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«Chi vò fa paura, nun po avè paura»

Partiamo da un presupposto fondamentale per chiunque leggerà le righe che seguono: Qualcuno è vivo è un romanzo. Non un testo saggistico, non un trattato storico sulla banda della Magliana, non un diario di confessioni criminali. In parte pure autobiografico, magari, ma un romanzo a tutti gli effetti, refusi compresi (che, specie quando un romanzo è ben scritto, come in questo caso, saltano facilmente all’occhio).

È una specifica necessaria, dato il peso rilevante che il nome dell’autore, Antonio (Nino) Mancini, dal 1979 l’“Accattone” della banda della Magliana, riveste nella cronaca e nella letteratura contemporanee.

Ma definire Antonio Mancini “il Ricotta di Romanzo criminale” sarebbe ben riduttivo, specie perché, rispetto ai tempi della Magliana (reali o romanzati che siano), nella sua storia umana e personale c’è un densissimo “prima” e c’è, soprattutto, un importante “dopo”. Un prima e un dopo che a conti fatti sono ben più estesi cronologicamente degli anni che lo hanno visto militare nella banda romana. E il suo “dopo” contiene anche la stesura di un romanzo: Qualcuno è vivo. Volevo essere Edward Bunker, edito da Ventura (Senigallia) nel 2017 e rielaborato in una nuova edizione, con un capitolo aggiunto, nel più recente 2023.

È necessario, dunque, per un momento, rimuovere ogni informazione letterariamente filtrata o cronachisticamente appresa dai media su questo personaggio e fermarsi alla persona, allo scrittore, all’uomo Nino Mancini, per potersi immergere nella sua prosa piana e scorrevole, nel suo romanesco di borgata “originale”, tanto lontano da quello televisivo cui negli anni ci siamo abituati (al punto da chiedere sovente alcune note esplicative a fondo pagina), che si alterna, però, a un italiano estremamente limpido e molto ben organizzato sul piano sintattico e per capire fino in fondo che «Ogni riferimento a persone o cose è puramente casuale. I personaggi narrati in questo romanzo non esistono nella realtà ma sono frutto della fantasia dell’autore. Le storie narrate sono tutte (o quasi …) inventate. Chiunque si ritrovasse in queste storie, lo sarebbe per puro caso».

Fatte le doverose premesse, entriamo nel vivo delle storie narrate da Mancini.

Il protagonista, Lallo – Giancarlo Balestra – detto Cheyenne, racconta in prima persona la sua vita partita dalla borgata romana di San Basilio, dove «i vecchi […] dicevano con amarezza che […] eri già in galera ancora prima di aver compiuto qualsiasi reato» (pp. 22-23) e che troppo presto lo conduce al carcere minorile insieme alla sua giovane batteria. I primi amori, le prime esperienze malavitose di Lallo – che tanta vergogna generano nel padre, onesto e irreprensibile operaio convintamente comunista – il modo in cui egli impara a stare sulla strada, occupano la prima parte del romanzo. Ci sono gli adulti, le “facce da lamette” – lamette che si usano per auto-ferirsi all’arrivo della polizia, al solo scopo di evitare un pestaggio – tra cui spicca Checco che pronto, dopo il primo furto cerca di consigliare al meglio Lallo e gli altri ragazzini di borgata: «“Dateme retta, nun c’annate a rubbà …” […] si inizia a rubare per gioco o per scelta: nel primo caso prima o poi ti stufi e smetti; nel secondo caso vai avanti, nonostante le botte e gli anni di galera» (p. 52).

Al contempo, proprio nel corso del primo arresto di Lallo – che, come tutti i momenti successivi dedicati alla cella nel romanzo, coincide con una netta diminuzione dei dialoghi e un estremo ampliamento dell’accavallarsi di pensieri in solitaria, a rimarcare l’assoluto senso di solitudine del carcere, specie in isolamento – c’è la scoperta della letteratura, con un Guerra e pace che gli viene rifilato per puro caso e che lo condurrà a una serie di letture nuove e diversificate, grazie all’assistente Ennio «che mi aveva preso in grande simpatia e […] nel vedermi così preso dalla lettura, ogni tanto mi portava il libro di qualche scrittore, straniero o italiano, a me perfettamente sconosciuti. Per esempio Burroughs, Miller, Malaparte, Pasolini e altri» (p. 75).

