Una stampa popolare ritrae sant’Anna, madre di Maria (e sposa di Gioacchino), che insegna alla piccola a leggere (e a scrivere). Un’immagine carica di tanta tenerezza familiare, di tanto affetto materno (e filiale), indipendentemente dal fatto che la bambina ritratta, in atteggiamento discente, è la futura madre di Gesù il Cristo. La Madonna, Vergine e Madre. La scena è tenera, e questo è quel che conta, al di là di ogni mistero, o di ogni disputa teologica. Analogamente, stampe popolari e quadri d’autore (come, per esempio, quello di Pinturicchio) ritraggono la Madonna che insegna a leggere (e a scrivere) a Gesù bambino. Scene di vita familiare, che sono impresse nella memoria di ciascuno di noi. La prima scuola era (e resta) quella domestica, dalle primissime lallazioni del bambino, alla conquista della parola, e, in taluni casi, anche alla scoperta del segno grafico, già in età pre-scolare, tra le mura domestiche.
È nel vangelo apocrifo di Giacomo, scritto, con molta probabilità intorno al 150 d.C., e noto come Protovangelo di Giacomo, che si leggono le vite dei genitori della Vergine Maria, Anna e Gioacchino. Tale vangelo, benché apocrifo, cioè non accolto in nessun canone biblico, ebbe una larga diffusione a livello popolare, proprio perché espandeva i racconti (piuttosto striminziti) sull’infanzia di Gesù, contenuti, rispettivamente, nei vangeli di Matteo e di Luca. Il Protovangelo di Giacomo è il testo cristiano più antico nel quale si legge della verginità di Maria (prima, durante e dopo la nascita di Gesù). Inoltre, la tradizione cristiana ha attinto proprio da questo vangelo apocrifo alcune informazioni diventate popolari (come, per esempio, il dettaglio della grotta della natività; la presenza del bue e dell’asinello presso la mangiatoia dove fu adagiato Gesù appena nato; oppure, altre notizie riguardanti la nascita, l’infanzia e l’educazione di Maria di Nazareth). Nel capitolo quinto di questo Protovangelo, infatti, si legge della nascita di Maria, avvenuta quando Anna e Gioacchino avevano già un’età piuttosto avanzata, e della educazione della loro bambina. La raffigurazione di sant’Anna intenta a insegnare alla giovane Maria la lettura è una scena tutta intima, di vita domestica, familiare, che colpisce e commuove. In alcune di queste raffigurazioni, sia di area italiana, che europea, è pure presente, sullo sfondo, il padre di Maria, san Gioacchino, che assiste alla lezione, e che osserva in silenzio.
Alcuni studiosi si son chiesti che libri leggesse la Madonna. E, soprattutto, come mai leggesse. Come mai, cioè, sua madre, sant’Anna, avesse pensato di insegnarle a leggere (e a scrivere), visto che nella tradizione giudaica le donne non potevano accostarsi al libro sacro (alla Torah). Nelle sinagoghe era vietato alle donne finanche entrarvi. Nel Protovangelo, si dà notizia della filatura come occupazione di Maria di Nazareth, non della lettura (o della scrittura), svolta tra i 12 e i 16 anni, cioè, fino al matrimonio con (l’anziano) Giuseppe, vedovo, vecchio, già padre di altri figli, e recalcitrante ad accettare di prendere in moglie quella ragazzina. Furono, dunque, i pittori italiani (ed europei), specie quelli di età umanistico-rinascimentale, a introdurre questa forzatura iconografica. In Italia, furono i domenicani e i francescani, entrambi ordini predicatori, che fecero ri-scoprire, nella devozione popolare, il tema dell’infanzia di Maria, e, di conseguenza, anche il ruolo (importante) di sant’Anna, che educa la ragazza, compresa l’educazione alla lettura (e alla scrittura). La fonte di tutta questa tradizione è da ricercare nella Leggenda aurea di Jacopo da Varagine, domenicano e arcivescovo di Genova (dal 1292 al 1298, anno della sua morte), proclamato beato dalla Chiesa cattolica. La sua legenda aurea, scritta in latino, ma diffusa in versioni volgarizzate, è una raccolta di vite di santi, che ebbe molta influenza, nei secoli successivi, sia sulla letteratura religiosa e devozionale, sia sulla produzione iconografica di molti artisti, che l’assunsero come fonte. Nella Madonna del magnificat di Botticelli, del 1481, la Vergine Maria, con Gesù bambino seduto sulle sue ginocchia, non solo sa leggere, sa pure scrivere (viene, infatti, raffigurata intenta a scrivere la frase «Magnificat anima mea Dominum», che è tratta dal Vangelo di Luca, e che Maria stessa pronuncia a santa Elisabetta, sua cugina e madre di Giovanni Battista). L’Annunciata di Antonello da Messina, che è del 1475, riproduce Maria di Nazareth nel momento in cui, intenta a leggere un libro, riceve, tramite un angelo (che però non è in scena), l’annunciazione del concepimento e della nascita di Gesù.
