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Lo sguardo di uno spettatore: “Waiting for Godot” di Theodoros Terzopoulos

Queste mie riflessioni nascono dalla visione di Aspettando Godot messa in scena da Theodoros Terzopoulos, presso la “Casa delle Lettere e delle Arti” della Fondazione Onassis di Atene, e in attesa dell’Orestea, al teatro antico di Epidauro. Vogliono anche essere un omaggio all’amica Sophia Michopoulοu, la sensazionale Agave delle Baccanti della rappresentazione del 1986, da poco scomparsa.

Come è noto, Theodoros Terzopoulos è un regista “eterodosso”, fondatore di un metodo di formazione degli attori che viene insegnato nelle accademie teatrali e nei centri di studi classici di tutto il mondo.

Tutti abbiamo visto più volte l’opera teatrale Aspettando Godot, ma tutti grazie a Theodoros Terzopoulos abbiamo avuto la sensazione di vederla per la prima volta. Il regista ci ha regalato una performance di impeccabile effetto estetico e scenico, che ha messo in risalto gli elementi senza tempo di questa opera di alto spessore meditativo.

Dalla fondazione del Teatro “Attis” nel 1985 e la storica rappresentazione delle Baccanti di Euripide nel 1986, Terzopoulos ha ribaltato radicalmente il modo in cui fino ad allora era stata rappresentata la tragedia greca, introducendo elementi di estrema fisicità e ritualità. Ha diretto più di 2.100 rappresentazioni in tutto il mondo, portando in scena opere di Eschilo, Sofocle, Euripide, Brecht, Lorca, Müller, Beckett, Pasternak, Strindberg oltre ad autori più recenti.

«Niente è più reale del niente» diceva Samuel Beckett (1906-1989). Con la sua opera Aspettando Godot (1948) scaglia come un meteorite sulla scena questo “niente”. Perché in quest’opera del pensatore, poeta e scrittore irlandese, premio Nobel, non accade nulla di straordinario, in termini di azione e di trama. Due clochard, Vladimiro ed Estragone, vestiti di stracci, in piedi accanto a un albero, parlando del più e del meno, incontrano casualmente tre tipi altrettanto strani, mentre in realtà aspettano qualcun altro che non arriva mai. Chi è, alla fine, il Godot del titolo che non appare mai? Qualche salvatore o addirittura Dio stesso, come dimostra l’alterazione del nome in inglese (Godot, da God = Dio)? Beckett ha, tuttavia, ammesso che ciò che gli interessava non era tanto Godot quanto “l’attesa”.

Nella nota di regia di Theodoros Terzopoulos leggiamo:

«Il nostro spettacolo è ambientato tra le “rovine del mondo”, in un futuro più o meno vicino a noi, dove tutte le ferite del presente e del passato restano aperte. Altrettanto le aspettative… Su questa linea di demarcazione dell’esistenza umana, quali sono le condizioni minime possibili per un nuovo inizio della vita, di una vita degna di essere vissuta? In Aspettando Godot ci sono due possibili risposte ed è su queste che si è basato il nostro lavoro. La prima: lo sforzo di comunicare e convivere con l’Altro, colui che abbiamo di fronte, nonostante ogni ostacolo, anche quando sembra insormontabile! La seconda: lo sforzo di comunicare con l’Altro dentro di noi, con quella parte insondabile e oscura dei desideri e delle paure represse, dei sensi e degli istinti dimenticati, la regione dell’animalesco e del divino, dove nascono la follia e il sogno, il delirio e l’incubo. Questo è il viaggio che abbiamo cercato di fare: verso l’Altro dentro di noi e verso l’Altro fuori di noi, di fronte a noi, lontano da noi. Aspettando cosa? La Redenzione della vita dai vincoli della morte? L’incontro con l’Uomo? La fine di ogni umiliazione dell’uomo da parte dell’uomo? Il “Niente” o l’“Aspettando”, come dice ironicamente Beckett? Ma esiste un altro modo di immaginare l’uomo emancipato, senza abbattere i muri che separano il “dentro” dal “fuori”?».

Fin dal primo momento lo spettatore si rende conto che in questa performance teatrale ci sono cambiamenti fondamentali, una rilettura radicale dell’opera di Beckett, nuovi codici concettuali.

