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Roma, il romanesco, lo spazio linguistico romano e l’idea di luogo. A margine di una polemica linguistica del Piotta

Ha fatto rumore, negli ultimi giorni, l’esclusione dell’album ’Na notte infame del Piotta (Tommaso Zanello) dalla cinquina dei finalisti del premio Tenco per la categoria “Migliore album in dialetto o lingua minoritaria parlata in Italia”. Le motivazioni di tale esclusione sono state spiegate dagli organizzatori del Premio: «si ritiene che l’album in questione non abbia i requisiti linguistici per competere nella sezione 2 (migliore album in dialetto o lingua minoritaria parlata in Italia), essendo la componente dialettale nettamente inferiore al 50% del totale».

La risposta ha ricevuto svariate critiche, e a essa ha replicato il Piotta medesimo, con un intervento che vale la pena richiamare estesamente: «In pratica, secondo voi, il disco ’Na Notte Infame non sarebbe romano neppure al 50%, pur avendo titolo, storie, citazioni, luoghi, quartieri, modi di dire, cadenza, calata, slang, rap, ospiti legati alla nostra città. Quella Roma che ha visto me e mio fratello Fabio nascere e formarci, dal Nomentano (in italiano Nomentano) a Torpignattara (in italiano Torpignattara), e che voi pesate un tanto al chilo, anzi a percentuale (che poi come si fa? C’è una congrega di linguisti, o un’intelligenza artificiale che pesa le parole?). Sono d’accordo con me i tanti giornalisti e critici che mi hanno votato, evidentemente non hanno colto neanche loro questa romanità al 49%, e con loro le tante realtà associative e culturali capitoline che mi stanno testimoniando affetto e vicinanza, scrivendo quanto questo progetto rappresenti l’anima dell’Urbe (in Italiano Urbe) nel 2024, con 4 milioni di persone di ogni dove e un dialetto spurio in continuo mutamento, anche se a qualcuno piace vederla ancora come quella dei tempi di Rugantino».

Sul tema è intervenuto anche Paolo D’Achille, presidente dell’Accademia della Crusca Paolo D’Achille, giustamente richiamando la specificità linguistica di Roma e del dialetto romanesco e la difficoltà di discernere i due piani del continuum linguistico in area romana.

La questione specifica mi pare difficilmente risolvibile e, di là dal caso specifico del premio Tenco, anche scarsamente interessante. Leggendo i testi delle canzoni, la componente fonologica, morfologica e lessicale romanesca (sia pur intesa nel senso più ampio possibile) non sembra particolarmente ampia e, soprattutto, essa sembra concentrata in alcune porzioni di alcune canzoni, quasi che si voglia in qualche modo marcare uno specifico uso linguistico; nel cantato emergono forme foneticamente più marcate in senso romano (per esempio il raddoppiamento sistematico della g o della b in posizione intervocalica), come d’altronde accade comunemente nel passaggio dal romanesco scritto al romanesco orale per esempio nei copioni cinematografici. Il tasso più alto di romaneschità si ravvisa senza dubbio sul piano prosodico: è un dato comune, negli ultimi anni, anche ad altri cantanti di area romana, come Achille Lauro, ma presente anche in un napoletano come Gigi D’Alessio. Va detto, però, che i fenomeni romaneschi che emergono da ’Na notte infame sono relativamente pochi: mancano per esempio quasi del tutto esiti come er o nun, che erano sistematici nel Supercafone; non ci sono forme apocopate di infinito o assimilazioni di nd in nn del tipo quanno, monno; si usano forme completamente estranee al patrimonio romanesco, come adesso («adesso si va», Professore) al posto di mo (che non mi pare compaia mai), o essere che alterna con stare, che sarebbe invece l’esito atteso.

Abbandonando però il tema della dialettometria, mi pare invece interessante la risposta del Piotta, che costringe a interrogarsi su due questioni fondamentali: il tema della lingua di Roma oggi (evito appositamente di parlare di dialetto) e, in seconda battuta, la questione del rapporto identitario con la città.

