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Il linguaggio del costume nella costruzione del personaggio  

Con il costume l’attore sottolinea o nasconde la propria figura, la propria appartenenza a un ceto, a una classe sociale, a un’età storica, «Poiché il costume non è soltanto un semplice accessorio decorativo, ma un elemento della forma del racconto stesso del film. Fa parte della scenografia come vivente scenografia umana, secondo l’espressione di Jacques Manuel, ne prolunga i gesti e gli atteggiamenti degli attori come segno e attributo»[1]. Il costume cinematografico o teatrale, a parte la qualificazione sociale che gli compete, contiene un proprio vissuto drammatico, una strumentalità attiva e spesso vitale; anzi, come dice il ciambellano Polonio in Amleto, «Una delle prime qualità del vestimento è la sua espressività».

Sarebbe impossibile stabilire il vasto repertorio dei giochi plastici e drammatici del costume come “pelle”. Già a partire dalla metà degli anni Quaranta del secolo scorso, Hollywood, la mecca del cinema americano, proietta sugli schermi una Rita Hayworth nel ruolo di Gilda, moderna dark lady, la quale si diverte a far danzare le braccia avvolte in lunghi guanti di satin nero, che salgono fino all’ascella nuda, traducendo un senso di spregiudicato ma allo stesso tempo pudico erotismo.

La teoria di dar vita a “creature” e non a manichini si lega alla capacità di saper entrare nella più totale immedesimazione del personaggio. Tra le prime costumiste ad aver fatto la storia del cinema e del teatro, pioniera di una ricerca intima dei personaggi, ritroviamo Maria De Matteis, formatasi alla scuola del Centro sperimentale di cinematografia di Roma dove fu allieva del costumista senese Gino Carlo Sensani.

I costumi disegnati dall’artista toscana mantengono l’armonia in rapporto con l’azione del personaggio. Il suo carattere nel creare costumi può essere definito attraverso le sue stesse parole, al di là delle stesse classificazioni di scuole e tendenze: «Quando creo un costume per un personaggio ne leggo attentamente la storia. Cerco di conoscerlo interiormente anche da ciò che non fa e non dice, lo inserisco in un’epoca. Egli avrà i suoi colori e non altri, in modo da apparire come un’individualità da non confondere con altre»[2].

L’interesse per l’uomo in tutte le sue costanti è anche rintracciabile nel teatro di Giorgio Strehler, come atto di fedeltà alle ragioni profonde dell’esistenza umana. Nel suo porre l’uomo sotto la lente d’ingrandimento, Strehler porta alla luce alcuni aspetti che gli interessano: l’uomo e sé stesso, l’uomo e la storia. La peculiarità degli spettacoli strehleriani ci conduce alla connessione inevitabile che deve scaturire tra costume e attore. Ciò accade per esempio nell’Isola degli Schiavi di Pierre de Marivaux, andato in scena al Piccolo di Milano nel 1994, uno spettacolo in cui i personaggi sono spesso costretti a scambiarsi gli abiti a vista, liberandosi dalle loro vesti leggerissime che gli impongono un’altra identità: gli indumenti hanno una forte carica espressiva e dinamica. Durante la commedia Monsieur e il suo servo Arlecchino, Madame e la sua serva Silvia vengono catapultati sull’isola dopo un naufragio, nella quale precedentemente viene imposta la Repubblica della “redenzione” da un gruppo di schiavi fuggiaschi. Possiamo intuire sin da subito quale destino li attende: una “rieducazione sociale” per riconsegnarli infine alla vecchio mondo; i costumi vengono quindi sfilati di dosso e scambiati tra i quattro protagonisti, che si immedesimano, anche se per poco, nei loro agognati ruoli. Ogni personaggio, cambiando indumento, ha dunque la possibilità di entrare per così dire, nella “pelle” dell’altro. Attraverso questo gioco teatrale si compie una sorta di “viaggio d’istruzione” che conduce i personaggi a un metafisico contaminarsi a vicenda, come se il corpo di ciascuno attraversasse di continuo il corpo dell’altro, al fine di educare a estirpare l’arroganza classista.

