La recente scomparsa dello scrittore albanese Ismail Kadare (1936-2024), avvenuta a Tirana il primo luglio scorso, ha lasciato orfana l’Europa intera, poiché con lui è scomparso uno degli ultimi intellettuali che hanno vissuto direttamente l’esperienza della repressione comunista, e che hanno saputo alzare la propria voce, anche a costo dell’esilio, contro ogni forma di totalitarismo. Nel 1990, infatti, Ismail Kadare andò in esilio a Parigi. Molte sue opere, ritenute ostili, da parte del governo comunista albanese, furono messe al bando, e furono vietate. Con la Puglia, Kadare mantenne sempre rapporti intensi con intellettuali, artisti e scrittori. Da ricordare che, in uno dei suoi romanzi più fascinosi e di successo, I tamburi della pioggia, del 1970, Kadare raccontò le gesta di Giorgio Castriota Scanderbeg, l’eroe nazionale albanese, con il quale la storia di molte comunità pugliesi (ma anche lucane e calabresi), piccole e grandi, è intrecciata, sin dal XV secolo.
In questo romanzo Kadare, con uno stile inconfondibile, narra dell’assedio turco contro la cittadella albanese di Kruja, che impegnò quella popolazione in una delle più lunghe e sanguinose guerre di resistenza della storia. Uno sterminato esercito, infatti, fu lanciato all’assalto di quella città, mentre, sui monti circostanti, si aggirava, inafferrabile e invisibile, Scanderbeg, con i suoi uomini, pronti al sabotaggio, e a incursioni lampo. Giorgio Castriota Scanderbeg non compare mai direttamente nelle pagine del romanzo di Kadare. Di lui, il lettore sente raccontare le gesta, le imprese, gli spostamenti. Di lui, il lettore sa che è lì, su quei monti, da qualche parte, ne sente quasi i passi e l’odore, ma non lo vede mai. Il lettore sa che egli è l’artefice, la mente e il braccio, di quella incredibile resistenza, contro l’invasore turco, ma non lo vede mai direttamente in azione. Non lo ascolta mai pronunciare una sola parola. Giorgio è così presente, proprio perché è totalmente assente. Può sembrare paradossale, ma Kadare ha saputo innalzare un monumento (letterario e storico) a Scanderbeg, proprio non facendolo mai agire direttamente nelle pagine del suo romanzo, non facendolo mai comparire. La retorica dell’assenza, verrebbe da scrivere, al pari della retorica del silenzio. I turchi, dal canto loro, sono obbligati a espugnare quelle mura prima che rimbombino, appunto, «i tamburi della pioggia», prima cioè che cambi il tempo, e che, con esso, svanisca ogni loro speranza di vittoria. Un libro epico.
Tra Puglia e Albania, i rapporti e gli scambi sono sempre stati straordinari e costanti, segnati da libri, scrittori, e storie (anche storie di sangue, di congiure, e di vendette). Intrecci di vita, dunque, di relazioni economiche, belliche, politiche, artistiche, e altro ancora. Una eco di questa fitta rete tra i due popoli, la si trova nel romanzo che nel 1990 pubblicò Raffaele Nigro, scrittore apulo-lucano, La baronessa dell’Olivento, la cui trama fa perno proprio sulle relazioni con l’Albania, intorno alla figura, forte ma anche qui impalpabile, di Giorgio Castriota Scanderbeg. Il romanzo di Nigro racconta le vicende di due fratelli albanesi (ma di madre napoletana), Vlaika e Stanislao Brentano, che, intorno alla metà del XV secolo, inseguendo un sogno utopico, giunsero nel Regno di Napoli, al servizio di Castriota, con una missione da compiere, proprio in Puglia, e cioè salvare una macchina speciale, il torchio da stampa a carattere mobili, recentissima invenzione tecnologica tedesca. Il XV secolo, per il Meridione d’Italia, fu il secolo delle corti, dei baroni riottosi, delle congiure, ma anche delle accademie letterarie, dei principi mecenati, protettori delle arti e delle scienze, come i conti di Conversano, nella Terra di Bari, i potentissimi conti Acquaviva – Aragona. Nel castello lucano di Lagopesole, Stanislao diede