Centrale, in questa prima parte, è il timore, la paura che coglie i ragazzini all’alba di ogni colpo, l’adrenalina che sale prepotente ogni volta e che troppo spesso – abituati al criminale da noir – noi lettori tendiamo a dare per scontata, sfogliando pagine e pagine comodamente seduti nelle nostre poltrone. Quasi che i ladri e gli assassini non fossero umani, non provassero le stesse emozioni degli altri. Mancini affossa fermamente questa falsa percezione di sicurezza e calma spavalderia che tanto ci piace immaginare da chi, erroneamente, crediamo abituato a questo tipo di vita, perché «Chi vò fa paura, nun po’ avè paura» (p. 64) e invece ne ha e tanta, come chiunque, specie è un ragazzino.

Poi la maggiore età, l’abuso di Plegine prima e cocaina poi, un pestaggio denunciato e l’ingresso a Regina Coeli e, al contempo, la giovane batteria che comincia a essere notata – e ammirata – dentro e fuori da San Basilio. L’esagerazione nello sperperare il denaro ricavato dalle rapine e nuove rapine da mettere a punto per racimolare altro denaro da spendere. Il primo omicidio di gruppo, di cui Lallo dirà: «Stavamo andando ad uccidere un uomo e lo facevamo come fosse uno scherzo di carnevale» (p. 140), chiedendosi poi se fosse semplice incoscienza o la consapevolezza innata che anche la morte altro non fosse che uno scherzo di carnevale. Un circolo vizioso in cui i ragazzi si illudono di «averlo messo in culo a De Giovanni» capo della squadra mobile, senza capire ancora che, di fatto, «lui si sentiva vincitore […]: aveva predetto molti anni prima che quei ragazzini si sarebbero abbuffati di galera o rimasti tutti stecchiti» (p. 135).

A ciò segue l’espansione progressiva nello spaccio di cocaina, gli omicidi di concorrenti come il Barese – con l’emotività e la paura che iniziano a passare in secondo piano, per non dire che scompaiono quasi del tutto e in maniera evidente, anche e soprattutto per mezzo della cocaina, senza la quale, dice Lallo, non sarebbe stato facile reggere la vista delle torture e mutilazioni inflitte ai nemici (p. 241) – ma anche la bella vita, soprattutto notturna, in una città come Roma, in cui la malavita: «non prestava la giusta attenzione ai cambiamenti e alle novità» e così «nel giro di un paio di anni eravamo arrivati dove nemmeno noi pensavamo di mettere le mani» (p.182). «Era il nostro momento» dirà ancora Lallo: «da pischello avevo sempre sognato di ritrovarmi, un giorno, col culo su una Ferrari a dare la birra ai coatti dei bassifondi, incensato dalle donne, ammirato dai cattivi e stordito dal successo. E adesso […] era una strana sensazione» (p. 210).

Al termine della terza parte del romanzo siamo ancora all’alba del 1974 e già Lallo, poco più che ventenne, accompagnandoci passo passo tra le cruente vicende di questo appassionante e sconvolgente romanzo, è diventato un assassino e un torturatore furbo ed esperto, che ha scovato finanche gli uccisori di due dei suoi compagni vendicando, poi, questi ultimi come ogni lettore può immaginare (o, forse, peggio di quanto effettivamente si possa immaginare, persino per gli stessi protagonisti).

Nel mentre, non si fermano le rapine e la tensione in Lallo – che pareva ormai un lontano ricordo – torna prepotente, specie in assenza di cocaina, nelle attese interminabili che precedono l’azione («Pensai che un’azione criminale non avrebbe dovuto contemplare l’attesa, poiché in quell’infinito intervallo rivedi uno dietro l’altro ogni giorno vissuto […]. Credevo che, avendone combinate tante, avrei dovuto essere abituato a quelle situazioni. Invece, se stai facendo qualcosa che potrebbe costarti caro, nemmeno il più insensibile alle emozioni è in grado di attutire la botta»; p. 260).

