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Il culto popolare di san Paolo attraverso evidenze documentali e iconografiche

Coppa “Contra veleno” in Terra di Malta
(Museo di Palazzo Poggi di Bologna)

Il culto “popolare” di san Paolo e il tarantismo

Nella Terra del rimorso[1], il tarantismo osservato sul campo risulta per Ernesto de Martino “sincretisticamente combinato con il culto dei santi cattolici, segnatamente con S. Paolo, nella cui cappella di Galatina convengono ogni 28 e 29 giugno i tarantati salentini”: le donne e gli uomini lì convenuti “si appellano al Santo protettore dei tarantati e chiedono la grazia di essere liberati dal morso velenoso (o rendono grazie al Santo per la conseguita guarigione nel corso della cura a domicilio)”[2]. L’inserimento del “patronato” del santo, realizzatosi solo nella seconda metà del Settecento su un rituale per secoli rimasto sostanzialmente autonomo dal cristianesimo, segnò secondo l’etnologo napoletano l’avvio di una mutazione sostanziale. Se nel tarantismo più antico le tarante, “datrici di follia”, offrivano “un piano cerimoniale per guarire, sia «danzandole», sia dialogando e patteggiando con esse durante il rito”[3], con l’assorbimento della “pratica catartica” nella sfera cultuale di san Paolo:

il rapporto cominciò a sbilanciarsi in modo che tutto il negativo prese a concentrarsi sulla taranta e tutto il positivo sul Santo e sulla sua Grazia, onde poi il dialogo con la taranta venne trasformandosi in dialogo col Santo[4].

I tarantolati che giungevano a Galatina, una volta entrati nella piccola cappella, in quello spazio angusto, senza l’ausilio “ordinatore” della musica[5], erano esposti all’insorgenza simultanea delle rispettive crisi, secondo modalità nel corso del tempo sempre più dissimili e scomposte. La prassi rituale, in assenza di specifici impedimenti, si concludeva con l’accesso al pozzo contiguo per berne l’acqua ritenuta miracolosa ma che produceva, come si legge nelle molteplici descrizioni trasmesse, soprattutto violente crisi di vomito, con tutte le sgradevoli conseguenze del caso.

Inoltre, per l’etnologo napoletano la “polarizzazione” sul culto di san Paolo condizionò gradualmente anche la dimensione domiciliare del rito:

la figura del Santo, appoggiata dalla Chiesa e dal suo clero, aveva polarizzato su di sé l’attenzione popolare stornandola dalla taranta e dal suo simbolismo e imprimendo all’aspetto visionario del tarantismo un crescente orientamento verso il rapporto col Santo, sino al punto di lasciar cadere del tutto l’esorcismo musicale a domicilio[6].

Il sincretismo con il culto di san Paolo è stato dunque l’inizio del declino del tarantismo storico salentino, il cui crinale venne osservato proprio dall’équipe demartiniana, che si imbatté a Nardò nel rito nella sua forma originaria, per quanto comunque fortemente condizionata dall’incombere del nume cattolico.

Non va però trascurato come simili dinamiche si siano realizzate esclusivamente in una specifica area del leccese, mentre in diversi altri luoghi il rituale ha rispettato prassi maggiormente conservative (senza organiche relazioni con il culto di san Paolo), fino a scomparire in anni molto vicini a noi, catalizzato dalla più vasta crisi delle forme culturali tradizionali, travolte dal “progresso” e dalla modernizzazione della società.

Tra i momenti più altamente simbolici del lento epilogo del tarantismo galatinese si inscrive senz’altro la chiusura del pozzo “miracoloso”, avvenuta per una singolare coincidenza proprio in coincidenza con l’esplorazione demartiniana, nel giugno del 1959, con un atto a firma di Biagio Chirenti, il primo – e unico – sindaco comunista nella storia della cittadina.

