte del nostro universo è fatto di materia oscura, e non abbiamo neanche una vaga idea di che cosa sia; e inoltre, è molto probabile che intorno a noi esistano innumerevoli altri universi. Per tutti questi motivi, penso che non sia possibile semplicemente escludere che un qualche spirito possa esistere; che si tratti di fantasmi o in qualsiasi altro modo vogliamo chiamarli. Una parte di me vuole credere che esistano, perché ciò significa che c’è qualcosa di più nel mondo oltre che semplicemente materia; e che forse c’è qualcosa che ci aspetta dopo che avremo esalato il nostro ultimo sospiro. Ma non possiamo provare né ciò né il contrario; e questo apre moltissime porte! Il narratore? Sì, uno spirito di qualche tipo, o forse ancora, no. Ma i due potrebbero anche essere una sorta di Dante e Virgilio…

Se consideriamo l’epilogo della storia di Ari, alla fine del libro Grande come l’universo, quando il padre muore e la conversazione fra i due non avviene, il lettore può scegliere di credere che una riconciliazione tra una persona e le sue sofferenze passate non sia più possibile, dal momento che tutto è cambiato e non c’è più tempo per aggiustare le cose. Si trova d’accordo con questa interpretazione? O pensa che sia possibile per una persona andarsene dalla propria patria, starne lontano per anni, e poi tornare e riprendere tutto da come lo aveva lasciato al momento della partenza? In sostanza, il ritorno è possibile, a suo avviso?

Sì e no. Non credo che dovremmo sperare di poter tornare a casa dopo anni e riniziare tutto da come lo avevamo lasciato, come se niente fosse accaduto. Penso che sarebbe una cosa triste. Se te ne vai per un po’ di tempo, non sarà possibile tornare nello stesso mondo, mai più. Perché gli anni ti dovrebbero, ti devono cambiare e sicuramente ti hanno cambiato; e lo stesso accade a coloro che ti lasci dietro le spalle. Non calpesterai mai la stessa terra due volte. Ma non è necessariamente una cosa negativa, almeno finché non speri che niente sia cambiato. E questo è un pensiero pericoloso, perché la vita dovrebbe essere sempre all’insegna del cambiamento, e se stai fermo immobile, alla lunga qualcosa inizia a morire dentro di te; e anche la scintilla nei tuoi occhi si spegne. È possibile tornare in patria soltanto se si accetta che tutto sia cambiato.

Verso la metà del libro I pesci non hanno gambe scrive che i punti cardinali a Keflavík sono quattro: il vento, il mare, l’eternità e l’esercito americano. Che ruolo ha giocato la presenza americana nel suo paese? Che cosa rappresentano gli Stati Uniti per l’Islanda, anche al giorno d’oggi?

Non è facile rispondere a questa domanda in modo conciso, ma si potrebbe dire senza ombra di dubbio che la presenza dell’esercito americano qui, prima con la Seconda guerra mondiale, e poi di nuovo nel 1951, rimanendo fino al 2006, ha avuto un chiarissimo, forse ingente, impatto sulla nostra società. In un modo o nell’altro si potrebbe dire che il XX secolo non è iniziato in Islanda finché non è arrivata la guerra. In parte per via dell’attività militare, prima degli inglesi e poi degli americani; sono state costruite le strade, gli aeroporti ecc. E poi quando tornarono nel 1951, c’era tantissimo lavoro, costruirono più strade, allargarono i nostri aeroporti; i soldi cominciarono a circolare proprio a partire da loro. All’epoca, avevamo soltanto una stazione radio, non avevamo la televisione, e loro hanno portato entrambe le cose; nelle loro radio suonava la musica più nuova, sia jazz che rock, e questo ha avuto un enorme impatto sulla nostra cultura. Allo stesso tempo, c’era però sempre anche una forte resistenza contro l’influenza che esercitavano; le persone temevano che avrebbero modificato troppo la nostra cultura. Noi islandesi subiamo l’influenza degli Stati Uniti più che, per esempio, quella di qualsiasi altro paese nordico. La loro influenza è ancora presente, per via di tutti i film, le canzoni etc., ma al giorno d’oggi si unisce agli influssi che arrivano dall’Europa.

