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In ricordo di Grazia Marchianò

Nessuno di noi immaginava di trovarsi qui, oggi, per ricordare Grazia. Perché ricordare un’amica, e in questo caso una studiosa, una collega, che ci ha lasciati, è sempre una circostanza che preferiamo non immaginare: ma questa volta Grazia ci ha combinato un brutto scherzo, lasciandoci senza nessun preavviso. Le piacevano le improvvisate. Ricordo la sorpresa che volle farci, pochi giorni dopo la scomparsa di Elémire, raggiungendo Monica nella clinica di Tarquinia, per festeggiare lei e Corinna, nata il giorno prima, in quei primi di giugno del 2002.

Sono ricordi indelebili e molto privati, ma mi sembra giusto renderli pubblici, oggi, per rendere testimonianza alla generosità di cui era capace. Non tutti ricorderanno questo tratto del suo carattere: era anche ruvida, Grazia, aveva una sua durezza, nei giudizi personali, nelle scelte di vita. Una durezza che non era solo esteriore, ma rifletteva qualcosa di profondo, una tenacia e una robustezza simile all’acciaio. È anche per questo che la sua scomparsa ci ha colti di sorpresa: perché non ci aspettiamo che l’acciaio possa piegarsi di colpo.

Sempre attingendo ai ricordi privati – e mi sembra il modo più affettuoso per ricordarla -, non riesco a dimenticare il suo ritorno dal Giappone, molti anni fa, dopo un tirocinio monastico durissimo che l’aveva segnata ma non piegata. Già l’idea di intraprendere, tutt’altro che giovanissima, un’esperienza di quel genere, in una località impervia e sotto una disciplina inflessibile, poteva nascere solo da un’anima altrettanto impervia e inflessibile. Un’anima, per dire una cosa ovvia, alla ricerca dell’Assoluto. Dal Giappone volle portarci dei piccoli doni: quelle cose leggere, quasi immateriali, che la cultura giapponese ama forse più di ogni altra cultura al mondo. Pur essendo, e forse proprio per questo, la cultura dei samurai. Quella cultura dove i più paurosi combattimenti si abbinano a copricapi ornamentali di una infinita raffinatezza. Grazia era questo: una donna d’acciaio capace di una grande raffinatezza, nei gesti e nel pensiero. Era questo, credo, ad attirarla verso il Giappone, oltre alla fascinazione dello shugendo, la fusione perfetta tra una visione combattiva della vita, la più implacabile severità verso sé stessi, e l’impalpabile bellezza delle cose anche minime, la dimensione dell’iki.

Credo che ci fosse qualcosa di ascetico, di interno a questo programma di vita, nella sua dedizione assoluta all’opera di Elémire Zolla, dopo la sua morte: curarne volume dopo volume l’opera completa, restando in certo modo nell’ombra, per dedicare le sue energie – che apparivano peraltro inesauribili – alla fortuna postuma dello studioso e allo scrittore.

Eppure, sappiamo che fu proprio lei a riorientare gli studi di Elémire Zolla, a indirizzarli verso l’Oriente intorno alla metà degli anni ’80: segnandone così il percorso non solo sul piano affettivo, personale, ma sul piano propriamente spirituale. Un piano sul quale Grazia era più esigente di Elémire. Mentre lui, pellegrino instancabile e scrittore affascinante, non volle mai legarsi a una scelta di vita impegnativa, aderire a una tradizione particolare, a una Via specifica, Grazia ne avvertiva imperiosa l’esigenza, e il Giappone le diede una risposta forse non definitiva.

Ci fu infatti, nella vita di Grazia dopo l’esperienza giapponese, un «ritorno a Occidente». Senza mai rinnegare la prospettiva universale, dell’incontro fecondo tra i due mondi, Grazia incominciava a riscoprire i tesori di Occidente. Un ultimo ricordo personale: una telefonata in cui mi parlò del suo interesse appassionato per il Rinascimento fiorentino in particolare, per l’opera di Filippo Brunelleschi, sospesa tra il contemplare neoplatonico e il fare artigianale, il genio fabbrile, tipicamente italico. Era anche un ritorno all’Italia, dopo i molti Orienti.

Non è il caso di aggiungere altre parole. Grazia è passata, in totale solitudine, al «grand côté des choses». La sua ricerca instancabile, la sua quête, non potrà essere senza frutto: né per noi né per lei, nel più misterioso dei modi.

Montepulciano, 16 aprile 2024

 

L'autore

Flavio Cuniberto
Flavio Piero Cuniberto insegna Estetica all’Università di Perugia. Ha studiato a Torino, a Monaco di Baviera e a Berlino. Il filo rosso della sua ricerca, dalle molte facce (la cultura tedesca tra l’età barocca e il ‘900, il platonismo classico e post-classico, la storia dell’arte occidentale come repertorio di stili e di temi simbolici, le ideologie politiche) è lo studio della modernità come civiltà «anomala», definita da un programmatico allontanamento dal mondo tradizionale. E quindi, rovesciando la prospettiva, lo studio delle «tracce», delle persistenze di un orizzonte tradizionale - dove non c’è esperienza profana che non rimandi a un archetipo sacro, metastorico – nella stessa modernità. Tra le sue pubblicazioni più recenti: La foresta incantata. Patologia della Germania moderna (Quodlibet 2010); Il Vortice Estetico. Elementi per un’estetica generale (Morlacchi 2015), I paesaggi del Regno (Neri Pozza 2017), Strategie imperiali. America, Germania, Europa (Quodlibet 2019),  Viaggio in Italia (Neri Pozza 2020), L’onda anomala. Cronaca filosofica della pandemia (Medusa 2021).