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Pasolini torna a Mosca. Dialogo con Alessio Bergamo  

Alessio Bergamo, regista, pedagogo di regia teatrale e arte dell’attore, studioso di teatro, è nato il 16 gennaio 1964. Si è formato lavorando come assistente regista di Anatolij Vasil’ev, dal 1990 al 1997, nei molti progetti congiunti che all’epoca il Maestro aveva con l’Italia. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia Teoria e Tecnica del Teatro e dello Spettacolo presso la Sapienza con il prof. Ferruccio Marotti. Ha fatto le sue prime esperienze nella pedagogia teatrale affiancando il pedagogo Jurij Alschitz nella sua attività laboratoriale tra il 1996 e il 1998. Come regista ha messo in scena spettacoli soprattutto all’estero (Russia: Teatro Okolo e Teatro “Scuola d’arte drammatica” di Mosca, Teatro Lensoviet di Pietroburgo, Teatro Gorkij di Vologda, Teatro Nazionale di Petrozavodsk; Ucraina: Teatro Ucraino di Odessa; Estonia: Veneteater di Tallinn), ma anche in Italia (Teatro Nazionale della Toscana, Fattore K, Asinitas-Teatro di Roma, Khora Teatro-Mauri/Sturno, Postop, Cantiere Obraz-Teatro dell’Elce-Teatro Solare), lavorando su testi di Pirandello, Gogol’, Lope De Vega, Calderon de la Barca, Pasolini, Brecht, Gozzi, Goldoni, Majakovskij, Kundera, Gogol’ e altri, e anche su alcuni progetti puramente performativi come quello sulla Passione secondo Matteo di J. S. Bach. Come pedagogo ha insegnato arte dell’attore in diverse scuole di teatro italiane (ANAD Silvio D’Amico, Scuola Civica Paolo Grassi, Scuola Galante Garrone di Bologna, Scuola di perfezionamento del Teatro di Roma, Accademia Nico Pepe di Udine, Eutheca, Centro Internazionale “La Cometa”) e all’estero (Istituto Statale Panrusso di Cinema di Mosca; Rose Brufford College, Kent; SCUT – centro teatrale scandinavo; AKT-ZENT, Berlino; Ushuaia, Argentina). Ha avuto ruoli di amministrazione e di progettazione della didattica e della produzione teatrale all’interno di diverse scuole teatrali con cui ha collaborato, e per i progetti del gruppo POSTOP. Ha svolto attività di docenza teorica presso l’Università della Tuscia e attualmente è docente di Discipline dello spettacolo presso l’Università della Calabria e presso l’Accademia di Belle Arti di Frosinone, ed è intervenuto in diversi congressi internazionali (Praga, Aarhus). Ha pubblicato monografie, curatele, traduzioni, articoli in riviste italiane di fascia A e in riviste internazionali. Dal 2009 dirige in Italia la compagnia POSTOP.

Nel 2001 è apparsa la pubblicazione della prima traduzione in russo di Affabulazione, a cura tua e di Raissa Raskina (in Poterjannye p’esy, Akademičeskie tetradi Mosca 2001), traduzione legata alla messa in scena di quest’opera presso il Teatr Okolo Doma Stanislavskogo di Mosca. Perché scegliesti di tradurre e di mettere in scena a Mosca proprio Pasolini e proprio Affabulazione?