Le origini del culto popolare di san Paolo

Il sincretismo galatinese affonda le radici nell’agiografia del santo e nei “poteri” curativi dai morsi dei serpenti e altri esseri selvatici attribuiti ai suoi seguaci, il cui punto generativo è un passo degli Atti degli apostoli (28, 1-6). La nave che doveva condurre Saulo a Roma, in pieno mar Mediterraneo viene colpita da una tempesta e naufraga sull’isola di Malta. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di rami secchi e lo gettava sul fuoco, una vipera saltò fuori a causa del calore e lo morse a una mano, cosa che avrebbe dovuto causargli conseguenze drammatiche: ma invece egli scosse la serpe nel fuoco e non patì alcun male.

Da questo episodio si dipana – oltre ad una specifica linea iconografica, come diremo in seguito – un complesso “mitologema”[7] che si articola in una serie di credenze, diffuse specialmente in Sicilia e nell’Italia centro-meridionale ma con varianti disseminate nel resto della Penisola e ampiamente operanti fino a non molto tempo fa, a partire dalla concessione della protezione dagli esiti venefici dei morsi accordata a determinate comunità (oltre a Malta, fra le altre Solarino in Sicilia e nel leccese Galatina). Inoltre l’episodio di Malta si è affermato come matrice simbolica per quanti, in nome del santo e per sua grazia concessa, diventavano capaci di liberare dal veleno dei serpenti, tramite l’imposizione delle mani – oppure della saliva attraverso la lingua, con il “soffio” e altri rimedi affini – o con l’ausilio della terra della grotta di Rabat resa curativa dal contatto con l’Apostolo che vi soggiornò per i tre mesi di permanenza sull’isola. Tale prodigiosa facoltà sarebbe stata ereditata in particolare da un certo numero di consanguinei discendenti diretti di san Paolo (oppure nati nei giorni della sua conversione, il 25 gennaio), singolari figure di guaritori, indovini e incantatori, indicati con vari nomi: cirauli, ciarauli, ceravoli, ciaralli, ciarmari, ciarmatori e ceraldi, serpari, sanpaolari (termine che però sarebbe più recente degli altri). Secondo Giancarlo Baronti ci si trova di fronte all’esito “di arcaiche tradizione di gruppi clanici di serpari”, afferenti a un mondo precristiano, che “hanno continuato a esercitare i loro saperi e le loro pratiche antiofidiche riplasmandoli sotto la potenza del santo”[8]. Inoltre, tali figuri erano mal visti dalle autorità ufficiali, non solo a causa dei frequenti casi di ciarlataneria di cui venivano accusati, ma anche perché, dichiarando esplicitamente di ricevere direttamente dal santo “senza mediazione alcuna” i poteri antiofidici, “non si consideravano soggetti all’autorità della Chiesa e della medicina ufficiale e si mostravano particolarmente riottosi a ogni forma di controllo teso ad appurare l’ortodossia religiosa o scientifica delle loro pratiche”[9].

Le prime attestazioni della loro presenza si collocano in Sicilia (sec. XV), dove venivano comunemente chiamati cirauli o ciarauli. Dai relativi documenti si evince come in quel periodo fossero già diffusi in tutta la Penisola col nome di “uomini di san Paolo”, e operassero senza medicamenti utilizzando l’acqua e la terra[10]. Fin dalla nascita a costoro compare sotto la lingua uno speciale ingrossamento, tradizionalmente denominato signatura o suffìziu (a forma di scorpione o ragno), che li identifica chiaramente come “emissari designati dal santo per rinnovare – attraverso la loro azione terapeutica – le guarigioni da lui operate dopo l’episodio di Malta” [11]. Con ogni probabilità questi personaggi inizialmente provenivano proprio da Malta e dalla vicina Sicilia, come riportano le prime fonti che li descrivono. Sono sempre stati girovaghi: attraversavano le campagne portando le proprie competenze terapeutiche nei luoghi più sperduti, fornendo ai contadini “rimedi magici contro morsi di serpenti e punture di scorpioni, ma anche erbe medicinali, orazioni e medicamenti di tipo magico-religioso, sempre in qualche misura connessi alla figura di San Paolo”[12], e nelle loro pratiche ricorrevano a speciali scongiuri oppure agivano direttamente con la propria saliva sulle ferite da morso o puntura, sputandoci sopra per sanarle.