La ricerca antropoietica del costume si estende anche in campo cinematografico negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso; conquista così un ruolo fondamentale nel cinema grazie a Luchino Visconti. Il suo contributo oltrepassa i limiti dello specifico impegno di regista; evocando attraverso il linguaggio della fisicità dei personaggi (e quindi del loro calarsi nel “costume” di scena), l’atmosfera stessa delle vicende narrate e la sostanza del tempo evocato, Visconti suggerisce uno stile assolutamente fedele al contesto. All’interno delle opere cinematografiche viscontiane la concezione del costume viene formulata come elemento portante, che vanta valore significativo pari alle scenografie e alle colonne sonore, in maniera tale che possa rappresentare un’importante funzione espressiva, catalizzando l’anima della sequenza così da renderla immediatamente fruibile allo spettatore. Uno dei nomi ormai leggendari, tra i costumisti che ostentano una lunga attività al fianco di Visconti, è quello di Piero Tosi. La cura e lo zelo con cui entrambi sovrintendevano alla realizzazione dei costumi e delle scene rimangono ancora oggi leggendari.

L’abbigliamento dei personaggi inseriti nei set cinematografici diventa dunque, con Tosi e Visconti, il loro stesso ambiente, arricchendo la cornice dell’immagine che li contiene. Si tratta di veri e propri vestiti e non di comuni costumi; sono piuttosto indumenti riprodotti dalla realtà, che comportano un’attenta ricerca filologica e la cui realizzazione segue uno stile rigoroso soprattutto nella scelta dei tessuti, culminando nella dimensione che vede protagonista il coagulo della dialettica tra individuo e ambiente. Ciò che si vuole sottolineare è che il fascino di un “vestito ben fatto” ha un carattere essenzialmente organico, dettato dalla leggiadria e dalla libertà di movimento generata dalla grazia esteriore, dalla perfezione del nostro essere; dunque, visto che il corpo è bello qualsiasi vestito che vesta, sarà anch’esso bello.

Già a partire dagli inizi degli anni Cinquanta – periodo in cui il regista milanese avviò la sua carriera di regista anche teatrale, e in particolare durante le riprese di uno dei suoi primi capolavori entrati a far parte della storia del cinema italiano, Bellissima (1951), protagonista una straordinaria e indimenticabile Anna Magnani – Visconti creò una vera e propria scuola italiana del costume, ricercando la precisione storica legata allo stile della moda. I caratteri peculiari di questa scuola trovano infatti radici nelle fonti iconografiche dell’epoca di riferimento, sfociando così in una cura maniacale dei dettagli.

Da non dimenticare che stiamo parlando di anni caratterizzati dal cosiddetto «neorealismo magico», che a differenza del precedente non trova più necessario raccontare al pubblico episodi di realtà quotidiana, evidenziando le sfumature drammatiche che la rappresentava, ma con un nuovo stile, occupato a descrivere storie di vita, attinge da una varietà di romanzi, poesie e dipinti legati preferibilmente al periodo del Risorgimento italiano.

Nel saper ricercare le fonti utili a rievocare le atmosfere storiche erano fondamentali le basi della conoscenza del realismo estetico, di cui Piero Tosi divenne maestro. È di notevole importanza ricordare infatti come l’artista fiorentino seppe anche adeguarsi alle richieste di registi eclettici e particolari, come Pier Paolo Pasolini.