Buona domanda. E chi se lo ricorda? Cioè mi ricordo delle ragioni che presiedettero alla scelta di Affabulazione. Meno quelle legate alla scelta di Pasolini. Ci provo. Pasolini era un fatto al tempo stesso privato e politico. A quell’epoca ero fortemente a cavallo tra Russia e Italia. Più in Russia che in Italia. E Pasolini, direi, fa parte del mio DNA culturale. Cioè è una figura con cui sono cresciuto, che ho sempre amato. Sin dall’adolescenza. Per i suoi film (soprattutto quelli “neorealisti”, e per i suoi romanzi – credo di aver letto Una vita violenta a 16 anni, su per giù). Mi ricordo che quando arrivai per la prima volta in Russia, nel 1989, riuscii a farmi mandare una cassetta di Accattone per mostrarla agli amici. Fu un fallimento. C’erano una serie di congiunture private sfavorevoli, e poi il mio russo all’epoca ancora abbastanza primitivo trasformava tutto il complesso lessico romanesco in due tre parolacce. Ma il problema non era solo questo. Ho sempre avuto la sensazione che se c’era una grande affinità d’anima, profonda, con i russi, c’era anche una totale incompatibilità culturale. Una lontananza altrettanto profonda. Dell’Italia amavano regolarmente le cose che disprezzavo: il pop anni ‘80, Zeffirelli, ecc. Tra le cose che non conoscevano o comunque non capivano, mi sembrava ci fosse proprio Pasolini. Mi sembrava fosse visto più che altro come un tipo scandaloso, che aveva fatto cose sporche, pervertite. Come “Salò”. Inarrivabile, ad esempio, per i russi dell’epoca e forse ancora oggi, era l’odio di Pasolini per la borghesia. Così come, sostanzialmente, era sospetto il suo amore per la Russia. In realtà, in quanto paese proletario e proletarizzato la dialettica borghesia/proletariato non era proprio concepita in Russia. Forse gli intellettuali concepiscono la dialettica čern’/ljudi; bydlo/inteligencija  [“čern’” viene dalla parola “čërnyj”, cioè “nero”; indica il popolo inteso come massa oscurantista, ignorante, nera come la terra, indistinta, qualcosa che sta tra il branco e il gregge. “Ljudy” significa “persone” ma in questa contrapposizione assume la valenza di “esseri umani degni di questo nome”. “Bydlo” significa di nuovo popolo ottuso, ignorante, stupido, che segue ciecamente le disposizioni del potere; “intelligencija” significa quello che significa anche in italiano]. I russi in genere, soprattutto oggi e soprattutto quelli degli strati più popolari, concepiscono l’alternativa russi/europei, e la concepiscono male, in termini nevrotici e narcisistici, ma non quella popolo/borghesia. Non sanno proprio cos’è la borghesia. L’unica borghesia che hanno conosciuto è quella dei “nuovi russi”, ma è tutt’altra borghesia rispetto a quella di Pasolini – è una borghesia nata senza radici, sul consumismo, da un giorno all’altro, e nulla ha dei criteri di sistematizzazione del Novecento italiano e di Pasolini. Insomma la sensazione è che dalla fine degli anni Ottanta in poi i russi siano creature che appartengono a quella che tanto Pasolini-Wells (autocitandosi in La ricotta), tanto quello stronzo di Fukuyama (lui in termini trionfalistici) definiscono “dopostoria”, cioè la storia del mondo in cui il modello consumistico ha travolto le dialettiche di classe. D’altronde, quando sono arrivato in Russia il loro (dei russi) essere proletari non era più una condizione dialettica. Non avevano più idea di cosa fosse lo zarismo, la borghesia, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Non capivano più Majakovskij né la rivoluzione. Vedevano tutto questo solo con gli occhi del disprezzo per il potere del partito. Vedevano l’arte rivoluzionaria solo come arte di konjunkturshiki  [coloro che adattano il loro operare e la loro creatività alla “congiuntura” politica, opportunisti] da parte degli artisti, e come giustificazione propagandistica della propria prepotenza da parte del potere. Quindi come potevano capire Pasolini? Come capire me, iscritto al PCI?