Altri centri di irradiazione si distribuiscono tra Calabria, Abruzzo e Puglia, e una zona di rilevante presenza, secondo le fonti, sembra essere proprio il Salento, mentre nel corso dei secoli successivi le stesse figure – che avevano trovato notevole fortuna presso le masse contadine – sembrano declinare verso quelle di ciarlatani di piazza, imbonitori delle folle con basse magie e misture miracolose. Gli uomini di san Paolo “autentici” (cioè per tradizione culturale convinti di esserlo), che praticavano le guarigioni con la loro performante presenza, sono stati dunque gradualmente sostituiti dal ciurmadore che, per suscitare meraviglia nelle fiere, esibiva serpenti (addomesticati), da cui si faceva mordere ripetutamente, costruendo uno spettacolo mirato alla vendita di una manciata di falsa terra di Malta e altri intrugli. Da un certo punto in avanti si sono uniti in compagnie e diversi autorevoli autori coevi hanno rivolto varie e furiose denunce dei comportamenti operati, anche in difesa di una tradizione remota che veniva ritenuta in qualche modo utile ed efficace. Le censure, a volte davvero feroci, venivano in particolare da ambienti colti, che tendevano a mettere questi personaggi in cattiva luce anche per “separarli dalla base popolare alle cui ansie, alle cui paure offrivano una risposta”[13].

A loro è dedicata anche una divertita poesia “carnevalesca” di Niccolò Machiavelli, il Canto de’ ciurmadori (1509).

Iconografie eccentriche

Di tale intricato complesso di tradizioni esiste anche una interessante serie di testimonianze iconografiche che, in riferimento al santo, differiscono dall’immagine “canonica” che lo mostra sulla via per Damasco al momento della conversione, folgorato e atterrito dal messaggio divino, oppure dotato degli attributi del libro e della spada: in casi eccezionali e in aree particolari infatti l’Apostolo è rappresentato in associazione agli “animali di san Paolo”, in particolare serpenti, ma anche scorpioni, ragni e non solo, a comporre una sorta di “bestiario de venenis[14].

L’atto del santo di scrollarsi il serpente dalla mano gettandolo nel fuoco, restando indifferente al veleno, è ripreso in un numero significativo di opere, diffuse in tutto il mondo cristiano. Una delle più antiche è parte di un pregevole dittico in avorio conservato presso il Museo Nazionale del Bargello di Firenze, databile tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, su cui è chiaramente rappresentato l’episodio di Malta.

Più specificamente, la tradizione del “dominio” paolino sugli animali velenosi, che si sviluppa – in particolare in ambito popolare – in riferimento ai serpenti e si estende successivamente ad altri animali (scorpioni, ragni eccetera), è ben rappresentata dall’amuleto italiano in piombo, risalente al XIII secolo, “che agisce contro il veleno e il mal di testa”, presentato nel 1953 da Alfons A. Barb nel suo prezioso saggio Il santo e i serpenti[15]. Lo studioso austriaco sottolinea come sull’amuleto, intorno al “tipo standard dell’apostolo Paolo con libro e spada”, siano rappresentati un serpente, uno scorpione e “un altro animale somigliante a un ragno”[16]. Di notevole richiamo anche alcune rappresentazioni in immagini a stampa, diffuse in molti contesti devozionali, in particolare in Italia meridionale.