In occasione della loro collaborazione durante le riprese di Medea (1969), interpretata da Maria Callas, Tosi si allontanò da quelli che erano stati i precedenti insegnamenti di Visconti, accostandosi all’innovativa tecnica di lavoro di Pasolini, centrata sulla sperimentazione artistica. Per evitare di cadere nei banali stereotipi della grecità, pensò infatti di realizzare dei costumi con dei forti riferimenti etnici. Evocò alcuni motivi tratti da una fine ricerca stilistica sulle varie civiltà arcaiche del Mediterraneo, in un vero e proprio assemblaggio delle tracce e dei tessuti più antichi di popoli lontani nel tempo, sempre alla ricerca di tradizioni popolari ormai perdute. Fece così riferimento a tessuti inusuali e inediti, per lo più caratterizzati da armatura leggera o pesante, per garantire quel sapore primitivo reinventato, in contrapposizione alla poetica di Visconti a cui il costumista era abituato.

È chiaro come Piero Tosi nasca storico del costume, un particolare che lo ha aiutato a maturare una concezione di realismo cinematografico, secondo la quale il costume non è da concepire come una forma di decorazione del personaggio, ma come qualcosa in più: la sua stessa pelle. In merito a quest’ultima teoria, nel periodo storico compreso tra il 1882 e il 1889 si assiste all’inizio di una riflessione incentrata sulla rigidità del portamento e sull’utilizzo di futili orpelli estetici nell’abbigliamento femminile e maschile: tale argomento fu per diverso tempo tema di dibattito e discussione in una serie di conferenze tenute negli Stati Uniti da parte dello scrittore irlandese Oscar Wilde. L’esteta per eccellenza, che ha segnato la cultura e il costume di fine Ottocento, elaborò una teoria rivoluzionaria nel campo della moda del suo tempo, che traeva radici dal gusto degli antichi greci e romani; le misure antropometriche divennero così l’ideale proporzione matematica tra l’individuo e ciò che indossa. Seppur difficile da comprendere ai borghesi interlocutori dalle menti impregnate di riviste illustrate (le quali si occupavano di divulgare lo status sociale femminile e maschile con falsi ideali estetici), nella società vittoriana iniziavano a dilagare persuasive tesi che la bellezza non risieda necessariamente negli ornamenti e nelle frange, ma nella forma umana, arrivando a una semplificazione che coniugava eleganza e praticità.

L’epilogo del realismo cinematografico di Visconti non si risolve però mai nella puntigliosità del dettaglio rintracciabile in tutti i suoi costumi, bensì nell’armonioso disegno di un pensiero razionale. «L’occhio sente l’attrazione per le linee e le proporzioni secondo le leggi della percezione visiva, pertanto l’arte è legge e il costume è arte»[3].

Tali aspetti trovano la piena realizzazione in alcuni celebri film come Senso (1954), Il Gattopardo (1963), Morte a Venezia (1971), Ludwig (1973), il cui rigore stilistico emerge a tal punto da evocare una grande disinvoltura di tocco, restituendo sempre la giusta delicatezza all’abito del personaggio e dalla disinvoltura dell’attore.

Il 14 Maggio 1962 cominciarono le riprese del Gattopardo, uno dei più importanti capolavori di documentazione storica sul periodo del Risorgimento. Le primissime sequenze del film, che narrano il momento in cui irrompono nel capoluogo siciliano le truppe garibaldine sfoggiando le loro camicie rosse, portano il segno e il senso di questa cura dei particolari: quelle camicie vennero infatti realizzate seguendo rigorosamente l’esatto stile e la lavorazione del tessuto dell’epoca in cui è ambientata la storia firmata da Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Non solo, la fase preparatoria del progetto cinematografico vide Piero Tosi e la sua troupe approfondire le conoscenze circa la moda tardo ottocentesca, con ricerche presso il museo del Risorgimento di Palermo, in cui ancora oggi si conserva un pantalone azzurro appartenuto a Giuseppe Garibaldi.

Si trattò di una preziosa fonte, che contribuì inoltre a una fedele ricostruzione degli abiti storici, i quali attraverso la macchina da presa emanavano quel forte senso del “fatto in casa” che conferisce autenticità e polvere alla vicenda narrata.