Per l’Italia Pasolini invece è sempre stata una figura centrale. Uno di quegli intellettuali-poeti-profeti che in Russia abbondano e in Italia scarseggiano (Dante, Leopardi, Pasolini, direi. Manzoni ci ha provato, e ci è riuscito in forza della sua posizione sistematicamente moderata). E ci tenevo a metterlo in circolo con gli occhi di un italiano. Era quasi una piccola operazione di proselitismo. Il mio era sicuramente un afflato superomistico, e assolutamente fuori luogo, ma pensavo di fare un’operazione meritoria. E per di più cercavo anche un ponte privato tra la scelta che stavo facendo di trasferirmi a vivere in Russia e il mio essere italiano. Cioè un qualcosa che io amavo tanto in Italia e che aveva senso fare in Russia. Poi c’erano ragioni sostanzialmente economiche. In quanto regista italiano mi si chiedevano spettacoli di autori italiani (ma io ovviamente amavo quegli autori italiani che i russi non amavano: Pirandello, Pasolini… Per cercare una più facile commerciabilità, avrei dovuto mettere in scena De Benedetti o Nicolai. Con loro avrei trovato facilmente un finanziamento. Forse anche Eduardo sarebbe andato bene, ma anche Eduardo, con il suo pauperismo e impegno sociale, all’epoca non era troppo frequentato. Era molto amato negli anni ’60 e agli inizi dei ‘70, ma non ebbi occasione di vederlo rappresentato negli anni ‘80-’90. Infine trovai la possibilità di un finanziamento del centro di cultura italiano di Mosca, grazie ad un periodo di vacanza della direzione, e quindi ad un contatto personale che riuscii ad avere con un funzionario dell’ambasciata di cui non ricordo più il nome, che evidentemente non era agganciato a giri più costituiti e aveva le porte più aperte. Sicché lo spettacolo era autofinanziato. Avevo tre attori amici in quel teatro, ex attori di Vasil’ev: Jurij Kantomirov, che interpretò il Figlio; Vladimir Khrabrov, che faceva Sofocle e Cacarella, e Aleksandr Zyblev, che però abbandonò il progetto. Quindi mi diressi lì e contattai il direttore artistico, Jurij Pogrebničko (del quale poi vidi diversi spettacoli che mi piacquero tantissimo. Uno stile particolare…).

Perché la scelta cadde su Affabulazione? Boh, direi che c’erano ragioni prettamente teatrali. E forse di affinità personale. Pilade lo trovavo troppo lungo e specificamente connesso alla realtà politica italiana. Anche Calderon non era rappresentabile, legato alla storia spagnola, e improponibile nella temperie russa del 2000 per il finale con le bandiere rosse. Orgia mi attraeva, ma me lo immaginavo un testo difficile in Russia, e poi non ho mai amato fare spettacoli con due-tre attori (mi sembra che in teatro sia indispensabile l’ensemble). Bestia da stile non lo capivo, e quindi non mi sembrava la variante migliore da affrontare per fare uno spettacolo in Russia. Rimanevano quindi Porcile e Affabulazione. Non ricordo cosa mi spinse proprio su Affabulazione, ma credo forse la sensazione di potermici orientare meglio.

Ci parleresti del lavoro fatto per la messa in scena di Affabulazione?

……..

Cara Francesca, i puntini di sospensione indicano un tempo lungo durante il quale la nostra intervista si è interrotta. Voler rispondere a questa tua domanda mi ha costretto a ricercare nella memoria, nei faldoni, tra le carte, riconnettere pezzi, dare senso a foto di gruppo e, infine, anche fare domande quegli attori con cui ero ancora in contatto (scoprendo tra l’altro che purtroppo nel frattempo due attori del cast erano morti). Una volta conclusa l’opera e ricostruito quanto potevo nella memoria, e non è stato breve, ecco che mi sono fortunosamente imbattuto nelle due “mini-dv” che credevo perse, contenenti il filmato dello spettacolo. Le ho riversate e l’ho guardato. Dopo 24 anni…. Ho dovuto ammettere che la mia ricostruzione aveva lasciato per strada un sacco di pezzi. Anche importanti.

E dunque.