vita a una stamperia, utilizzando uno di quei nuovi torchietti a caratteri mobili, realizzando, nel 1468, un’edizione in volgare di Quinto Orazio Flacco. Nel romanzo di Nigro, si legge di una discussione tra due esponenti dell’Accademia Pontaniana, pro e contro il torchietto da stampa, che ricorda, per le argomentazioni addotte, e per la veemenza degli interventi, analoghe odierne discussioni pro e contro il digitale, pro e contro l’AI, pro e contro il metaverso. I due interlocutori, nel romanzo, sono, rispettivamente, Giovanni Pontano e Antonio Petrucci, due intellettuali di primissimo piano della corte napoletana di quel tempo, l’uno, Pontano, contrario al torchio da stampa, l’altro, invece, favorevole: “Pontano spiegò le ragioni della sua visita […]: «Tornai da Venezia, non è una settimana […]. Ho visto quella macchina misteriosa che cercammo per molto. Dicono che sia frutto di un tedesco, un ambulante, uno di questi inventori e incisori che usano, un po’ come noi, interrogare l’aria, scontento del presente e vago di un futuro diverso. Però un ingegno pratico, un uomo di braccio. Quest’uomo, ha costruito un torchio azionato da una ruota e con una serie di caratteri capaci di risolvere in un giorno il lavoro di mille copisti. Ho visto i risultati, una Bucolica. Mi ha dato persino fastidio tenere in mano questo libro frutto di meccanica. Mi dicevo: queste stupide macchine che vogliono sostituire le forme del bello stile! Era proprio la Bucolica, ma la sentivo un artifizio. C’era nella libreria […] una pila di copie di questo libro. Tutte impresse allo stesso modo. Identiche tra loro, come uno stuolo di mosche, fastidiosamente uguali. Disponibili a un prezzo da poco. E pensavo con timore che, potendo chiunque acquistare la bella e gloriosa Bucolica di Virgilio, certo sarebbe caduta nelle mani di un vaccaro. Quest’idea mi dava vomito». Le parole di Pontano accesero il dialogo. Petrucci si affannò a trovare l’utile della macchina […]”.
Nel 2007, Kadare pubblicò un saggio molto singolare, Dante, l’inevitabile, con il quale, spiazzando i suoi lettori, rifletteva su una costante della storia del popolo albanese, e cioè sul suo particolare rapporto, scelto o imposto che fosse stato, con Dante Alighieri, il poeta fiorentino, che, a seconda dell’epoca analizzata, aveva sempre rappresentato per il popolo albanese o il rifugio di bellezza (e di poesia), dinanzi all’orrore di turno delle occupazioni straniere; ovvero, una potente metafora dell’inferno nel quale, di momento in momento, quel popolo si trovasse a vivere (le temibilissime carceri comuniste, figura delle malebolge e dei cerchi danteschi). Un Dante, dunque, «inevitabile». Il regime fascista, e Mussolini in modo particolare, durante gli anni dell’occupazione italiana dell’Albania, impose Dante come poeta ufficiale, come poeta di regime. Tempo prima, alla caduta dell’impero Ottomano, proprio Dante Alighieri e la sua Divina Commedia erano stati visti dagli albanesi (e non solo dagli studiosi e dagli specialisti) come tassello e monito per elaborare e conservare una memoria collettiva di un popolo in cammino verso la luce del Paradiso, verso la liberazione: “Il nostro pianeta è troppo piccolo per permettersi il lusso di ignorare Dante Alighieri. Sfuggire a Dante è impossibile come sfuggire alla propria coscienza. Nessun’altra creazione letteraria colloca a tal punto la coscienza umana, o meglio i suoi tormenti, nel proprio epicentro […]. Evocando la geografia dantesca, i suoi ammiratori sottolineano che gli strani paesaggi attraversati “non sono luoghi, ma stati d’animo”. In realtà questa intuizione ha origine da una famosa lettera di Dante in cui egli stesso usa la parola “stato”. Le tre parti del suo poema – Inferno, Purgatorio e Paradiso – non sono altro che “i nostri tre stati”, quelli che noi tutti viviamo simultaneamente, sempre e ovunque”.