L’abito icona del film rimane quello indossato da Claudia Cardinale durante la scena del ballo ambientato a Palazzo Gangi, una vera e propria gemme che suggerisce allo spettatore la travagliata psicologia dei personaggi ormai vicini al declino sociale. L’idea della fine, della dissoluzione avvolge infatti gli interpreti in tutto il film, penetrando profondamente nei loro abiti. Questi ultimi diventano così specchio dei loro umori malinconici, in particolar modo quelli del principe Fabrizio di Salina (un magistrale Burt Lancaster), che con il suo abito da cerimonia vaga per le sale del palazzo scoprendo i sintomi del vuoto e nello stesso tempo di un cambiamento inesorabile: il lento sfavillarsi della festa, la noia dei partecipanti, i fiori marcescenti e le candele che si sciolgono alludono infatti all’imminente arrivo di una nuova epoca. A distoglierlo da queste considerazioni è il personaggio di Angelica, emblema e avamposto dei nuovi ceti sociali emergenti: immersa in un candido e smisurato abito da sera realizzato in pura organza con una dozzina di strati di tulle, incarna la luce che per il breve tempo di un valzer dilegua le tenebre addensatesi nell’animo del principe.

Un altro importante film in cui il costume e quindi il colore di un’epoca sono senza dubbio fondamentali è Morte a Venezia, girato nel 1971, ispirato al celebre romanzo di Thomas Mann. Qui la storia è collocata agli inizi del Novecento in una Venezia dominata da nubi rosacee e luci fioche, che ricordano i paesaggi lividi delle prime tele impressioniste di Claude Monet. All’interno di questa impersonale cornice, ruotano una serie di personaggi apparentemente immaginari che si allontanano dalla realtà, a metà strada tra l’onirico e il ricordo.

Emerge in primo piano la crisi esistenziale e la morte fisica di Gustav von Aschenbach (un superbo Dirk Bogarde) ormai stanco e malato, la cui unica consolazione s’incarna nella visione del giovane Tadzio, mutato dal regista in una figura allegorica che personifica il concetto di bellezza ideale. Il personaggio appare come un innocente angelo della morte, simbolo di una nostalgia tormentosa, lontana da ciò che potrebbe apparire come un sentimento platonico non ricambiato. Anche in questo caso il linguaggio dei costumi rispecchia perfettamente le emozioni legate allo stile della storia, la quale viene costantemente scandita dalla purezza e dal chiarore della gamma cromatica; una serie di tonalità di bianco che infatti acquistano plasticità e rilievo attraverso l’ausilio di pizzi, merletti e fili di perle, accostati a morbide sete e candidi cotoni, utili a conferire ai personaggi un aspetto quasi spettrale, che li disgiunge dalla realtà consegnandoli alla cristallizzazione della memoria.

Senza dubbio le opere di Luchino Visconti raccontano storie di tempi e di uomini in una chiave cinematografica antropomorfica, attraverso cui gli attori sono chiamati a interpretare una nuova realtà: l’uomo-attore e l’uomo-personaggio debbono arrivare a un unico punto in comune. Proprio per questo, in una giusta convergenza tra immedesimazione psicologica attoriale e accurata ricerca stilistica dell’abbigliamento e dell’anima di un’epoca, si può e si deve arrivare alla completa evoluzione del personaggio, come accade ad esempio in uno dei suoi capolavori: Senso, in cui le implicazioni introspettive sono enfatizzate dalle emozioni che gli attori riescono a evocare anche attraverso la “seconda pelle” dell’abito. Il film, tratto da una novella di Camillo Boito, è ambientato durante il Risorgimento e narra la vicenda della travagliata storia d’amore tra una nobildonna veneziana, Livia Serpieri (un’affascinante e intensa Alida Valli) e un ufficiale austriaco, Franz Mahler (il semisconosciuto ma efficace Farley Granger), che ben presto, dopo un’accesa passione, sfocerà in tragedia. Visconti dispone i personaggi all’interno di uno scenario fatto di paesaggi dai toni armoniosi, rievocando le intensità cromatiche presenti nelle tavolozze di Francesco Hayez e Giovanni Fattori, integrando ulteriormente il pathos e la sofferenza interiore che emerge dai due protagonisti. Durante una sequenza del film, il regista rende addirittura omaggio a una delle più celebri opere dell’Ottocento: Il bacio di Hayez appunto, rievocando in chiave moderna il soggetto iconografico del dipinto. Visconti richiama così l’attenzione dello spettatore nei confronti del dramma che si sta sviluppando attraverso la sensualità scaturita dall’abbraccio e dal bacio dei due amanti; questi sono avvolti in abiti da tonalità prevalentemente calde, attraverso i quali si suggerisce come la tematica dell’addio possa essere tramandata nelle epoche successive, mantenendo la medesima passione.

