L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni
1- Il mondo e il mappamondo
Per cercare di farsi largo nella civiltà della Cina, nel 1584, nella abitazione della Compagnia di Gesù che all’epoca era a Zhaoqing, p. Matteo Ricci (Lì Mǎdòu, Macerata 1552-Pechino 1610) ha l’idea di collocare nella sala d’ingresso una carta geografica del mondo, esposta all’ammirazione del pubblico (Matteo Ricci, Della entrata della Compagnia di Giesù nella China [= Ricci 2000, ediz. Quodlibet, p. 143; cfr. anche Lettere 2001, p. 103):
Avevano i Padri posto nella loro sala un Mappamondo universale di tutto il mondo in nostra lettera. E, essendo inteso da’ Cinesi che cosa era questa, come cosa mai vista né pensata, desideravano tutte le persone gravi vederlo voltato in lettera Cinese, per saper meglio quello che in essa si conteneva. Perciò l’istesso Governatore comandò al P. Matteo, che già sapeva qualche cosa delle loro lettere, che gli voltasse quel Mappa con tutte le annotazioni che in esso vi erano, perché lo voleva far stampare e comunicarlo con tutta la Cina; con che i Cinesi gliene restarebbero molto obbligati.
Dopo questa prima edizione di Zhaoqing del 1584, il mappamondo in lettera cinese si perfezionerà con le edizioni del 1600 di Nanchino, e ancor più con quella pechinese del 1602 con i successivi aggiornamenti degli anni 1603, 1608, 1609.
Ricci annota anche lo smarrimento provato dai letterati nel verificare che la Cina non è il ‘Paese di mezzo” (zhōng guó), come essi reputavano, e come è esplicitato negli stessi logogrammi per ‘Cina’, quanto piuttosto soltanto “un Cantone” della terra.
Questo mappamondo è alla base della cartografia che Ricci si apprestava a trasporre in versione cinese. La sorpresa dei letterati aumenterà maggiormente quando Ricci, allievo, negli anni romani fra il 1568-77, di Cristoforo Clavio (Christoph Klau, 1538-1612), il quale, nel seguire le linee di Luigi Lilio, aveva definito le correzioni al calendario gregoriano che sarà approvato dal Papa nel 1582, riuscirà a determinare la longitudine della Cina e a pubblicare nel 1602 la carta aggiornata – anche rispetto a quelle occidentali, perché opera con l’integrazione della Nova et aucta orbis terrae descriptio ad usum navigantium emendata accomodata del 1569 di Gerardus Mercator (1512-94) e il Theatrum orbis terrarum del 1570 di Abrahamus Ortelius (1527-98). Questa carta sarà nota come Kunyu wanguo quantu / Carta completa di tutte le nazioni della terra, Pechino 1602.
Ma il disorientamento di cui dànno segno i letterati cinesi non è dissimile da quello prodotto sugli intellettuali europei dall’età delle grandi esplorazioni, finché, uno per volta, le soluzioni verranno calibrate ai nuovi dati.
Sarà nostro fine delineare in questo lavoro le condizioni che si verificheranno perché le due realtà del Cati e della Cina siano finalmente ricondotte alla medesima categoria nozionale e identità geografica.
2- Catai e Cina: due realtà o una?
Per i Greci e i Romani il nome che può corrispondere all’incirca all’area della attuale Cina era latino Seres che proviene da greco Sḗres (Σήρες). In greco l’aggettivo sērikόs (σηρικός) darà anche il nome alla seta ‘serico, di seta’. Verosimilmente questa denominazione è collegata alla indicazione delle reti di carovaniere che da età preistorica collegava l’Estremo Oriente all’Occidente e che, oltre alle spezie e altri prodotti pregiati porteranno anche la seta e da questo pregiato e ricercato prodotto prenderanno il nome.
La Cina dei Mìng continua a essere nota fino a tutto il Cinquecento, e ancora oltre, con il nome di Catai ~ Cataio e Gattaio nel sintagma “seta gattaia”. Si ha l’attestazione di Catai in Marco Polo e, ancor prima, è presente negli scritti dei missionari francescani con le varianti Kitai in Giovanni di Pian del Carpine, Cataia in Guglielmo di Rubruk, Cathay in Giovanni da Montecorvino, Catay in Odorico da Pordenone, Katay in Giovanni de’ Marignolli, Cataio in Matteo Ricci.
Il nome di Catai è nell’Orlando innamorato di Matteo Boiardo e nell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto. Questo è il luogo di provenienza di Angelica che è denominata “principessa dell’India”. In russo permane Китай, in inglese umanistico si ha Cathay, in portoghese Catai, in spagnolo Catay.