Il potere Ottomano vietò la lettura e la diffusione dell’opera di Dante Alighieri, in quanto cristiano, e in quanto poeta. Il 7 aprile del 1939, l’Italia invase l’Albania, e il re d’Italia, Vittorio Emanuele III, ne divenne re (oltre che imperatore d’Etiopia). In forza di questa “alleanza”, e di questa comune monarchia, l’Italia portava “in dote” anche il suo poeta ufficiale: “E così Dante Alighieri, il poeta celeste, profetico, nazionale, unificatore, ufficiale d’Italia, diventò anche il primo poeta ufficiale degli albanesi […]. Ben presto si contarono decine di traduzioni, edizioni e riedizioni, ma anche circoli, gruppi di studio, società, imprese, istituti di beneficenza, concorsi e tavole rotonde, serate di gala, piazze e strade intitolate a Dante Alighieri […]. “L’Albania è nel mio cuore”, diceva Mussolini, siamo un’unica famiglia ormai, con un unico re e un unico poeta…”.
Dante, dunque, entrò in Albania sia a livello popolare (l’intitolazione di strade e piazze servì, infatti, proprio a questo, a plasmare l’immaginario popolare), sia stimolando studi scientifici e ricerche specialistiche. Tra gli studiosi albanesi più seri, che Kadare cita, ci fu anche chi analizzò le tante analogie riscontrabili, tra il poema dantesco e le antiche ballate d’età medievale albanesi, con analogie di tematiche e di situazioni: l’attraversamento dell’aldilà, il doppio viaggio, tra la terra e l’aldilà, compiuto o da vivi, che, di volta in volta, ne ottengono il privilegio, o da parte di morti, che, al contrario, ottengono il permesso di tornare sulla terra, per un periodo limitato, in modo da completare una missione, una promessa, lasciata a metà. Molto suggestive, nel saggio, le pagine nelle quali Kadare fa notare la sorprendete analogia tra i paesaggi dell’Inferno e del Purgatorio danteschi, con le terre (desolate) della odierna emigrazione: “I frammenti di racconti, gli sfoghi, gli accessi di collera, le notizie politiche dai due confini, la sete d’informazione, le ultime volontà, tutto sembra provenire da un’unica materia e da un unico popolo. E la somiglianza è tale che il lettore di oggi farebbe inizialmente fatica a distinguere, se venissero mescolati, il tempo di Dante dalle cronache o dai reportage dei nostri tempi. Cosa succede a Roma, c’è la guerra o la pace? Partimmo da Durazzo e nel canale di Otranto annegammo. Ricorditi di me, che son la Pia. Siena mi fé, disfecemi Maremma […]. Cosa succede a Tirana, chi ha vinto le elezioni: i Guelfi o i Ghibellini?”
Alla caduta dell’Impero italiano, in Albania si verificò un paradosso, e cioè, alla rimozione immediata delle insegne della «Società Dante Alighieri», e al divieto di utilizzo della lingua italiana, sostituita dal russo, non seguì pure la fine della fortuna del poeta Dante Alighieri e della sua opera, anzi: “In tutta quella bolgia, Dante era l’unico a rimanere in piedi, continuando a essere tradotto”.
Per aggiungere considerazioni metastoriche, come la seguente: “C’è un tempo per Dante, come c’è un momento per il pomeriggio, per l’alba o per il crepuscolo. Un momento per avvicinarsi a lui, verso cui convergono popoli, regimi, epoche, regni e repubbliche, razze, lingue e nazioni. Le traversie della nostra terra possono ritardarlo, ma in nessun caso cancellarlo”.
Per davvero curiose, inoltre, le pagine nelle quali Kadare riflette sul particolare rapporto, ch’egli definisce «edipico», tra Dante e la sua lingua, il volgare, scrivendo della lingua latina come della «moglie ufficiale», abbandonata da Dante, per seguire un amore di strada (Beatrice, cioè, appunto, il volgare): “È difficile trovare un altro poeta che abbia intrecciato un rapporto simile con la propria lingua. Definirlo edipico – poiché Dante fu al tempo stesso padre e figlio di questa lingua – non sarebbe sufficiente. Il rapporto fu più complesso. Probabilmente più embrionale e segreto. A volte sembra che il suo idillio con la lingua italiana si unisca all’altro, misterioso, con Beatrice. Il loro scambio rimane certamente velato, in parte inafferrabile, come tutti i grandi enigmi. Può darsi che Dante abbia fatto con la lingua italiana ciò che non poté mai compiere con Beatrice. Come una giovincella che, al contatto con l’amore e la sensualità, si tramuta in donna, così la lingua italiana, incinta fin dal primo amplesso con il poeta, ha dato alla luce La Divina Commedia, la sua unica creatura, ineguagliabile da quasi settecentocinquant’anni. L’analogia con l’universo amoroso è ancora più impressionante se si pensa al latino, la rispettabile moglie ufficiale piantata dal poeta in seguito al suo amoretto con una ragazza di strada”.