In Godot – come in altre sue opere – Beckett esprime la disperazione ontologica e l’impasse esistenziale provocate dalla Seconda Guerra Mondiale. Le sirene del coprifuoco, le esplosioni, il suono delle mitragliatrici e dei bombardamenti, sono le evidenti prove che la guerra è qualcosa che anche Terzopoulos ha voluto evidenziare. Inoltre, quando Lucky appare, sembra avere qualcosa della “follia” che di solito offusca le menti di coloro che tornano dalla guerra.

La regia crea un codice figurativo che integra il testo con una serie di scene e immagini che restano impresse nella mente.

L’albero di Beckett non è altro che la miniatura di un albero, un bonsai, allusione, forse alla disconnessione dell’uomo sia dalla Natura che dalla propria natura.

Terzopoulos ha racchiuso gli antieroi della pièce teatrale in una scatola nera, che ricorda l’opera “Quadrato Nero” del pittore russo Kazimir Malevič. Questa scatola è intersecata da una croce luminosa e si apre e si chiude come un puzzle tridimensionale. Il quadrato nero che si apre e si chiude per svelare i corpi degli attori. Una scenografia che potrebbe essere un monumento sepolcrale, la scatola nera di un aereo, sopravvissuta allo schianto, ciò che resta del nostro mondo, dopo un disastro totale.

La stretta fascia orizzontale che si apre in mezzo alla scatola, è un’immagine che rimanda al dipinto Il corpo di Cristo morto nella tomba di Hans Holbein il Giovane. I due antieroi, Vladimiro ed Estragone – magistralmente interpretati, rispettivamente, da Stefano Randisi ed Enzo Vetrano – sono distesi sulla schiena, con i corpi in direzioni opposte e le teste appoggiate l’una sull’altra. Sebbene intrappolati, il loro divertimento non sembra diminuito. Parlano, ridono forte, si toccano. In alcuni momenti sembrano unirsi, diventare un solo corpo.

Le colonne verticali di coltelli insanguinati e diari che cadono dall’alto – sono l’unico arrivo certo, contrapposto all’arrivo dubbio, ex machina, di Godot.

Le proposte sonore di Panagiotis Velianitis sono sensazionali. Inondano il palco con inni sacri, tanghi e melodie di nostalgia per ciò che è perduto e per ciò che si sta perdendo. Enzo Vetrano e Stefano Randisi interpretano con genuina comicità “popolare” il duo Vladimiro-Estragone, e trasmettono con tenera naturalezza le loro esistenze interdipendenti e complementari.  Nel complesso le interpretazioni sono ottime: Paolo Muzio, Rocco Ancarola, Giulio Germano Cervi riescono a trasmettere la profondità di questi personaggi unici. La traduzione italiana incornicia l’intera poesia scenica, e trasmette pienamente agli spettatori l’approccio registico di Theodoros Terzopoulos.

Uno spettacolo di intensa bellezza e poesia scenica. Infinite grazie, Theodoros  Terzopoulos, di questa straordinaria esperienza teatrale.

gkarvunaki@gmail.com

 

L'autore

Giorgia Karvunaki
Giorgia Karvunaki è nata in Grecia, a Creta, a Canea. Ha studiato in Italia Lingua e cultura italiana per stranieri, Scienze Politiche - Indirizzo Internazionale, Insegnamento dell'italiano come LS, Sceneggiatura e in Grecia Traduzione  - Traduttologia. È membro associato e National Convener per la Grecia dal 2007 della Commissione internazionale per la storia delle istituzioni rappresentative e parlamentari (ICHRPI), Rappresentante accreditata del Nosside, Premio Internazionale di Poesia (Unesco) e Membro dell'International Theatre Institute (ITI). Vive ad Atene dove lavora come insegnate, traduttrice, promotrice culturale e ricercatrice storica. Le sue traduzioni, le sue interviste e i suoi articoli, sono stati pubblicati in riviste cartacee ed elettroniche in Grecia, in Italia e in Romania. Le sue traduzioni di opere teatrali sono state messe in scena in Grecia e in Italia. Nel 2018 è stata premiata dall'Istituto Italiano di cultura di Atene con il ‘Premio Luigi Pirandello’.