Questo nome risale al nome del popolo mongolo dei Khitan (nella resa cinese Qìdān), che, proveniente dalla Manciuria, regnò su una fascia della Cina settentrionale (nel periodo 916-1125) dopo il disfacimento della dinastia cinese Táng. Nella storiografia cinese corrisponde all’epoca del Grande Liao (Dà Liáo).
La parte meridionale dell’attuale Cina era nota generalmente come il territorio dei Mánzi, dei ‘barbari’, perché non considerati etnicamente Hàn. Questo nome compare in Polo come Mangi.
Caduta la denominazione di Catai in disuso con la fine della dinastia mongola Yuán, la parola che comincia a sostituirla è il persiano Čīn, a sua volta proveniente dal sanscrito Cīna che denotava lo stato retto dalla dinastia Cīn (221-206 a.C.) sotto la quale si sarebbe realizzato con Ying Zheng il primo impero, storicamente fondato e non più idealmente mitizzato, della Cina. L’armeno offre Čenk‘ e l’arabo ha baḥr aṣ-Ṣīn.
Tuttavia l’Occidente conserva il dualismo nominalistico e i geografi non riescono a mettere a fuoco la questione se il Catai del Gran Cane, quello raggiunto nel Medio Evo dalle carovaniere via terra, possa corrispondere all’entroterra delle coste della Cina degli Imperatori Mìng, cui i Portoghesi pervengono con le loro navi già dall’inizio del Cinquecento, ma in cui non erano ancora riusciti a entrare perché l’Imperatore aveva autorizzato il loro stanziamento e la loro permanenza nel solo territorio di Macao. Tranne quindi che per qualche scambio commerciale mirato e per gli incontri necessari ai colloqui diplomatici, ai Portoghesi, e quindi agli Europei, era restata ancora ignota la realtà della Cina.
3- Il Catai di Marco Polo e dei Francescani
Marco Polo (1254-1324) trascorre fuori l’Europa un periodo che va dal 1271 al 1295. Il suo libro è il resoconto del viaggio fino al Catai di Kublai Khan (in mongolo Qubilai qaghan, 1215-94) al cui servizio resta quasi 17 anni. Qubilai è nipote di Gengis Khan ed è il primo Imperatore della dinastia Yuán che governerà la Cina fra il 1279 al 1368, quando sarà sostituita dalla dinastia cinese dei Mìng (1368-1644). Il fratello di Kublai, Hülägü, fondò il Khanato di Persia nel 1265.
La capitale dell’impero è Canbalu ~ Coblau; proviene dall’uiguro-turco xānbalїq ‘Città del Signore’ con cui veniva a essere chiamata la cinese Beijing ‘Città del nord’. Polo spiega correttamente il nome di Canbalu “in nostra lingua la città del signore” (84,3). Il nome di Kublai Khan è glossato “lo signore degli signori” (75,1), “Grande signore de’ signori” (81,1) e in francese “grant sire”, “grant seignor”, “et quant le grant sire que Cublai Kaan avoit a nom’ (8,3,5), “le grant seignor des seignor que Cublai Kan est apellé” (82,30). Il Giappone, l’arcipelago verso cui i Mongoli hanno a lungo guardato è detto Cipango ~ Zipagu.
Scritto sotto dettatura da Rustichello da Pisa (un letterato al quale si deve la compilazione di romanzi del genere arturiano), durante la loro prigionia nel carcere di Palazzo San Giorgio a Genova, la lingua usata è il franco-veneto. Ambedue erano stati catturati in battaglia: Rustichello in quella navale della Meloria, vinta nel 1284 dai Genovesi contro i Pisani; Marco Polo in quella di Curzola, vinta nel 1298 contro i Veneziani, se non, in alternativa, nella battaglia del Golfo di Alessandretta. Marco Polo fu rilasciato l’anno successivo. Del libro si ha subito una versione in oïl, forse del 1298, e quelle in toscano, in veneto e in latino.
Il suo libro resta in gran parte pieno di interrogativi, a cominciare dalla ricostruzione certa dell’itinerario, dato l’ampio ventaglio di alternative presentate da molte tratte, e dalla organizzazione mentale (dell’Autore e/o del Compilatore), vista la deviazione in corso d’opera dalla dichiarazione programmatica poliana di tenere distino nel racconto ciò che egli aveva realmente conosciuto da ciò di cui gli era stato narrato.