Sintomatiche tracce sono conservate inoltre in luogo denso di significato della città di Palermo, all’interno delle carceri dell’Inquisizione spagnola, nello splendido Palazzo Chiaromonte (detto Steri, oggi sede del Rettorato) e in un edificio attiguo. Come è noto, le stanze di reclusione si presentano completamente ricoperte di graffiti lasciati dai prigionieri, fra cui spiccano alcune figure sacre, che costituiscono uno straordinario spaccato dell’immaginario dell’epoca. In un contesto tanto eccentrico, alcune rappresentazioni pittoriche si riferiscono proprio a san Paolo “dei serpenti”. Le avrebbe realizzate a metà del XVII secolo il sacerdote monrealese Francesco Baronio Manfredi (1593-1654), personaggio di una certa levatura nella Sicilia dell’epoca, che in realtà pare fosse stato perseguitato per questioni più politiche che di fede.

Raffigurazioni degli “uomini di san Paolo”

È giunto fino a noi anche un buon numero di raffigurazioni dei cosiddetti “uomini di san Paolo”, in particolare in veste di “ciarlatani”, spesso immortalati nel praticare la loro “arte”. Se ne rintracciano sia nel contesto di circolazione popolare, che in ambiti più colti e prestigiosi: si possono citare il dipinto su un cassone nuziale del 1417-18, anch’esso parte della collezione del museo fiorentino del Bargello, che ritrae un Ciarlatano che vende ‘terra o pietra di San Paolo’ davanti al celebre Battistero del capoluogo toscano[17] – probabilmente la prima immagine di questo genere di cui si ha notizia – e l’affresco con un Incantatore di serpenti, di pochi decenni successivo (1527-28), che si trova nella Camera dei Venti di Palazzo Te a Mantova, tratto da un precedente disegno di Giulio Romano conservato al Louvre, ma eseguito da un allievo del maestro. Sullo stendardo dietro all’Incantatore è chiaramente rappresentato san Paolo circondato da serpenti, nella consueta iconografia che riconduce ai poteri del santo su questi animali (e altri simili esseri velenosi), per cui il personaggio in questione sarebbe con ogni probabilità proprio uno dei nostri uomini di san Paolo.

Le proprietà curative della terra di Malta

Come già accennato, secondo un’antica credenza popolare, sostenuta da una consolidata tradizione colta, san Paolo nel suo soggiorno a Malta dimorò per tre mesi in una grotta di Rabat. Per tanto onore, quel luogo godette di grande fama, in Italia e nel resto d’Europa, e fu molto visitato, anche da uomini illustri, diventando meta obbligata di pellegrinaggio. La prestigiosa presenza aveva anche prodotto diversi effetti miracolosi: si riteneva che la terra prelevata dalla grotta fosse dotata di speciali virtù contro tutti i veleni, le febbri maligne eccetera, e per quanta ne venisse portata via dagli stessi pellegrini, le dimensioni della cavità comunque non mutassero. Questa Terra antidotaria veniva sciolta in un bicchiere d’acqua (o in vino e liquidi similari) e bevuta, oppure tenuta addosso come un amuleto. Le sue “qualità magiche” si ritrovano in volantini a stampa che cominciano a circolare già alla fine del XV secolo: uno fra i più antichi è stato rinvenuto nell’Archivio Capitolare di Camerino e fornisce indicazioni e posologia del “farmaco”[18], il cui autore è tale “maestro Giovan Pietro”, un discendente della stirpe di san Paolo che ne decanta i “poteri” usando il moderno e tecnologico mezzo della stampa. Tali “virtù” miracolose ebbero un grandissimo successo in tutta Europa, in particolare nel XVI secolo, e furono di fatto riconosciute ufficialmente dalla Chiesa; inoltre medici dell’epoca – anche molto noti e accreditati – la ritennero anch’essi efficace contro qualsivoglia veleno, non solo a scopo curativo ma anche preventivo. L’immensa fama di cui godette in tutta Europa presso ogni classe sociale comportò frequenti casi di contraffazione e sperticate polemiche. Per porvi rimedio, si diffuse l’usanza di accompagnarla ad un foglietto, rilasciato dal rettore della Grotta, che ne garantisse l’autenticità, ne illustrasse le virtù curative e mettesse in guardia dalle falsificazioni (il più antico di cui abbiamo notizia è del 1643).