Il saggio di Kadare propone al Lettore due conclusioni, rispettivamente, una per Beatrice, l’altra per Dante. Per Beatrice, Kadare scrive un ipotetico dialogo tra una giovane prostituta albanese, di nome Beatrice, e il suo occasionale cliente italiano: “Come ti chiami? Beatrice… Beatrice? Anche da voi esiste questo nome o è un soprannome che ti sei scelta per il lavoro? No, Beatrice è il mio vero nome. In Albania è comune… Ma lo sai cosa evoca per noi italiani? Certo che lo so: la Beatrice di Dante. Ah, lo sapevi… Certo che lo so. L’ho imparato a scuola…”.
Precisando, subito dopo, che la diffusione del nome Beatrice, in Albania, si infittì negli anni Trenta, nel periodo dell’unione (o invasione) dell’Albania da parte dell’Italia fascista, come conseguenza indiretta dell’incontro tra l’Albania e Dante Alighieri: “È molto difficile ritrovare i loro nomi nei registri battesimali delle povere chiese albanesi, in gran parte rase al suolo. Quei nomi sono invece numerosi nei registri anagrafici […]. Ma il loro censimento sarebbe incompleto se non le cercassimo anche negli archivi della polizia dei due paesi, principalmente sulle liste delle giovani annegate cercando di attraversare il mare per andare a prostituirsi in Italia”.
L’epilogo su Dante è molto più largo, rispetto a quello su Beatrice, e parte dal 1939, dall’invasione italiana, per universalizzarsi: “Dopo l’invasione italiana del 1939, che portò Dante in dote all’Albania e si presentò come una campagna destinata a liberarla dalla tirannia di re Zog, nel 1943 il paese fu occupato dai tedeschi, che a loro volta pensavano di liberarlo dal dominio italiano con la loro avanzata. Quindi, nel 1944, il paese cadde sotto il giogo dei comunisti, che naturalmente si definirono anch’essi liberatori. Dopo questo susseguirsi di liberazioni, l’Albania ne avrebbe vissuta ancora una, apparentemente l’ultima, nel 1991, questa volta come piovuta dal cielo. Tutte le epoche inseguono qualcosa che sembrano non possedere (o che effettivamente non possiedono), una sorta di ipertempo, di visione suprema, in altre parole un’anima. Tra coloro che più di altri incarnano l’oggetto di questa aspirazione, ai quali ci capita di affidare le nostre speranze, c’è naturalmente Dante Alighieri. Da lui ci aspettiamo qualcosa. Un’assoluzione, una riparazione, oppure – più realisticamente – di poter soffrire davanti allo specchio che ci porge […]. Raccontando il suo viaggio solitario nel mondo dei morti, [Dante] rivelava ai suoi confratelli poeti – che fossero russi, albanesi, baltici o cinesi – che la condizione naturale di un grande scrittore consiste per l’appunto nel viaggiare vivo tra i morti. Davanti a lui giacciono inanimati regni, assassini, tiranni, risaie, tornado e perfino l’aria che li genera. Ovunque incombono mostri e pericoli, ma lo scrittore ha un vantaggio: contrariamente a loro, è vivo. Per questo l’invito di Virgilio a non temere le tempeste morte dell’inferno rappresenta la formula salvifica di ogni scrittore”.
Dante, l’inevitabile di Ismail Kadare contiene anche altre piste di lettura, rispetto a quelle che ho tracciato, e che, qui, per ragioni di spazio, tralascio, riservandomi di tornarci nei prossimi mesi.
L'autore
- Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura». Ha insegnato «Linguistica italiana» al Corso di Laurea Magistrale in «Scienze della Mediazione Linguistica», e «Didattica della lingua italiana» per l’Università degli Studi di Foggia, e «Storia della lingua italiana» in Polonia (Università di Stettino). È autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani, con il quotidiano «Corriere del Mezzogiorno» («Corriere della sera»), e con diversi blog letterari. Realizza lezioni-spettacolo sui Classici della Letteratura italiana, ed è commentatore televisivo e radiofonico.
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