Il libro di Marco Polo possiede una componente che permette di porlo accanto alla fascinosa letteratura di viaggio che era un tratto distintivo dell’impegno di scrittura dei missionari francescani.
Pur dando un impatto potente sulla cartografia e sulle programmazioni geografiche, esso ha tratti comuni con gli scritti dei missionari francescani del sec. XIII, quando l’azione missionaria dei Francescani nello spazio mongolico si è dimostrata molto ampia. Hanno avuto notevole diffusione la Historia Mongalorum, redatta negli anni 1245-47, dall’arcivescovo umbro Giovanni da Pian del Carpine (1182-1252) e l’Itinerarium del francescano fiammingo Guglielmo di Rubruck (1220-93). Vanno menzionati i beati francescani Tommaso da Tolentino (1260-1321) e Odorico da Pordenone (1286-1331), Giovanni da Montecorvino (1247-1328), arcivescovo di Pechino dal 1307 alla morte, avvenuta nel 1328, Giovanni de’ Marignolli (ca. 1290-1359).
Era l’epoca in cui l’Europa ancora stava tentando di riprendersi dalle piaghe e dal terrore lasciati dagli invasori mongoli penetrati fino alla Polonia, alla Boemia, all’Ungheria e alle coste dell’Adriatico orientale, dove ovunque i cavalieri dell’Orda avevano seminato panico e arrecato distruzioni. Per poi svanire all’improvviso, forse rientrati precipitosamente alle loro basi a motivo di una crisi di potere in atto.
Onde evitare una possibile altra ondata, l’Europa reagisce e si propone di stabilire relazioni per quanto sia pacifiche, affidandole alle missioni esplorative dei Minoriti nell’ambito di un programma che individuava nella diplomazia e negli obiettivi commerciali i risultati iniziali, pronti a essere estesi anche alla pianificazione pastorale. Dalla documentazione dei materiali francescani emergono le linee che hanno guidato il dialogo con l’Impero mongolo, articolate in una strategia comunicativa finalizzata alla reciproca comprensione e al tentativo di portare alla conversione. Ciò che sicuramente ottennero fu la disponibilità alla presenza cattolica e la libertà di svolgere l’attività di predicazione almeno presso i cristiani di ogni confessione.
Il viaggio di Guglielmo di Rubruck ha inizio nel 1253. Per due anni il frate fiammingo percorre i territori dell’Asia Centrale, attraversa la regione del Volga e raggiunge Qara Qorum, la centrale del potere mongolo del khan Sartaq. Sulla via del ritorno il monaco si ferma in Terrasanta dove, nel 1255, scrive l’Itinerarium: un resoconto ufficiale del viaggio in forma di lettera che possiede indubbie qualità narrative. Nella relazione vengono a essere sfatate le leggende diffuse in Occidente sui mostri che popolerebbero le regioni sconosciute dell’Asia, ma è presentata la realtà degli usi dei Mongoli, sono riportate le conversazioni intrattenute, e si è edotti dl perenne nomadismo di queste genti alle quali le città e le abitazioni stabili non appartengono. Il suo racconto trasmette lo spaesamento di fronte agli orizzonti senza fine delle steppe, per vedere in cambio l’immensità del cielo e della terra, in un orizzonte aperto, privo di boschi e di alture.
Odorico da Pordenone, al ritorno dal suo viaggio in Oriente, iniziato nel 1318 con la compagnia di fra’ Giacomo d’Irlanda, e completato con la permanenza a Pechino, avvenuta attorno agli anni 1323-26, ebbe modo di dettare a Padova, nel 1330, al confratello Guglielmo da Solagna, la Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum. Questo racconto, pur restato a lungo in forma manoscritta, fu tradotto in varie lingue vernacolari e divenne una delle più importanti fonti medievali per la conoscenza dell’Estremo Oriente. La stampa sarebbe avvenuta nel 1513 con il titolo di Odorichus de rebus incognitis.
Giovanni de’ Marignolli inserì la relazione sulla sua missione diplomatica in Cina e le informazioni storiche, geografiche e antropologiche sull’Asia nella complessa stratificazione della cronaca universale, Chronicon Bohemorum, redatto poco dopo il 1354, per ordine dell’Imperatore Carlo IV di Lussemburgo.