Esempi di manufatti realizzati con terra di Malta fanno parte della collezione del celebre naturalista Ulisse Aldrovandi (1522-1605) allestita presso il Museo di Palazzo Poggi a Bologna. Nella teca delle “terre sigillate”, oltre a una testa di serpente, è esposta una straordinaria coppa “contra veleno”[19], che nella tradizione aveva la proprietà di “disinnescare” gli eventuali veleni disciolti nei liquidi che conteneva. Sull’ampio frammento rimasto si distinguono chiaramente il volto del santo inscritto all’interno di una croce maltese e le figure dei tre animali corrispondenti ad altrettanti veleni dai quali la coppa guariva: scorpione, serpente e ragno.

Anche nel Museo di Casa Buonarroti a Firenze, dove vissero Michelangelo e i suoi discendenti, sono esposte 35 medaglie fatte realizzare da Francesco Buonarroti (1574-1631) con la “terra sigillata” proveniente dalla Grotta di san Paolo a Rabat e dedicate ai santi e ai beati dell’Ordine dei Cavalieri di Malta. Fra le medaglie ne spicca una che ritrae gli animali su cui san Paolo esercitava il suo “dominio”: il serpente e lo scorpione. Restando in Toscana, alcuni oggetti in terra di Malta “con sigillo” sono presenti anche nella Spezieria di Santa Fina a San Gimignano.

Il sacchetto del sanpaolaro aquilano al MANU di Perugia

Presso il Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria (MANU), ospitato nel mirabile complesso architettonico di san Domenico a Perugia, compone la ricchissima collezione di antichità anche una notevole raccolta di amuleti e altri oggetti di interesse demo-antropologico che prende il nome da chi l’ha costituita, cioè Giuseppe Bellucci (1844-1921), paletnologo, antropologo e demologo, più volte rettore della locale Università. Nella Collezione Bellucci è presente anche un sacchetto che custodiva l’armamentario magico di un sanpaolaro aquilano, realizzato ritagliando e ricucendo due guanti femminili in pelle, chiuso da un anello di ottone raffigurante un serpente acciambellato. All’interno un involto di carta contenente argilla, un ciottolo a forma di testa triangolare di serpe, una lastrina di calcare a forma di ala, tre denti fossili di squalo, un frammento fossile di gasteropodo e altri oggetti per un totale di dodici[20].

Ulteriori tracce fra Abruzzo e Umbria (in particolare a Foligno)

Il reperto magico-religioso custodito al MANU testimonia una circolazione di pratiche e personaggi legati ai culti popolari pauliani di cui l’Italia centrale, in particolare l’area compresa tra la provincia dell’Aquila e l’Umbria, appare particolarmente ricca. L’aquilano è anche il territorio di Cocullo, paese sede di un celebre culto popolare – ancora oggi molto sentito e praticato – collegato ai serpenti che avvolgono la statua di san Domenico Abate, portata per il paese nel corso di una straordinaria processione che si svolge annualmente il primo maggio. Il santo dei serpari sarebbe nato nel 951 a Foligno, cittadina umbra che ricorre in molti documenti come uno dei centri operativi delle famiglie dei pauliani. Ed è proprio in una frazione situata sulla montagna folignate, Cancelli, che è attestata una delle più importanti e documentate tradizioni riferite al patrocinio paolino. Secondo una remota leggenda, gli abitanti di quel villaggio avrebbero ricevuto la facoltà di “sanare del mal di sciatica” per dono elargito da san Paolo[21] ai loro antenati, nel passaggio per Cancelli. Alla diffusione di tale credenza, che doveva risalire almeno al tardo Medioevo, contribuirono molti vescovi, cardinali e persino un papa, aumentando così la fama della famiglia di guaritori, che nel corso del secolo XVII e soprattutto del XVIII veniva chiamata non solo nel territorio di Foligno e in quelli vicini, ma anche in lontane contrade della penisola e dell’intero continente, per sanare degli infermi impossibilitati a recarsi in pellegrinaggio nel centro umbro.