Quando si sale troppo in alto, però e così di fretta, per giunta, il pericolo è sempre quello di precipitare altrettanto velocemente … . Il carcere, «generatore di malattie e di dolore», «non fa altro che accentuare i problemi che ogni detenuto ha» (p. 405), la cocaina induce un compagno di batteria a paranoia, altri amici muoiono in scontri a fuoco con la polizia nel corso di una rapina alla quale Lallo, solo per mera fortuna, non partecipa. Conscio che «certe amicizie non tornavano più e una volta che se c’erano andate, scomparse per sempre, rimanevano soli e la vita assumeva le sue sembianze reali: un grande schifo, un’assoluta finzione» (p. 359) al protagonista non resta che continuare a vivere domandandosi se mai avrebbe potuto fare qualcosa di diverso nella vita e rispondendosi che no, non avrebbe potuto (p. 394), pur ben consapevole che, anche dopo aver vendicato gli amici assassinati, «il dolore non scaccia il dolore» (p. 374) e barattare il sangue dei morti con quello degli assassini non conduce alla pace …

Da ultimo giunge proprio ciò che il lettore si sarebbe aspettato in apertura: l’incontro con Emiliano e col suo ambizioso progetto: «creare a Roma un’organizzazione criminale come quelle che prosperano sul territorio meridionale» (p. 420), le batterie che si uniscono, il rapimento del figlio di un industriale e la consapevolezza di Lallo che la strada è ormai spianata e il percorso è già ben tracciato (p. 422). L’idea della banda, dunque, giunge solo al termine di questo lungo percorso di malavita. Mancini sembra attento a sfatare ancora un mito, quello che tutto ciò che di lui conosciamo – o pensiamo di conoscere – abbia preso avvio con la fondazione della banda della Magliana che, per contro, si rivela soltanto la naturale evoluzione di una vita già segnata.

Tutto questo è Qualcuno è vivo: «Non solo una storia di banditi» (Cottini, prefazione). È un libro da divorare, per la facilità di lettura con cui scorrono le sue numerose pagine criminali e da rileggere, poi, con calma, per cercare di capire a fondo che «scrivere è un po’ come andare in analisi» (Sciarelli, prefazione) e che «in questo romanzo c’è così tanta umanità che riesci pure a empatizzare col criminale più criminale di tutti» (Cottini, prefazione). Chi si approccia a questo romanzo storcerà il naso più di una volta, se si aspetta una letteratura “alta” o una soluzione ai grandi dilemmi esistenziali dell’uomo. Ma se si vuol comprendere a fondo il funzionamento della vita di borgata, della criminalità organizzata (quella romana, tanto peculiare e diversa dalle mafie meridionali gerarchicamente costruite), delle caste che si formano in carcere, luogo in cui «o si grida o si bisbiglia» (p. 410) e del ruolo della penitenziaria, dell’umanità dolente e dolosamente reale, Qualcuno è vivo è decisamente il libro più adatto allo scopo.

teresa.agovino@unimercatorum.it

L'autore

Teresa Agovino
Teresa Agovino (1987) ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2016 presso l'Università 'Orientale' di Napoli con una tesi incentrata sulle riprese manzoniane nel romanzo storico del Novecento. Insegna Letteratura italiana presso l'Università Mercatorum (Roma) e Metodologie di scritture digitali presso l’Università Europea di Roma. Si occupa di ricerca su Alessandro Manzoni, Primo Levi, Giancarlo De Cataldo, Andrea Camilleri, autori sui quali ha pubblicato numerosi articoli in rivista e atti di convegno. Ha pubblicato i volumi: Dopo Manzoni. Testo e paratesto nel romanzo storico del Novecento e Elementi di linguistica italiana (Sinestesie, Avellino 2017 e 2020); I conti col Manzoni e «Sotto gli occhi benevoli dello Stato». La banda della Magliana da Romanzo criminale a Suburra (La scuola di Pitagora, Napoli, 2019 e 2024);“Non basta essere bravi. Bisogna essere don Rodrigo”: Social, blog, testate online, Manzoni e il grande pubblico del web (Armando editore, 2023). Ha vinto il premio 2023 dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti, Classe di Lettere, con il saggio Da Manfredi all’innominato. Suggestioni dantesche in Manzoni.