Si tratta dunque di un filone para-letterario parallelo al Milione che avrà una lunga sequela di derivazioni alla quale si congiungerà anche la scrittura dei missionari della Compagnia di Gesù, così come dei Domenicani e degli altri Ordini operativi nell’Estremo Oriente. Entrato nella progettualità riguardante i percorsi della pastorale verso l’Oriente dei cristiani Nestoriani, dei territori dominati dai Mongoli, così come del loro anelito di riunirsi alle leggendarie comunità cristiane disperse in Asia insieme al mitico regno del prete Gianni, il Mappamondo di Fra Mauro, del 1450, se ne ispira e cerca di renderlo proiezione cartografica dello spazio asiatico, mentre Cristoforo Colombo e Giovanni Caboto ne fanno uso nei loro viaggi esplorativi.
3- La rotta occidentale per le Indie
Gli Europei, alla fine del Cinquecento, ovvero in piena epoca dell’età delle esplorazioni, non sapevano ancora stabilire il rapporto fra la Cina dei Mìng e il Catai descritto da Marco Polo. Mancava la verifica della posizione del Catai, e restava in piedi la ricerca del regno cristiano fondato dal Prete Gianni al quale era attribuita la fondazione di un esteso dominio che, collocato dai più in Etiopia, da Marco Polo era stato individuato nell’altipiano mongolo.
Fra la caterva di enigmi irrisolti, oggetto di una riflessione utile alla comprensione di questo amalgama di terrae incognitae, va subito evidenziato il problema che, forse il più banale, si rivela essere certamente il maggiormente intrigante. Nel ricomporre il puzzle con i pezzi “datati” forniti dal Milione e con le informazioni “aggiornate” che saranno aggiunte dalla missionologia del Cinquecento e del Seicento, è tassativo che: – i nomi delle città mongole del primo vanno riportati a quelli cinesi, e quindi, ad es., Catai e Camblau ~ Cambaluc rispetto a Cina e Pechino (in Matteo Ricci è Pachino); – il titolo di Gran Cane dell’Orda dei Mongoli con quello di Imperatore (huángdì) della dinastia cinese Mìng allora in carica; – i Nestoriani, che all’epoca di Marco Polo erano in piena fioritura, a fronte degli «adoratori della croce», la sparuta comunità sopravvissuta di cristiani dei quali Ricci prende conoscenza, per darne notizia nel 1605.
Il testo poliano, a motivo della ricchezza di notizie sull’ignoto, è sempre stato utilizzato per tessere analogie fra situazioni parimenti esotiche. Una operazione cui è stato assoggettato, è quella dell’innesto della toponomastica del Milione nella geografia dell’“India” di Colombo. Il Catai si proiettava come un’ombra su Hispaniola e sulle altre isole che il grande ammiraglio genovese andava aggiungendo alla “sua” India, calcata sulle immagini del Milione. Colombo glossava la copia in latino in suo possesso con le corrispondenze fattuali da lui riscontrate – come ‹‹sete e stoffe in abbondanza›› – a dimostrazione della identità dei luoghi da lui scoperti con quelli di cui favoleggiava la descrizione del Catai.
La rotta dell’Occidente è un’ipotesi basata sulla rotondità della terra, riaffermata con l’aristotelismo del 1200, e professata infine da Paolo dal Pozzo Toscanelli (1397-1482). Sulla base della Geografia di Tolomeo, nota al Toscanelli nella edizione di Johannes Müller, detto Regiomontano, disegnò un planisfero, andato poi perduto, in cui ipotizzava di raggiungere le Indie attraverso l’Oceano Atlantico. Il suo calcolo, però, sottostimava in 10.000 km la distanza da percorrere, riducendola a circa la metà. Il Toscanelli sottopose i suoi risultati all’attenzione del re portoghese Alfonso V il quale respinse però il progetto giudicandolo troppo rischioso.
Questa ipotesi divenne una alternativa alla circumnavigazione dell’Africa. A partire dal tardo Quattrocento, essa ha cominciato a tentare i Portoghesi che miravano a giungere nell’estremo Oriente per la “via breve” lungo le autostrade marittime dell’Atlantico, dopo che il collegamento via terra era caduto in disuso con la fine dell’Impero mongolo.
Questa nuova sperimentazione, che darà l’avvio all’età delle grandi scoperte, ha rappresentato la grande acquisizione geografica, sfruttata con intuizione e anticipo dalla marineria portoghese sulle altre europee, con la quale si offrì la alternativa all’itinerario terrestre già percorso dai Francescani e da Marco Polo
Dopo i vani abboccamenti avuti con Giovanni II, il re del Portogallo successo ad Alfonso V, Cristoforo Colombo (1451-1506) riuscì, dopo lunghe attese, a trovare accoglienza presso la regina Isabella e a farsi dare credito, riguardo al progetto di “raggiungere l’Oriente per la via dell’Occidente”. Il Toscanelli era morto dieci anni prima.