Sempre in relazione a questi territori, si può citare un’ulteriore fonte relativa a figure in grado di “dominare” in vario modo i serpenti, presente in un celebre resoconto sulla medicina popolare regionale del medico perugino Zeno Zanetti, La medicina delle nostre donne, edito nel 1892, che riporta la descrizione di una sorta di rito di iniziazione magica[22].

Connessioni salentine

Come già riferito, è ormai ampiamente accertato che la cruciale convergenza del culto popolare paolino con il tarantismo nella cappella di Galatina si sia realizzata solo nel corso del Settecento, quando presso la chiesetta e il pozzo hanno cominciato a confluire i tarantati di tutta la provincia, per chiedere la grazia al santo. Di tutta questa vicenda offre una significativa sintesi proprio la pala d’altare della cappella di Galatina, cruciale riferimento simbolico, cultuale e iconografico, realizzata dal pittore ruffanese Saverio Lillo nel 1795, che raffigura un monumentale san Paolo con alle spalle l’episodio della vipera di Malta. Nell’indagine del 1959 de Martino e i suoi collaboratori poterono vedere un dipinto in cattive condizioni di conservazione e poco leggibile, ma un recente restauro l’ha restituito alla piena fruibilità: si tratta di una sorta di ex voto per una guarigione dal morso del ragno e a essere stato “miracolato” in questo caso è un uomo, rappresentato in basso a sinistra della tela, sorretto da due donne che probabilmente avevano un qualche ruolo nella gestione del processo di cura. Nell’angolo opposto, il consueto bestiario de venenis: il serpente lo scorpione e il ragno. Da notare che, come sempre in tali raffigurazioni, non c’è traccia di strumenti musicali.

La peculiare iconografia paolina de venenis è presente in diverse altre evidenze nella provincia di Lecce, anche più antiche della tela galatinese, in particolare concentrate nella zona del Capo di Leuca. Nella chiesetta rurale di Santa Maria di Vereto a Patù (Le) è di recente stato rinvenuto e restaurato un dipinto murario di fattura vernacolare ma stupefacente per contenuti, risalente probabilmente alla fine del XVI secolo. Intorno all’immagine di San Paolo con la consueta spada (a cui sono avvinghiati dei serpenti) si distinguono vari rettili (due intrecciati a caduceo), uno scorpione, forse un rospo e anche un ragnetto, un bestiario che si ritrova, con minori affollamento e varietà, nella pala d’altare della cappella di Galatina e, come già visto, in molte immagini di oggetti riferibili alla tradizione attestante i “poteri” del santo su questo universo animale ctonio e sui morsi e veleni degli esseri che ne facevano parte.