Su un fronte dell’autopercezione linguistica del dialetto, il progressivo stingersi della frontiera tra romanesco e italiano (ammesso e non concesso che una netta frontiera tra queste varietà esista nel romanesco contemporaneo) ha portato all’emersione di una realtà linguistica nuova e altra rispetto a quella primonovecentesca e, ancor di più, a quella ottocentesca e belliana, in cui al romanesco tradizionale si è aggiunto il romanesco dei nuovi romani: prima di coloro che arrivavano a Roma dalle altre regioni d’Italia, poi di coloro che arrivavano da altri Paesi, nuovi italiani che parlano spesso un robusto romanesco. Il parla italiano del Professore del Piotta è senz’altro un “parla italiano de Roma”: «E il niño del barrio parla italiano / Al bar del Cinese, parla italiano / Il Bangla di Marra parla italiano / Ogni bambino qui parla italiano / La niña de rua parla italiano / La tipa che è afro parla italiano / Puta do Brasil, parla italiano».

Proprio il continuo contatto linguistico, con la progressiva evoluzione da forme più strettamente dialettali a forme in qualche modo più annacquate, ma che rappresentano in realtà semplicemente forme di nuova dialettalità metropolitana, ha portato spesso negli autori dialettali a una reazione arcaizzante e alla teorizzazione di improbabili ricette di “romanesco doc” (come fu definito un venticinquennio fa dall’autore di una grammatica romanesca, Peppe Renzi). Ciò ha portato anche a spiccate e continue escursioni di registro nei parlanti romani, che vanno da un polo completamente italianizzato e digradano via via, attraverso l’intero continuum linguistico, fino ai tratti più marcatamente dialettali o, talvolta, addirittura iperdialettali. Si tratta, insomma, di un continuum linguistico dai confini sociali e comunicativi non sempre individuabili, anzi spesso soggetti a variabilità non solo molto ampie ma persino interindividuali, scatenate spesso proprio da quella «demotivazione normativa» (così la ha definita Pietro Trifone) nata dalla prossimità tra l’italiano de Roma e l’italiano senza aggettivi. Lo si vede bene da una riflessione metalinguistica di uno dei principali autori in una varietà romana, il fumettista Zerocalcare, nella serie Netflix Questo mondo non mi renderà cattivo:

 Zero: «Ma secondo te io parlo […] romano che ’n se capisce… Boh, strano!» / A: «Ma noo, ma al limite c’hai ’m po’ de ’nflessione, ma potresti esse benissimo uno de Trieste che guarda tanto i Cesaroni!» / Z: «Perché a me me sembra che parlo normale, però me sta a venì ’r dubbio che magari…» / A: «Fidate, parli mejo der navigatore de Google».

È indubbio che vi sia un ampliamento degli spazi occupati del romanesco all’interno del panorama linguistico italiano (anche grazie al frutto della rinascita di una dialettalità metropolitana, ottimamente descritta oggi nel Vocabolario del romanesco contemporaneo, realizzato da Paolo D’Achille e Claudio Giovanardi). Il romanesco ha insomma in buona misura perso i suoi connotati geografici diventando una sorta di metadialetto dell’italiano, dispiegandosi – dunque – più sul piano inferiore della diafasia (o, per meglio dire, sul piano dell’espressività) che su quello della diatopia: così può benissimo capitare che una rapper milanese come Myss Keta intitoli un brano Mortacci tua, che è uno dei sintagmi bandiera di questo romanesco panitaliano, al pari di damose da fà o volemose bene o di lessemi come ammazza, anvedi, rosicà(re)/rosicone, ecc.

Questa espansione, questa creazione di una sorta di “romanesco de tutti” ha generato tuttavia anche un annacquamento del romanesco, ha creato un vero e proprio dialetto liquido in termini baumaniani, che ha reso il confine linguistico, che era anche un confine identitario più permeabile che diffuso (come lo definivano negli anni Novanta Tullio De Mauro e Luca Lorenzetti). Si tratta, in fondo, di una ennesima ripetizione di quanto accaduto a Roma, città che storicamente ha sempre accolto e integrato tutti coloro che vi sono arrivati. La lingua di Roma cambiò dopo il 1527, dopo lo sfacelo del Sacco: da simile al napoletano, essa divenne prossima al toscano, generando in alcuni strati sociali, legati alla nobiltà, una reazione identitaria. Si “disfece” (come scrisse Bruno Migliorini) dopo il 1870, con l’arrivo dei buzzurri piemontesi, generando anche in quel caso risposte arcaizzanti da parte dei codini e dei reazionari. È successo poi tra gli anni Cinquanta e Settanta, con la grande espansione demografica della Capitale. Risuccederà ora, con l’ampliamento della composizione sociale degli abitanti.