In questa epoca, spinti dal cambio di prospettiva che si stava affermando, i geografi e i navigatori si misero all’opera per indicare itinerari più sicuri e rapidi. Quello che tuttavia nessuno immaginava era che fra l’Europa e le Indie si trovasse un altro continente.
Verso Ovest – Dalla Spagna e, con molta determinazione, dal Portogallo e, agli inizi con qualche remora, dall’Inghilterra, Francia e Olanda, si salpa per cercare di raggiungere “el oriente por el occidente”. Anche la Repubblica di Genova e, a Firenze, i Medici e il banchiere Francesco Bardi furono tentati a questa avventura, mentre Venezia continuava a guardare al Mediterraneo orientale. Pertanto:
Cristoforo Colombo sbarca a San Salvador il 12 ottobre 1492;
le mappe di Weimar, del 1530, e di Wolfenbüttel, del ’32, attribuiscono l’avvistamento a João Fernandes Lavrador (1453-1505)
Giovanni Caboto (1445/50-?1498) si avventura, per incarico del re inglese Enrico VII, in due spedizioni che, nel 1497 e nel ’98, lo dirigono verso le coste nord-orientali dell’Atlantico settentrionale;
Giovanni da Verrazzano (1485-1528), percorre per Francesco I di Francia la tratta che nel 1527 lo porta dalla Florida alla baia di New York e a New Brunswick; in immediata sequela sono i tre viaggi con i quali, fra gli anni 1534-42, Jacques Cartier aprì le esplorazioni verso l’interno dell’area orbitante attorno all’attuale Québec, da lui denominata Canada (probabilmente derivato dall’irochese kanata ‘insediamento’), nella convinzione di poter raggiungere, al di là delle rapide del fiume San Lorenzo chiamate in proposito La Chine, la Cina e il favoloso Royaume du Saguenay;
Amerigo Vespucci (1454-1512) descrive nelle lettere la terraferma della costa atlantica, esplorata nei due viaggi degli anni 1499-1500 e 1501-02, e le appone il sigillo di “nuovo mondo” (cfr. la lettera a lui attribuita Mundus novus, pubblicata ad Augusta nel 1504). Vespucci fu il primo a rendersi conto di essere in un continente non rispondente all’Asia che da lì a breve sarebbe stato narrato sotto le angolature più diverse. Al milanese Gerolamo Benzoni (1519-?1570) si deve uno delle sue prime presentazioni al pubblico europeo della realtà geografica ed etnografica con Historia del Mondo Nuovo, Venezia 1565.
Prima che Alberto Magnaghi, ne dimostrasse l’infondatezza (Amerigo Vespucci, Roma 1926), la data del primo sbarco del Vespucci era stata fissata il 24 giugno 1497, istituendo una coincidenza con il giorno in cui Caboto aveva posto piede nell’isola di Cap Breton, in Canada. Raccontò di essere al cospetto “della quarta parte della Terra”:
Arrivai alla terra degli Antipodi e riconobbi di essere al cospetto della quarta parte della Terra. Scoprii il continente abitato da una moltitudine di popoli e animali, più della nostra Europa, dell’Asia o della stessa Africa.
Fu la rapida diffusione delle lettere circolate a suo nome che indusse il cartografo Martin Waldseemüller (1470-1521, latinizzato in Hylacomilus) a usare il genere femminile (America) del suo nome latinizzato (Americus Vespucius), per indicare il nuovo continente, America sive Americi terra, in una carta del mondo in 12 fogli (Universalis Cosmographia secundum Ptolemaei traditionem et Americi Vesputii aliorumque lustrationes), che faceva da accompagnamento, insieme a un globo, al volume Cosmographiae introductio cum quibusdam geometriae ac astronomiae principiis ad eam rem necessariis, del 1507 (la copia superstite è conservata nella Biblioteca del Congresso a Washington).
All’origine il termine America indicava soltanto la porzione meridionale del continente.
Nel 1520 Ferdinando Magellano (Fernão de Magalhães – suo segretario era il vicentino Antonio Pigafetta), doppiando la punta estrema al largo della Terra del Fuoco (Estrecho de Todos los Santos, detto successivamente Stretto di Magellano), percorrerà il Pacifico e aprirà una nuova strada per l’Oriente, per navigare fino alle Filippine e da lì all’Oceano Indiano.