A pochi chilometri da Vereto, nella chiesa di Santa Marina dalla bella facciata barocca bipartita, posta ai margini del piccolo centro di Ruggiano (frazione di Salve), è di recente riemersa un’immagine del santo, qui in coppia con san Pietro, attorniato da serpentelli, che anche in questo caso si attorcigliano intorno alla spada. Ancora nella zona più estrema del Salento meridionale, poco fuori dall’abitato di Gagliano del Capo, su un’altra delle direttrici per il santuario mariano de finibus terrae, si trova la chiesa di san Francesco da Paola con l’annesso convento. Nell’edificio sacro è collocata una statua in pietra locale di buona fattura, della seconda metà del XVII secolo, che ritrae san Paolo sempre con il solito serpente avvinghiato intorno alla spada. Nella stessa località sono emerse ulteriori tracce di pratiche magico religiose dirette alla protezione dai serpenti e dal loro veleno: nella memoria orale del paese è infatti ben attestata la presenza di donne “benedette di san Paolo”, secondo la tradizione nate nei giorni riferibili alla “conversione sulla via di Damasco”, che praticavano le consuete arti. Ad arricchire ulteriormente il quadro, alcuni anni fa, durante lo svuotamento delle tombe situate nei sotterranei della chiesa matrice, è stata ritrovata una rara medaglietta devozionale, che dovrebbe risalire al XVIII secolo, con l’immagine di san Domenico di Cocullo, oggetto che evidentemente rimanda all’altro rifermento confessionale che – come già accennato – sovrintendeva a pratiche analoghe nelle lontane montagne degli Abruzzi, delineando una pista che sicuramente merita di essere approfondita.

santoro@anci.it

(sintesi del saggio presente in Tarantelle, santi e guaritori. Forme e figure di un culto popolare, a cura di Vincenzo Santoro, Itinerarti, Alessano, Lecce, 2024)

[1] Ernesto de Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano 1961 (volume più volte ripubblicato: da ultimo nel 2023 per Einaudi, a cura di Marcello Massenzio).

[2] Ernesto de Martino, Taranta pugliese e argia sarda, in Atti del Convegno di studi religiosi sardi (Cagliari, 24-26 maggio 1962), Cedam, Padova 1963, pp. 217-218.

[3] Ernesto de Martino, Tarantismo e coribantismo, “Studi e materiali di storia delle religioni”, XXXII, 2, 1961, pp. 187-203: 201.

[4] Ibidem.

[5] Occorre ricordare (anche agli organizzatori delle recenti e controverse “rievocazioni storiche” del rito) che, secondo le fonti a disposizione, a Galatina non è stata mai praticata nessuna strutturata terapia musicale, in particolare nella cappella e nelle vicinanze. Sulle dubbie forme di spettacolarizzazione della tradizione sperimentate nel Salento ho riflettuto in Rito e passione. Conversazioni intorno alla musica popolare salentina, ItinerArti, Alessano (Le) 2019, pp. 29-34.

[6] Ivi, p. 106.

[7] Il tema è stato esaminato magistralmente da Brizio Montinaro in San Paolo dei serpenti. Analisi di una tradizione, Sellerio, Palermo 1996, a cui si rimanda per approfondimenti.

[8] Giancarlo Baronti, Tra bambini e acque sporche. Immersioni nella collezione di amuleti di Giuseppe Bellucci, Morlacchi Editore, Perugia 2008, p. 246.

[9] Ibidem.

[10] Brizio Montinaro, San Paolo dei serpenti, cit, pp. 61-62.

[11] Sergio Todesco, Serpi, scorzoni, tarante. Mitologie di San Paolo da Malta al Salento (passando per la Sicilia), in “Dialoghi Mediterranei”, n. 25, maggio 2017, www.istitutoeuroarabo.it/DM/serpi-scorzoni-tarante-mitologie-di-san-paolo-da-malta-al-salento-passando-per-la-sicilia/.

[12] Ivi.

[13] Angelo Turchini, Morso, morbo, morte. La tarantola fra cultura medica e terapia popolare, Franco Angeli, Milano 1987, p. 156 (e più in generale sul tema: pp. 143-172).

[14] Giancarlo Baronti, Tra bambini e acque sporche, cit.,  p. 246.

[15] Ripubblicato in italiano in Roberto Nistri (a cura di), La danse du desir. Il resto del tarantismo, Scorpione Editore, Taranto 2004, p. 31, preceduto da una nota introduttiva di Gino L. Di Mitri, Il santo sciamano e l’etnologo taumaturgo, pp. 25-31.

[16] Ivi, p. 33.