Lo spettacolo era diviso in due parti da un intervallo. La prima era composta dal prologo e dai primi 5 episodi, la seconda dagli ultimi 3 e dall’epilogo. Insomma, c’era una linea di cesura tra la parte più realistica, quella che avviene nella casa, nella famiglia, nei rapporti familiari, e quella più onirica, che comincia con la comparsa di Sofocle e segue con la visita dalla Negromante e alla nuova Ragazza del Figlio, sino al finale tragico e all’Epilogo, ambientato vent’anni dopo. Lo spazio scenico era a pianta centrale, come si suol dire, cioè disposto tra due file di spettatori posizionate una di fronte all’altra sui due lati lunghi di un rettangolo e distanti non più di 6 metri (gli attori quindi erano vicinissimi al pubblico e tra loro non c’era alcun diaframma). Lungo i due lati corti del rettangolo c’erano due luoghi deputati che delimitavano lo spazio: da una parte, rialzata di una cinquantina di centimetri, c’era una casetta-cubo di assi di legno (che non erano attaccate l’una all’altra, ma inframezzate da spazi; insomma, ci si poteva vedere attraverso… e illuminare attraverso); dall’altra un fondale celeste coperto con due quinte nere distanziate al centro tra loro di circa 30 cm. Sicché tra il nero sbucava in una fessura il celeste che ogni tanto si illuminava più intensamente. La statuetta di un uomo, modellata in stile greco, era posta alla base di questa fessura. E sopra sporgeva in controluce un ramo, d’ulivo forse… Per associazione questo fondale evocava una natura mediterranea (tanto più che da lì appariva Sofocle nel Prologo). Da davanti a questo spazio partiva un binario che dopo un metro andava a infilarsi sotto la pedana centrale del palco. La casetta-cubo aveva al suo centro un tavolo con sotto un vecchio apparato per radioamatori che faceva la funzione dello stereo nel secondo episodio e che con le sue lucette verdi sembrava una sorta di alieno in visita. Alla sinistra c’era una colonna senza capitello, alta circa 180 cm. Le sue pareti erano apribili e chiudibili e avevano delle porte e delle finestrelle, il che le conferiva diverse possibilità di articolazione.

Nei primi episodi la casetta rappresentava la casa padronale. L’essere da un lato e rialzata, però, in qualche maniera, la configurava anche come teatrino disposto all’interno dello spazio scenico, come spazio metateatrale. Utile soprattutto alla prima parte, dove la teatralità dei comportamenti del Padre (interpretato dall’attore Vladimir Bogdanov, che purtroppo oggi non c’è più) crea una sorta di parodia della commedia borghese. In questa prima parte, nel suo complesso, lo spazio era utilizzato in termini “realistici”, con la zona centrale del palco che veniva ad essere il giardino della casa. Su un lato di questo “giardino”, però, c’era anche una sorta di botola/pozzo aperta, piuttosto profonda e assolutamente ingiustificabile dal punto di vista “realistico”.

Nella seconda parte lo spazio cambiava sia per come veniva abitato dai personaggi (tanto che la casetta non era quasi più utilizzata e le azioni si svolgevano quasi tutte nello spazio centrale) sia per la sua configurazione. Durante l’intervallo il binario veniva scoperto ancora per qualche metro e la botola/pozzo a cui si è accennato prima, si allargava e allungava andando a formare come un corridoio sotterraneo che tagliava tutto lo spazio centrale con un disegno a L (con il lato corto dalla parte della casetta). Questo spazio “infero” veniva usato piuttosto intensamente. Nel V episodio da questa fessura sbucava Sofocle e tutta la sua scena era caratterizzata dal suo entrarne e uscirne. Nell’ottavo episodio il Padre vi si “nascondeva” (ne sporgeva però per metà busto e quindi era visibile da tutti, personaggi compresi) per spiare il dialogo tra il Figlio (Jurij Kantomirov) e la Ragazza (l’attrice Elena Kobzar’) che precede il loro andare fuori scena a far l’amore. Nell’Epilogo entravano e uscivano da questa fessura anche Cacarella e un bambino, di cui scrivo più avanti.