Verso Est – Dopo che Bartolomeo Diaz (Bartolomeu Dias) aveva superato, pur con difficoltà, nel 1487 l’estremità meridionale dell’Africa e aveva trovato il passaggio per l’Oriente (Capo di Buona Speranza – Cabo da Boa Esperança è il nome augurale dato dal re portogherese Giovanni II cambiando quello originario di Cabo Tormentoso), Vasco da Gama fra il 1497 e il ’99 raggiunse l’India, dove Goa diviene una importante base portoghese, e da lì si congiungeva all’Oceano Indiano.
A questo punto, essendosi data la possibilità di servirsi della superficie acquea predominante nel globo rispetto a quella terrestre, la rete delle comunicazioni marittime aveva mostrato la sua potenzialità.
Un’altra novità nella programmazione dei viaggi fu la modalità di arrivare al Capo di Buona Speranza evitando di circumnavigare l’Africa. In tal modo si sarebbe risparmiato tempo e si sarebbero evitati gli agguati dei corsari inglesi.
Allo scopo era stato elaborato un preciso protocollo di viaggio che fu tenuto segretato. La partenza dal Portogallo, da dove si salpa per l’Oriente, avviene fra marzo-aprile in direzione delle Azzorre sospinti dall’aliseo di nord-est – che si era mostrato utile nel viaggio di Colombo –, per passare ad ovest delle Canarie, onde evitare la bonaccia, e per farsi sospingere dalla corrente verso le Isole di Capo Verde dove si sostava per uno scalo tecnico. Da qui, anziché costeggiare tutto il continente africano, ci si fa trascinare dall’aliseo di sud-est ad ovest, allargando la rotta verso il Brasile per sfruttare i venti oltremodo favorevoli che, nonostante l’allargamento della curva della rotta, acceleravano notevolmente la navigazione per doppiare l’estrema punta australe dell’Africa.
4- La alternativa alla “via della seta”
In base a questa modifica dei percorsi marittimi, le navi – caravelle, caracche, galeoni – scomparivano dalla rotta della circumnavigazione dell’Africa, per seguire un tracciato apparentemente fuorviante, per poi presentarsi all’improvviso all’appuntamento sulla via dell’Oriente sospinte dal contro-flusso meridionale degli alisei, senza essersi sottoposti al rischio della bonaccia del mare equatoriale e delle correnti contrarie del Golfo della Guinea.
La virata verso l’America doveva essere impressa in un momento preciso, per non incorrere nel pericolo di essere trascinati dall’impeto delle acque sud-equatoriali e addirittura di approdare sulle coste americane. La navigazione nell’Oceano Indiano prevedeva, secondo la data di entrata, il passaggio all’interno del canale di Mozambico, se si fosse riusciti a superare il Capo di Buona Speranza a luglio, con una sosta per rifornimenti, per poi cogliere i monsoni di sud-ovest che avrebbe favorito il viaggio fino a Goa, dove si sarebbe approdati entro settembre-ottobre. Al ritorno da Goa, la partenza era prevista a dicembre-gennaio per sfruttare il monsone di nord-orientale e per seguire un itinerario soltanto in parte sovrapponibile a quello dell’andata.
Da Goa, il collegamento con Ceylon e l’Oceano Indiano, e quindi, nell’Oceano Pacifico, con l’arcipelago malese, le Filippine, con Formosa (Isla Formosa ‘Isola Bella’), la costa cinese, l’Amman, la Corea e il Giappone era ampiamente noto attraverso la pratica della marineria araba e indiana. Verso le Filippine aveva cominciato a confluire dalla prima metà del Cinquecento anche il commercio che dal Messico, oramai spagnolo, era stato avviato verso l’Oceano Pacifico.
Se le vie marittime erano aperte, il problema riguardante il raccordo con le vie terrestri restava privo di soluzione. Alla Compagnia di Gesù, come agli altri Ordini religiosi spettò di tentare e trovare la soluzione.
I Gesuiti stanziati in Oriente cominciano a supporre che il collegamento che permette ai mercanti musulmani di giungere in Cina per via terra possa corrispondere all’itinerario descritto da Marco Polo.
Matteo Ricci riflette sul problema almeno dal 1585 quando lavora su una ‹‹descritione di tutta la Cina›› (lettera al p. Claudio Acquaviva, Zhaoqing 20 ottobre 1585 – Ricci 2001, p. 103), ma ancora cerca di spiegarsi la altitudine: ‹‹non ho anco potuto sapere di certo Pachino quanto sta alto verso il settentrione […] per questo ho molto buon apparecchio delle tavole loro nei suoi libri, scritte molto diligentemente, ma senza gradi›› (Ricci 2001, p. 103).