Di passione si parla, infatti. Si può certamente fare riferimento a quella stessa passione melodrammatica con la quale Visconti amava firmare le proprie opere cinematografiche: un vero e proprio stimolo, che ha contribuito a promuovere lo stile di alcuni grandi pittori all’interno della macchina-cinema, conferendo alle sequenze così costruite un aspetto estetico elegante, in riferimento a stralci di realtà storica dove ogni particolare (movimenti scenici, scenografie e costumi) veniva calcolato con grande fervore. La realizzazione di un film prevedeva, sia per Visconti sia per Tosi, un processo simile a quello della composizione di un puzzle, in cui tutto deve combaciare perfettamente allo scopo di raggiungere un risultato finale che potesse essere spettacolare, autentico e “reale”. Tosi dichiarò a proposito durante un’intervista: «Il desiderio di Luchino Visconti era uno solo: avere della gente viva, vera di fronte la macchina da presa. Il cinema e tutto ciò che lo compone inteso non come semplice elemento ricreativo, ma come vita»[4].

Fino ad ora la teoria del costume come pelle del personaggio si è proposta come funzione di appartenenza a una realtà sociale e/o a uno status mentale; tuttavia il costume, negando la realtà concreta e divenendo oggetto di una rappresentazione scenica, dà luogo a una narrazione irreale. In questi casi si parla di oggetti che vengono costruiti e usati come costumi in senso improprio. Qualsiasi attore potrà essere vestito, parzialmente o totalmente, di oggetti in origine destinati ad altra funzione, diventando così metafora della sua stessa personalità psicologica. In tal caso il costume può essere concepito come statico o dinamico, accentuando la mutazione della forma, presupposto che richiede l’abilità dell’attore.

Le avanguardie del Novecento contribuirono a concepire il costume di scena come “struttura dinamica”: basti ricordare il movimento dei futuristi, con Giacomo Balla, Fortunato Depero ed Enrico Prampolini; gli artisti ispirati dai Balletti Russi di Serghej Diaghilev. Tali figure fornirono le prime suggestioni creative, che portarono all’ideazione di indumenti dalle forme costruite, destinati a diventare parte integrante della scena plastica futurista. Il contatto diretto tra la compagnia di Diaghilev e il gruppo futurista avvenne a Roma tra il 1916 e il 1917, decretando l’inizio di nuove tecniche espressive come l’assemblaggio cinetico, il costume plastico e il collage di carte colorate.

L’espressione “scenario plastico” fu utilizzata per la prima volta nel 1916 nel contratto che Diaghilev propose a Depero per il Canto dell’usignolo di Stravinsky. Il progetto prevedeva l’abolizione degli spazi inerti del palcoscenico, riempiendo le distanze e gli angoli vuoti, al fine di condensare la materia scenica. Depero progettò dei costumi dalle forme cristalline, ai quali doveva corrispondere una scena costruita, ricca di motivi vegetali. Il tema espressivo era quello della vegetazione poeticamente ricreata in un’ostentata modulazione naif e artificiale.