Si spiega insomma benissimo perché il Piotta rivendichi la propria romaneschità non legandola a fenomeni fonetici, morfologici e lessicali, quanto piuttosto a una costante identitaria legata a «storie, citazioni, luoghi, quartieri, modi di dire, cadenza, calata, slang, rap, ospiti legati alla nostra città». Lo si vede bene nell’elenco di quartieri che chiude Lode a Dio: «Lode a Dio / Più grande di Torpignattara e Casilino / Del Tiburtino e di tutta Torbella / Lode a un Dio senza un nome definitivo / O un’immagine azzeccata / Un Dio a cui vorrei bene se mi volesse bene /Lode a Dio del Quadraro, del Labicano, del Prenestino / Di Maranella e dell’Esquilino / Al Dio delle popolari / Da Millevani fino a Serpentara / Al Dio di Valpadana, di Valmelaina, di Pietralata / Al Dio del Fiume, da Montesacro fino alla Magliana / Al Dio del mare, dal’Iinfernetto fino all’Idroscalo / Al Dio del cielo, da Forte Antenne fino a Monte Mario / Al Dio dell’Africano, lì dove tutto è nato».

Questa è la rivendicazione di una “geografia dell’anima” che contribuisce in modo determinante a costruire la storia sociale di una città, che è a un tempo la storia dei suoi abitanti e la storia della progressiva costruzione del senso di un luogo, fondata su stereotipi, parole e immagini impresse nella mente di ciascuno. Anche se queste costruzioni sono ben lungi dal restituire un’immagine reale, il loro insieme fa di Roma, in un’epoca di nonluoghi (secondo i termini di Marc Augé), un luogo davvero identitario, relazionale e storico»: non dunque una mera espressione geografica, ma prima di tutto un luogo antropologico in cui si materializza il rapporto, spesso (s)mitizzato, che gli abitanti hanno con la Città.

giulio.vaccaro@unipg.it

 

L'autore

Giulio Vaccaro
Giulio Vaccaro, romano e romanista, è un ciclista amante delle salite lunghe. Insegna Storia della lingua italiana all’Università di Perugia, dopo aver lavorato all’Opera del Vocabolario Italiano e all’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea.
Dal 2009 al 2016 ha diretto il progetto DiVo – Dizionario dei Volgarizzamenti (di cui ha coordinato l’attività dell’unità della Scuola Normale Superiore di Pisa, all’interno di un progetto FIRB – Futuro in Ricerca 2010); dal 2014 al 2016 ha diretto il progetto bilaterale Manoscritti italiani in Polonia: ricerca, catalogazione, studio / Włoskie rękopisy w Polsce: poszukiwanie, inwentarz i badanie e ha coordinato il Laboratorio Volgarizzamenti: storia, testi, lessico presso il Centro di Elaborazione Informatica di Testi e Immagini nella Tradizione Letteraria della Scuola Normale Superiore. Nel 2018 è stato research fellow presso il Deutsches historisches Institut in Rom. Ha collaborato alla GSR-Grammatica Storica del Romanesco, finanziata dal Fondo Nazionale Svizzero e coordina un’unità del progetto CorTIM. Corpus Testuale dell’Italia Mediana. Si occupa di volgarizzamenti di classici latini e mediolatini negli antichi volgari italiani (Albertano da Brescia, Seneca, Vegezio), di studio materiale dei manoscritti ai fini della storia della tradizione dei testi, di testi genealogici tra Due e Cinquecento, di contatti tra Italia e Spagna nel Medioevo e di autori dialettali romaneschi (Sindici, Tacconi, Zanazzo).