Nel 1596 egli presenta la sua congettura portando a riprova alcune considerazioni derivate dal testo poliano, e afferma che Nanchino «metropoli e sedia regale antica della Cina […] penso essere il Cataio di Marco Polo […] e così il Cataio, al mio parere, non è di altro regno che della Cina» (lettera al p. Claudio Acquaviva, Nanchang 13 ottobre 1596 – Ricci 2001, pp. 339-340). L’argomentazione è oramai ben avviata anche se Nanchino, e non ancora Pechino, viene identificata con la Cambalù di Marco Polo.
Nel frattempo, attorno al 1600. gli studi cartografici permettono a Ricci di collocare la posizione della Cina fra il 19° e il 42° parallelo latitudine nord.
Nel 1598, durante il suo primo, breve soggiorno a Pechino (7 settembre – 5 novembre), Ricci dichiara l’identità delle due realtà geografiche (Entrata IV, 3 – Ricci 2000, pp. 282-288), anche se dovrà attendere qualche altro anno per avere la dimostrazione finale.
Nel 1608, Ricci riconferma la congettura del 1596, sicché può affermare che era riuscito ad avere «grande indicio che la Cina non era altro regno che il Cataio per gli inditij che Marco Polo dava». Questo incidio, cui Ricci aveva aggiunto, nel 1600, la identificazione cartografica, viene a essere corroborato dalle informazioni indirette ricevute da mercanti mori (lettera al p. Claudio Acquaviva, Pechino 8 marzo 1608 – Ricci 2001, pp. 473-474), ovvero che:
non vi essere nel mondo altro Cataio che la Cina, perché i Persiani non danno altro nome alla Cina che di Cataio, né chiamano con altro nome a Pachino che Cambalù. Laonde, confrontando tutti gli inditij, e vedendo non vi essere nessun dubbio così nel nome come nel numero delle città, costumi e altre cose, scrissi a V:P: et a tutti i nostri che stavamo nel Cataio.
L’apparato ricostruttivo basato su questo insieme ben congegnato viene a essere a questo punto confrontato con il dato sperimentale diretto.
Sempre nel 1608 Ricci invia al p. Claudio Acquaviva, Preposito Generale della Compagnia, il resoconto sulla impresa dal confratello portoghese Bento de Góis (lettera, Pechino 22 agosto 1608 – Ricci 2001, pp. 482-485).
Due giorni dopo, comunica anche al fratello la incredibile notizia (lettera al canonico Antonio M. Ricci di Macerata, Pechino 24 agosto 1608 – Ricci 2001, pp. 505-506):
Quest’anno passato si è affatto chiarito che la Cina è quel gran regno che gli antichi chiamorno Gran Cataio, e che il re della Cina è il Gran Cane, e la città di Pachino è il Camcalu, corte del Gran Cane, perché così è chiamato dai Mori e Tartari, per via de’ quali questo regno venne anticamente a notizia de’ nostri: ma essendo que’ nomi molto differenti ci diede occasione di dubitar. Ma i padri dell’India mandorno per terra un nostro fratello, per nome Benedetto, che sapeva la lingua persiana, a scoprire il Cataio, e dopo cinque anni arrivò ai confini di questo regno, et ritrovò essere l’istesso regno Cataio e Cina; ma per li molti travagli che patì, morì in Succeo, città ultima della Cina verso ponente.
5- Il viaggio sperimentale di Bento de Góis (1562-1607)
Il chiarimento cui alludono le lettere del 22 e del 24 agosto 1608 consiste nella conferma dell’ipotesi riguardo alla identità fra le due realtà geografiche del Catai e della Cina («l’istesso regno Cataio e Cina»). I calcoli effettuati, la prospettiva cartografica, le informazioni ottenute sono oramai resi certi dalla dimostrazione apportata dai risultati del viaggio di esplorazione compiuto da p. Bento de Góis (1562-1607).
Bento de Góis ha l’obiettivo della dimostrazione geografica; tuttavia a questa finalità scientifica si accompagnava l’aspettativa di trovare il regno cristiano del Prete Gianni.
Nell’ottobre del 1602, Bento de Góis, dopo aver lasciato Goa, partì, accompagnato dal confratello armeno Isaac, dalla città indiana di Agra per recarsi via terra verso la Cina cercando di attenersi, nei limiti del possibile e del probabile, alle indicazioni dell’itinerario che Marco Polo aveva seguito nel 1273. Sulle rotte delle carovaniere, egli percorse i passi afghani, passando per Agra, Lahore, Kabul (1603), Yarkland, Aksu (1604), Turfan (1605). Raggiunge, il giorno di Natale del 1605, Suzhou, città di confine fra la Mongolia e la Cina (attuale Jiuquan nella Provincia del Gansu). Stremato dalle fatiche di un percorso di ca. 6.400 km, minacciato e derubato di una parte del diario di viaggio, Bento de Góis è costretto a fermarsi, e, ammalatosi gravemente, due anni dopo morì.