La formalizzazione spaziale dei costumi obbediva agli stessi principi stilistici adottati nella condensazione dello spazio scenico, ipotizzando un dinamismo spettacolare simile alla vivacità caleidoscopica di una scatola magica. In questo caso Depero previde l’uso dei costumi mobili; la figura umana era infatti totalmente nascosta da abiti simili a corazze, che proponevano una nuova figura dell’attore, costretto a danzare con involucri policromi di cartone, di ferro, di tele smaltate e plastica trasparente.

Il costume e la scena possono divenire contenitori che enfatizzano o ridimensionano il personaggio. Ciò accade nel 1968 nel Riccardo III diretto da Luca Ronconi, andato in scena per la prima volta al Teatro Stabile di Torino, con i costumi e le scenografie firmate rispettivamente da Enrico Job e Mario Ceroli.

Tra le varie soluzioni di regia, Ronconi ricerca una diversa immediatezza di rapporti. La trova mobilitando, oltre alla voce degli attori, l’espressività dei corpi, che non temono di deformarsi, di gonfiarsi o di adornarsi di protesi; come nel caso di Vittorio Gassman, ricoperto da una “gabbia di cuoio” carica di motivi deformanti fatti di pelliccia, gomma e metallo, a oggettivare la primitività del mondo rappresentato. Tali costumi, seppur alleggeriti e semplificati a causa del loro peso eccessivo, partecipano ad accentuare l’idea di stravolgimento grottesco e ironico, evidenziando il carattere del personaggio, affamato di potere e soggetto alla disperazione. La struttura del suo costume viene interpretata come una specie di “punizione”: egli è ridimensionato e obbligato a una reazione alla quale è difficile sottrarsi. Oggetto da giudicare agli occhi dello spettatore, appare in continuo rapporto con la vita e il mondo che gli sta di fronte.

Si arriva così alla teoria che ogni particolare che compone un costume o un abito di scena debba divenire specchio delle emozioni del personaggio, facendo via via avvertire al pubblico l’imperiosità di una storia, la riformulazione di ciò che appare morale e di ciò che appare fondamentale, assumendo così un gusto neutro nei confronti delle tradizioni del vivere. In questo caso il costume non deve essere inteso semplicemente come innovazione stilistica che lancia una nuova moda nello spettacolo; è fondamentale capire e approfondire le scelte da parte del costumista, che senza dubbio scava nell’io del personaggio, in cerca di un nuovo linguaggio comunicativo che offra la possibilità di generare emozioni sempre nuove in una fabbrica di sogni.

salvo.mr64@gmail.com

[1] M. Verdone, La moda e il costume del film, Roma, Bianco e nero, 1950, p. 26.

[2] M. De Matteis, intervista ripubblicata in Costumi e Scenografi nel cinema italiano, vol. 2, La lanterna magica, l’Aquila,1989, p. 242.

[3] O. Wilde, Filosofia del vestito, Casimiro libri, 2020, p. 17.

[4] C. D’Amico de Carvalho, G. Vergani, in Piero Tosi costumi e scenografie, Leonardo Arte, 1997.

L'autore

Salvatore Sanfilippo
Salvatore Sanfilippo è nato nel 1980 a Palermo, dove ha conseguito nel 2005 il diploma di laurea in scenografia presso l’Accademia di Belle Arti con una tesi incentrata sul costume nello spettacolo, di cui è stato correlatore Piero Tosi. Ha collaborato con alcune delle più prestigiose sartorie teatrali tra Palermo e Roma, per l’allestimento di spettacoli come Orfeo e Euridice (2007) con la regia di L. Cannito; Il Trovatore con la regia di P.F. Maestrini (2006). Ha tenuto seminari sul costume presso l’ateneo della sua città. Attualmente è docente di Storia dell’arte in un liceo di Roma.
Ph. Dino Ignani