[17] Andrea Corsini, Medici ciarlatani e ciarlatani medici, Nicola Zanichelli, Bologna 1922, fig. 3 (sp).

[18] Mario Sensi, Cerretani e ciarlatani nel secolo XV. Spigolature d’archivio, in Vita di pietà e vita civile di un altopiano fra Umbria e Marche – sec. XI-XVI, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1984, pp. 339-356: 350-351.

[19] Ne esiste anche un’altra conservata al British Museum: cfr. George Zammit-Maempel, Two contra-veleno cups made from Terra Sigillata Melitensis, The St. Luke`s Hospital Gazette, 10 (2), 1975, 85-95.

[20] Giancarlo Baronti, Tra bambini e acque sporche, cit., pp. 230-236.

[21] Cfr. Mario Sensi, Itinerari apostolici nelle leggende popolari umbre, in Vita di pietà e vita civile…, cit., pp. 279-292: 284. Lo studioso colloca le pratiche terapeutiche sviluppatesi a Cancelli all’interno di una serie di manifestazioni simili (anche se meno strutturate) attestate nell’area dell’Appennino umbro-marchigiano e legate alla presenza di “una categoria di operatori rituali, che indubbiamente vanno collegati a quelli che durante il Medioevo vantavano l’origine del proprio potere in S. Paolo” (p. 286).

[22] La citazione è tratta dalla recente (2020) ristampa del trattato per le Edizioni Il Formichiere di Foligno, pp. 215-216.

L'autore

Santoro Vincenzo
Santoro Vincenzo
Vincenzo Santoro è nato ad Alessano (Le) il primo febbraio 1970. Nel corso dell’esperienza universitaria a Pisa, partecipa al movimento studentesco “La Pantera” e comincia un percorso di lavoro e approfondimento sui temi della rappresentanza studentesca e del diritto allo studio, che in seguito svilupperà collaborando alla fondazione del sindacato studentesco Unione degli Universitari (in cui farà parte del primo esecutivo nazionale, dal 1994 al 1997) e poi come collaboratore del Ministero dell’Università (dal 1998 al 2001). Eletto nel consiglio comunale del suo comune (Alessano, Lecce), svolgerà l’incarico di consigliere delegato alla cultura dal 1997 al 2000.Parallelamente, svilupperà un’attenzione ai temi delle culture e delle musiche tradizionali (con particolare riferimento alla sua terra di origine, il Salento), contribuendo a numerosi progetti culturali e realizzando diverse pubblicazioni, fra cui Il Ritmo meridiano. La pizzica e le identità danzanti del Salento (2002) e Il Salento Levantino. Memoria e racconto del tabacco a Tricase e in Terra d’Otranto ( 2005), insieme a Sergio Torsello, Il ritorno della taranta. Storia della rinascita della musica popolare salentina (2009), Odino nelle terre del rimorso. Eugenio Barba e l’Odin Teatret in Sardegna e Salento, 1973-1975 (2017), Rito e passione. Conversazioni intorno alla musica popolare salentina (2019), Il ballo della pizzica-pizzica, con Franca Tarantino, 2019).Altra pubblicazione importante da lui curata è Manifesto di Pace (2002) raccolta degli articoli scritti per il quotidiano il manifesto dal 1990 al 1992 da Don Tonino Bello, vescovo di Molfetta e esponente importante del movimento per la pace.Dal 2004 lavora presso l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, dove attualmente è responsabile del Dipartimento Cultura e Turismo.Nel 2015, con Antonella Agnoli, ha curato la pubblicazione di Un viaggio fra le biblioteche italiane, volume che riassume i risultati di una ricerca condotta in quaranta biblioteche “di base” distribuite su cinque province e una regione, per conto del Centro per il libro e la lettura del Mibact.Di recente (2021) per l'editore Itinerarti ha pubblicato il volume Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale e curato la raccolta di saggi Percorsi del tarantismo mediterraneo.