Un ulteriore mutamento di spazio, questa volta “a vista”, avveniva nel finale durante l’ottavo episodio e con il passaggio all’Epilogo: il Figlio e la Ragazza escono di scena per far l’amore, il Padre un po’ li spia, un po’ si interrompe per parlare con il pubblico. Mentre parla, toglie diverse tavole che sono sul palco e che, si scopre ora, nascondono la prosecuzione del binario. Quando finisce questa operazione, vediamo che la casetta è sulle ruote ed è collegata dal binario con lo spazio dall’altra parte del palco, quello dove c’è la striscia di cielo azzurro e la statuetta. Per fare irruzione nella camera dove il Figlio sta facendo l’amore con la Ragazza e ucciderlo, il Padre prende il coltello, da una spinta alla casetta e quella, sfruttando il dislivello col palco, corre sui binari attraversando da una parte all’altra la scena e passando a pochi centimetri dai piedi degli spettatori (mai mi permetterebbero una cosa del genere oggi…). Arrivata in fondo alla sua corsa le luci si spegnevano e quando si riaccendevano, quello che si vedeva era l’ultimo spazio dello spettacolo, quello dell’Epilogo, ambientato vent’anni dopo: il retro della casetta aveva l’aspetto di un vagone merci abbandonato e dallo sportello scorrevole aperto si affacciava il Padre, ormai divenuto un barbone. Di fronte al vagone lo spazio teatrale prima coperto dalla casetta era scoperto e lì era seduto Cacarella. Durante questa scena la fessura nel pavimento veniva ancora utilizzata sia dallo stesso Cacarella che dal Figlio che di lì scompariva dopo essere uscito dal vagone, aver accarezzato il Padre sulla testa e avergli raccomandato di rientrare nel vagone perché stava per piovere. Durante quest’ultima apparizione il Figlio aveva delle ali da angelo. Dopo un altro segmento di monologo del Padre, pronunciato a questo punto da dentro il vagone, compariva di nuovo dalla fessura nel palco Cacarella che dall’esterno chiudeva dentro il Padre e usciva di scena, gesto questo che non poteva che associarsi alla chiusura di un vagone piombato.

All’azione partecipava anche un Bambino (Egor Pavlov, figlio dell’interprete della Ragazza). Nel Prologo l’attore che faceva il Padre entrava in scena e si stendeva “a vista” sul tavolato con gli occhi chiusi. Dalla parte del fondale con la luce azzurra compariva invece Sofocle, sui coturni, con una corona d’alloro dorata in testa e una sorta di trench malandato addosso. Aveva una palla da calcio in mano. Alla fine del breve Prologo compariva un bambino di circa 11 anni vestito da marinaretto (così da evocare in qualche maniera gli anni Dieci-Venti) che si disponeva davanti a Sofocle. Questi dall’alto (l’attore Khrabrov è alto, ma coi coturni arrivava tranquillamente a più di 2 mt) gli faceva cadere in mano la palla e usciva. Il bambino, palleggiando come si fa nel basket, arrivava sino al punto dove dormiva il Padre e faceva cadere la palla nella botola/pozzo. La palla “misteriosamente” ritornava su senza aver fatto nessun rumore (ovviamente c’era un attore che la prendeva e la rimandava) e lui, continuando a palleggiare, scavalcava il Padre e usciva. Cominciava il monologo in sogno del I episodio del Padre. Il bambino rappresentava il ragazzo che il Padre vede giocare a pallone nel sogno con cui si apre l’opera, e che poi ricerca ossessivamente nel Figlio. Anche il Figlio, quando entrava in scena, aveva in mano quello stesso pallone (nel testo il Padre lo vede apparire da lontano, mentre sta cercando un pallone tra i cespugli) e anche lui gioca a buttare la palla nel pozzo e a riprenderla. Questo bambino compariva ancora nell’epilogo: passava giocando a camminare su uno solo dei binari (azione che aveva provato a fare prima di lui, senza riuscirci, la Madre e con maggior successo e divertimento avevano fatto la Ragazza e il Figlio nell’ottavo episodio) e poi entrava nella fessura del pavimento per scomparirvi.