Nella Divina Commedia, Dante colloca sant’Anna nella candida rosa, di fronte a san Pietro, in contemplazione compiaciuta di sua figlia Maria, così come si legge ai versi 133-35 del canto XXXII del Paradiso:
Di contr’a Pietro vedi sedere Anna,
tanto contenta di mirar sua figlia,
che non move occhio per cantare osanna;
Gianfranco Ravasi, cardinale e raffinato teologo cattolico, scrittore e giornalista di successo, docente e studioso di esegesi dell’Antico Testamento, e di ebraico, in un libro del 2023, intitolato L’alfabeto di Dio (Edizioni San Paolo), nella sua ricerca, parte dal seguente interrogativo: «In che lingua parlava e scriveva Gesù?». La prima, immediata, risposta che viene in mente, dinanzi a tale interrogativo, potrebbe essere questa: «…nella lingua ricevuta da sua madre, Maria, che, a sua volta, l’aveva ricevuta da sant’Anna, sua madre». Ravasi, nel suo saggio, spiega che, verosimilmente, Gesù imparò l’ebraico nella scuola sinagogale di Nazareth. C’è un passo del Vangelo di Giovanni, nel quale si legge che Gesù, nel Tempio di Gerusalemme, aveva incontrato un gruppo di greci, e avesse discusso con loro. In che lingua? Come pure, sempre nel Vangelo di Giovanni, leggiamo del dialogo avuto da Gesù con il governatore Pilato, durante il processo. In che lingua? A quel tempo, in Palestina, erano in vigore quattro lingue: il greco, l’ebraico, l’aramaico e il latino. In realtà, stando a Ravasi, si comprende che la rosa delle lingue a disposizione di Gesù (e dei suoi contemporanei, e conterranei) fossero tre, e non quattro, perché il latino veniva utilizzato quasi esclusivamente da parte degli occupanti (da parte cioè dei romani). Quindi, le lingue a disposizione di Gesù dovevano essere queste tre: il greco, l’ebraico e l’aramaico. Il greco, a quel tempo, svolgeva le funzioni “internazionali” che oggi svolge l’inglese. Era, cioè, la lingua che tutti utilizzavano per farsi comprendere, e per i commerci, per la compravendita delle merci. Guarda caso, il greco fu la lingua che, qualche decennio dopo, fu utilizzata per il Nuovo Testamento, proprio per assicurargli, appunto, una diffusione universale. L’ebraico, via via, era stato sostituito dall’aramaico. L’ebraico era una lingua colta, utilizzata per la liturgia, e per le discussioni esegetiche e teologiche, da parte dei dotti. Gesù, quasi certamente, lo imparò nelle scuole sinagogali di Nazareth, sia per leggere le Scritture, sia per intervenire nelle controversie con scribi e farisei, così come riferiscono i Vangeli. Negli interventi popolari, invece, in quelli durante i quali egli si rivolgeva al grande pubblico, per strada, quando parlava alla gran massa dei contadini, dei pescatori, degli artigiani, ebbene, in quelle circostanze, Gesù ricorreva all’aramaico, che era la loro lingua quotidiana. Gesù era galileo, quindi, il suo aramaico doveva risentire di questa sua regionalità (nel lessico, nella fonetica, in tutto). Tanto è vero che quando Pietro viene riconosciuto e accusato come discepolo di Gesù, i presenti gli rimproverano proprio di parlare come il Maestro («Il tuo modo di parlare ti tradisce», in Mt 26, 73). Ravasi, inoltre, si chiede, da studioso, se Gesù, oltre a saper leggere, sapesse anche scrivere. Che sapesse leggere è testimoniato, inequivocabilmente, da un passo del Vangelo di Luca (4, 16-30), lì dove si legge che Gesù, di sabato, a Nazareth: «si alza a leggere il rotolo del profeta Isaia…». Sapeva anche scrivere? Non deve stupire se le due cose, saper leggere e saper scrivere, al tempo, non fossero necessariamente connesse. La formazione poteva anche fermarsi al solo livello della oralità. Infatti, c’è soltanto un passo, nei Vangeli canonici, sempre in Giovanni, nel quale, per una sola volta, si annota che Gesù, dinanzi agli accusatori dell’adultera, se ne stesse chinato a scrivere «in terra col dito» (8, 6). Fiumi di parole sono stati scritti, e tantissime ipotesi sono state avanzate, nel corso dei secoli, su quel dito di Gesù, che scriveva in terra. Cosa scriveva Gesù? Quali parole misteriose? In che lingua? Appuntava, forse, parole che poi, di lì a pochi istanti, avrebbe utilizzato nella risposta da dare agli accusatori dell’adultera? Realizzava una specie di pro-memoria? Oppure, annotava, forse, passi biblici? Molto probabilmente, Gesù, ostentando indifferenza nei confronti di tutta quella cagnara ipocrita, con il dito in terra, tracciava linee, o lettere a caso, per poi inchiodare, con le sue domande fulminati e senza scampo, gli accusatori: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei» (8, 7).
Le Scritture, Antico e Nuovo Testamento, così come le conosciamo noi, si poggiano, sostanzialmente, sull’ebraico e sul greco. Poi, giunsero le traduzioni. Ma come annota Ravasi stesso, citando Cervantes, tutte le traduzioni sono come «il rovescio di un arazzo», colori vivaci e netti sul fronte, colori smorti e fili cadenti sul retro. Ravasi, nel suo densissimo saggio, si muove tra fronte e retro, per rispondere ai quesiti di partenza, sulla lingua di Dio, isolando una sessantina di vocaboli ebraici, pregnanti, che certissimamente Gesù conosceva e utilizzava; e una cinquantina di parole greche, selezionate con lo stesso criterio. A questa «spina dorsale» linguistica, ebraica e greca, vanno aggiunte le parole in aramaico, una trentina, da lui utilizzate. Ecco, dunque, il vocabolario d’elezione di Gesù, il Cristo.
L'autore
- Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura». Ha insegnato «Linguistica italiana» al Corso di Laurea Magistrale in «Scienze della Mediazione Linguistica», e «Didattica della lingua italiana» per l’Università degli Studi di Foggia, e «Storia della lingua italiana» in Polonia (Università di Stettino). È autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani, con il quotidiano «Corriere del Mezzogiorno» («Corriere della sera»), e con diversi blog letterari. Realizza lezioni-spettacolo sui Classici della Letteratura italiana, ed è commentatore televisivo e radiofonico.
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