Appena giunto a Suzhou, Bento de Góis, al fine di stabilire il contatto, e per chiedere soccorso, invia a Matteo Ricci, a Pechino, alcune missive. Ricevutane una dopo otto mesi, Ricci invia il p. Giovanni Fernandez, un confratello cinese, il quale impiega quasi un anno per arrivare a Suzhou. Giuntovi nel marzo del 1607, egli incontra Bento de Góis pochi giorni prima che questi esali l’ultimo respiro (Entrata V, 12-14 – Ricci 2000, pp. 510-535; lettera al p. Claudio Acquaviva, 8 marzo e 22 agosto 1608, al fratello il 24 agosto 1608). Giovanni Fernandez riprende il cammino in compagnia di Isaac in direzione di Pechino, dove i fogli del prezioso diario, messi in salvo dal sacrificio dell’eroico esploratore, sono finalmente consegnati a Ricci dal confratello armeno il quale integra le informazioni mancanti aggiungendo la sua testimonianza.
Quasi cento anni dopo che il Vespucci aveva dimostrato che le terre identificate da Colombo con le Indie erano parte di un “Mundus novus”, in ragione di tale prova ultima tanto attesa, il Catai finì per uscire dall’orizzonte, lasciando il posto alla sola Cina.
(Il testo è stato letto nel ciclo delle Conferenze della Fondazione Carletti Bonucci)
L'autore
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Diego Poli, professore Emerito, è stato professore ordinario presso l'Università di Macerata di Glottologia e linguistica. Negli anni 1990-96 ha ricoperto la carica di Preside della Facoltà di Lettere e filosofia per due mandati consecutivi. È stato dapprima Segretario e successivamente Presidente della Società italiana di glottologia (SIG) in carica per il biennio 2001-2002. È attualmente Direttore della Collana “Episteme” (Editrice il Calamo di Roma) e della “Rivista italiana di linguistica e di dialettologia” (Fabrizio Serra Editore, già I.E.P.I., di Roma - Pisa). Ha organizzato numerosi convegni, tra i quali si segnalano fra i più recenti: “Cristina di Svezia e la cultura delle accademie” (2003), “La lingua del teatro fra d’Annunzio e Pirandello” (2004, in collaborazione con L. Melosi), “L’Oriente nella cultura dell’Occidente” (2004, in collaborazione con D. Maggi e M. Pucciarelli), “Lessicologia e metalinguaggio” (2005), “Annibal Caro a cinquecento anni dalla nascita” (2007), “I linguaggi del Futurismo” (2010), “Le Marche terra di elezione di G.G. Belli” (2015, in collaborazione con M. Baleani), “In limine - Frontiere e integrazioni” (2018), “Gli universali in linguistica” (2018). Si occupa di linguistica storica (in particolare classica, celtica e germanica), etimologia, dialettologia, retorica, storia della lingua latina, storia della lingua inglese, antico nordico, fonetica e fonologia, storia della linguistica, storia della grammatica nel Medioevo, etnolinguistica. Ha inoltre studiato la speculazione linguistica in Dante, Annibal Caro, Leopardi, Belli, nel Futurismo e ha approfondito le istanze linguistiche nel pensiero della Compagnia di Gesù dei secoli XVI-XVIII, in particolar modo in riferimento alle figure di Matteo Ricci e di José de Acosta. È membre d’honneur della “Société belge d’études celtiques” dal 1995. È eletto, nell’adunanza del 24 marzo 2012, socio corrispondente non residente dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti per la Classe di scienze morali, lettere e arti. È dichiarato socio honorario della “Asociación de docentes e investigadores de lengua y literatura italiana” dell’Argentina (ADILLI) nel settembre 2012. Il 25 ottobre 2013 è insignito dal Cardinale di Milano, S.E. Angelo Scola, del titolo di Accademico ambrosiano. Nel maggio del 2021 è cooptato nella Accademia degli Agiati di Rovereto. Gli è conferito il titolo di “professore Emerito” dal Ministro dell’Università e della ricerca, prof.ssa Maria C. Messa, con Decreto 0000071 del 18 gennaio 2022.