Nella prima parte i costumi (curati da Vadim Andreev, costumista del teatro di Vasil’ev) erano vagamente anni ’60, ma senza particolari accentuazioni. Faceva eccezione il prete (interpretato da Anton Alekseev, che interpretava anche l’ispettore e il ferroviere) – si avvolgeva il collo con una stola, come fosse una sciarpa e inoltre aveva una lunghissima sciarpa verde nascosta sotto la tonaca. Verso la conclusione della scena l’attore la “sganciava”, così che quando il prete si avviava verso l’uscita, si vedeva dietro di lui una lunga striscia verde (una sorta di segno diabolico, diciamo così, e al tempo stesso comico). Questo nella prima parte. Nella seconda parte i costumi cambiavano. L’unico costume che rimaneva realisticamente adeguato all’epoca era quello del Padre, gli altri acquisivano un sapore teatrale, vagamente fiabesco e, comunque, spostato nel tempo. Sofocle era in qualcosa che assomigliava ad un tight, con una tuba e con all’occhiello una rametto d’olivo in oro. La Negromante (interpretata da Natalija Krupinova, che ricopriva pure il ruolo della Madre e che anche lei, oggi, purtroppo, non c’è più) aveva una maschera di legno, che richiamava vagamente una maschera rituale, e un vestito bianco vaporoso ottocentesco. Anche la Ragazza aveva un costume verde largo, un po’ da personaggio di una fiaba, di foggia tra il Sette e l’Ottocentesco e coppie di ciliegie a mo’ di orecchino (gliele portava il Figlio che in quell’episodio dice alla Ragazza di essere nato  “tra un po’ di amici e alberi di ciliege” e al tempo stesso volevo cogliere l’occasione per metterci un omaggio a Che cosa sono le nuvole?). Il Figlio aveva una marsina gialla in stile XVIII secolo. Il ferroviere era effettivamente vestito da ferroviere, e il vestito di Cacarella, interpretato da Khrabrov, cioè dallo stesso attore che interpretava Sofocle, era simile a quello usato per Sofocle nel Prologo, ma con dei segni di degrado: un trench malandato, al posto dei coturni -delle ciabatte, al posto di una corona d’oro – una corona di edera verde.

Oltre alla ricetrasmittente/stereo, non c’erano oggetti particolari. Mi ricordo che con lo scenografo Vladimir Kovalčuk (anche lui conosciuto nel teatro di Vasil’ev) ci dispiacemmo poi che dalle fessure disposte sul lato lungo della L non avessimo fatto comparire un centauro. E non mi ricordo che statuina fosse quella che era nella fessura del fondale dalla parte opposta della casetta. Su una parete laterale dietro a dove era seduta la Negromante, venivano proiettate anche delle immagini. Erano immagini che rappresentavano il Figlio in due ipostasi diverse: la faccia di un ragazzo di un qualche quadro quattrocentesco, per quando lei dice che in questo momento il Figlio si trova in un angolo di Milano che ricorda Napoli; un’immagine tipo quella di uno sportivo raffigurato in stile fascista, per quando lei dice che la foto del Figlio le ricorda quelle che si mettono sulle tombe dei soldati e rivela al Padre che in quel momento lui non si trova davanti a lei, ma è impegnato con altri politici e industriali ad organizzare una nuova guerra. Ricordo ancora che il coltello – retrattile – era nascosto in un fodero a forma di pene. Era un oggetto-scherzo. Da cui il Padre prendeva distanza per il suo cattivo gusto e il Figlio lo prendeva come un oggetto buffo che aveva chiesto per scherzo.

Nel complesso lo spettacolo era pieno d’ironia. Volevo far sì che gli attori fossero distanti dai loro personaggi. In particolare nella prima parte lo spettacolo assumeva tinte comiche.