Halldór Laxness è considerato uno dei più grandi scrittori islandesi di tutti i tempi; ha vinto il premio Nobel nel 1955 e i suoi libri hanno plasmato la coscienza nazionale dell’isola. Nella sua carriera come scrittore, la figura di Laxness è stata in qualche modo di ispirazione? Se sì, come?

Uno dei più grandi? Beh, immagino che si potrebbero nominare anche alcuni degli autori delle grandi saghe islandesi, come la Njáls saga, la Laxdæla saga ecc., ma sì, sicuramente Laxness è molto importante per noi, e il premio Nobel conferitogli nel 1955, soltanto 11 anni dopo l’ottenimento della definitiva indipendenza dai Danesi, fu un evento enorme all’epoca; per gli islandesi il Nobel fu anche una sorta di riconoscimento e approvazione della nostra indipendenza. Prima del premio, Laxness era un autore controverso, le persone spesso lo criticavano, a volte in maniera dura, ma dopo il Nobel divenne praticamente intoccabile, cosa che non è mai positiva per un artista. Ho letto tantissimi suoi libri quando ero giovane, con gli occhi che brillavano; dopo, l’ho letto con un approccio più critico. È un grande scrittore, o lo è stato, ha fatto delle cose fantastiche, ma anche altre non tanto buone. Insomma, ha le sue colpe. Quindi, mi ha influenzato quando ero ancora un giovane scrittore, ma poi sono andato oltre. Rispetto l’eredità che ha lasciato, ma non è stato un modello per me.

Jón Kalman Stefánsson tiene una lezione nel corso di Letterature Nordiche del Prof. Alessandro Zironi (Università di Bologna).
Jón Kalman Stefánsson tiene una lezione nel corso di Letterature Nordiche del Prof. Alessandro Zironi (Università di Bologna).

I ricordi hanno un’enorme importanza nella sua scrittura: rappresentano l’unico modo attraverso il quale le persone e gli eventi possono essere ricordati con il passare del tempo, e nel farlo essi plasmano la nostra identità, chi siamo e chi siamo stati. In alcuni casi, i ricordi possono anche prendere il controllo su di noi e applicare sul nostro sguardo una lente attraverso la quale vediamo il mondo che abbiamo intorno in modo diverso. È proprio questo che accade al protagonista del libro I pesci non hanno gambe: quando torna in Islanda, ogni volta che si guarda intorno vede luoghi e persone identici a come li aveva lasciati anni prima. Inoltre, uno dei motivi per i quali torna in patria è il fatto che non può più continuare a ignorare il suo passato: i suoi ricordi lo stanno chiamando indietro, e non può fare altro che tornare in Islanda. Secondo lei, i ricordi sono pericolosi, dal momento che modificano le nostre percezioni e ci inducono a fare delle scelte piuttosto che altre, influenzando quindi il nostro destino? Sono un tesoro o, piuttosto, una minaccia?

Sono tutte queste cose contemporaneamente! Un pericolo, un tesoro, inaffidabili, eppure quasi l’unica cosa sulla quale possiamo contare. I nostri ricordi ci influenzano costantemente, e spesso senza che neanche ce ne accorgiamo. E sono in continua evoluzione; ogni nuova esperienza può modificarli, offrire loro una nuova prospettiva; o richiamare alla memoria qualcosa che si era totalmente dimenticato. E, una cosa fondamentale, molto interessante e a volte inquietante; i ricordi che giacciono nel nostro intimo, in profondità, così remoti che non ne siamo neanche a conoscenza, quei ricordi possono influenzare i nostri sentimenti, i nostri pensieri e comportamenti. Sarebbe pericoloso, però, se a quei ricordi non dedicassimo un pensiero, e semplicemente continuassimo a spingerli in profondità, nell’abisso che abbiamo dentro di noi; a quel punto, staremmo scappando da noi stessi, e quel tipo di fuga raramente ha un lieto fine, anzi spesso finisce molto male. Tutto questo vale per noi, individui, così come per le nazioni.

Ho notato che una tecnica narrativa che usa spesso è quella di partire da oggetti, impressioni o ricordi per raccontare le storie dei personaggi. Uno dei suoi romanzi in cui questo procedimento narrativo emerge in modo più evidente è La storia di Asta, dove il padre della protagonista giace a terra, dopo essere caduto da una scala, e tra un momento di lucidità e l’altro traccia gli eventi che hanno segnato la storia della sua famiglia. Credo che questo sia un modo molto originale di costruire una storia e personalmente mi piace moltissimo. Ricordo una sua intervista nella quale sostiene che tutti gli scrittori costantemente compiono un furto dal mondo che hanno intorno. Quindi la mia domanda è: questa tecnica narrativa deriva da un qualche tipo di furto, quando “ruba” delle impressioni o degli oggetti dal mondo che la circonda? E nel farlo, quanto di lei mette nelle sue storie?

Una persona ruba nel senso che è costantemente influenzato dagli altri, dagli scrittori, i musicisti, facendo proprie delle idee; la cosa più importante, tuttavia, è usare quelle idee nel proprio modo. Cercare di usarle in un modo nuovo. Comunque, devo confessare che non ho mai pensato a come l’idea di usare questa tecnica mi sia venuta in mente; semplicemente, è arrivata, e immediatamente ho capito che era la giusta…melodia. E sì, la strategia narrativa è fondamentale per me, di vitale importanza, perché influenza tutto in modo decisivo; l’atmosfera, il modo in cui tutto scorre. Una fra le cose più importanti.

teresa.franceschi@outlook.it

 

[1] https://bokmenntir.is/en/literature-web/authors/jon-kalman-stefansson (ultima consultazione: agosto 2024).

[2] Jón Kalman, Stefánsson, Með byssuleyfi á eilífðina, Höfundur, Reykjavík, 1988.

[3] Jón Kalman, Stefánsson, La prima volta che il dolore mi salvò la vita, Iperborea, traduzione a cura di Silvia Cosimini, Milano, 2021.

[4] Jón Kalman, Stefánsson, Sumarljós og svo kemur nóttin, Bjartur, Reykjavík, 2005.

[5] Jón Kalman, Stefánsson, Luce d’estate ed è subito notte, Iperborea, traduzione a cura di Silvia Cosimini, Milano, 2013.

[6] https://chiassoletteraria.ch/autori/jon-kalman-stefansson/ (ultima consultazione: agosto 2024).

[7] Jón Kalman, Stefánsson, Guli Kafbáturinn, Benedikt bókaútgáfa, Reykjavík, 2022.

[8] Jón Kalman, Stefánsson, Il mio sottomarino giallo, Iperborea, traduzione a cura di Silvia Cosimini, Milano, 2024.

[9] Jón Kalman, Stefánsson, Fiskarnir hafa enga fætur, Bjartur, Reykjavík, 2013.

[10] Jón Kalman, Stefánsson, I pesci non hanno gambe, Iperborea, traduzione a cura di Silvia Cosimini, Milano, 2015.

[11] Jón Kalman, Stefánsson, Eitthvað á stærð við alheiminn, Bjartur, Reykjavík, 2015.

[12] Jón Kalman, Stefánsson, Grande come l’universo, Iperborea, traduzione a cura di Silvia Cosimini, Milano, 2016.

[13] Jón Kalman, Stefánsson, Saga Ástu, Benedikt bókaútgáfa, Reykjavík, 2018.

[14] Jón Kalman, Stefánsson, La storia di Ásta, Iperborea, traduzione a cura di Silvia Cosimini, Milano, 2018.

L'autore

Teresa Franceschi
Teresa Franceschi nasce nel 1999 a Massa Marittima (GR). Ha conseguito con il massimo dei voti la laurea magistrale in Italianistica presso l'Università di Bologna con una tesi dal titolo «Vuote le mani ma pieni gli occhi del ricordo di lei». Islanda e Sicilia: l’isola fra esilio e nóstos (relatore Prof. Alessandro Zironi), dove oggetto d'indagine è stata la letteratura islandese del Novecento. Il profondo interesse verso la letteratura nordica aveva già trovato espressione nella tesi di ricerca triennale, in cui si indagava il confronto fra le fiabe italiane di Italo Calvino e quelle norvegesi di Asbjørnsen e Moe. Le esperienze di studio nel nord dell'Europa, prima all'Universitetet i Oslo e poi all'Universiteit van Amsterdam, hanno contribuito alla sua formazione accademica e personale. Al momento lavora come redattrice presso Giunti Editore a Firenze.