Come succede sempre nei miei spettacoli, nei momenti chiave c’era la musica. Peraltro non amo la musica come tappeto d’atmosfera di sottofondo, e non l’ho mai usata in questo senso – inserisco sempre pezzi musicali conclusi. Potendo, li metto in funzione diegetica – sia eseguiti dal vivo, sia riprodotti direttamente da apparecchi disposti in scena e attivati a vista dagli attori. Però a volte uso anche direttamente le registrazioni inviate dalla regia. Si tratta comunque di pezzi musicali che, oltre a condizionare l’atmosfera, portano, diciamo così, una parola nello spettacolo. Hanno insomma un contenuto specifico che entra in dialettica con quello che succede sulla scena. A volte a contrasto, a dissonanza; a volte per orientare la ricezione di quello che succede. In Affabulazione ce ne sono diversi. Non tutti riusciti od opportuni, col senno di poi. Nel rapporto tra Padre e Ragazza compare la Traviata. Nella prima parte, il Padre, quando arrivava la Ragazza del Figlio, toccava per errore il tavolo che occupava il centro della casetta e quello, come se fosse un qualche apparecchio, cominciava a riprodurre un brano della Traviata in russo (quello in cui Germont intimidisce Violetta – “D’Alfredo il Padre in me vedete – Voi? – Sì, dell’incauto che a ruina corre ammaliato da voi”).  La musica s’interrompeva subito con un altro tocco del tavolo dalla parte del Padre, questa volta volontario. Ma questo era uno scherzo, più che altro, intonato all’ironia che segnava tutto lo spettacolo e quella parte in particolare. Poi la Traviata ricompariva nell’ultimo episodio, come proiezione del rapporto d’amore tra il Figlio e la Ragazza, secondo il Padre. Un altro uso ironico era quello dell’inno russo inserito da Mussorgskij nel Boris (“Slava!”, cioè “Gloria!”), che suonava quando il Padre si accingeva a masturbarsi. Anche un paio di inserti del Requiem di Verdi, avevano questo intento ironico. Più significative erano altre musiche. Quando facendo saltare la palla sulla mano compare in scena il Figlio risuona il primo corale della Passione secondo Giovanni di Bach e quando nell’Epilogo il Figlio-angelo passava per uscire di scena c’era il tema delle Variazioni Goldberg. Quando il vagone si lanciava per la sua corsa attraverso il palco, partiva una registrazione d’epoca di Die fahne hoch, famoso inno delle SS. La scena della Negromante era introdotta e accompagnata per un pezzo dalla Tarantella del Gargano di Daniele Sepe e Brunella Selo (associata al tema di Napoli che attraversa l’opera ed è connesso con il Figlio: la Madre è napoletana, il Figlio va a vivere in un angolo di Milano i cui colori sono «degni di Napoli nel cuore dell’estate», la Negromante intuisce nel Figlio qualcosa di napoletano… dove Napoli – SEMPLIFICO!!! – è una sorta di istintuale, di archetipico vitalistico-sessuale e semiproletario che si oppone alla civiltà borghese del nord industriale). La Tarantella del Gargano accompagnava anche gli applausi.

Inoltre c’erano due rumori ricorrenti: il frinire dei grilli e la cavalcata di una mandria di cavalli (anzi, di centauri).

Il lavoro con gli attori è stato lungo e non facile. Però non è semplice scriverne. Si trattava soprattutto di dar loro delle coordinate di senso rispetto al testo di Pasolini così da permettergli di disporsi lungo la linea del conflitto drammatico, che è un conflitto di idee e posizioni, e far sì che evitassero innanzitutto di mettersi a rappresentare personaggi di un mondo lontano basandosi su stereotipi loro, che necessariamente sarebbero stati superficiali, e poi di pompare i rapporti emotivi tra personaggi. Avessero preso questa piega sarebbe stato difficile tenere in piedi la massa di testo di Pasolini, la struttura dialogica della pièce. Riguardando dopo più di vent’anni lo spettacolo, direi che si vede come il tessuto ironico, agevolmente colto dal pubblico, sia stato sia strumento per arrivare a questa distanza dalle vicende personali del personaggio, sia testimonianza del fatto che questa distanza era stata ottenuta. Saldamente nella prima parte. Nella seconda accade in maniera meno sistematica, il che ha delle scusanti: lì il tessuto del testo è diverso, le situazioni drammatiche nelle quali agiscono i personaggi si fanno più evanescenti, più astratte e l’ironia degli attori si sarebbe dovuta appuntare sulla Weltanschauung che guida i passi catastrofici del Padre-borghese. Questo tipo di materiale, però, così puro, astratto, privo di supporti nella situazione drammatica in cui si trova ad agire il personaggio, evidentemente era più ostico per gli attori. Per ottenere in quest’ultima parte l’intensità necessaria l’attore avrebbe dovuto giocare molto “in prima persona”, a prescindere dal suo personaggio, vedendo questo personaggio solo come “nome” all’interno di una dialettica scoperta tra posizioni, tra filosofie di vita opposte (Padre-Sofocle, Padre-Negromante, Padre-Figlio e cioè, in definitiva, Padre-Pasolini). Un tipo di tematica particolarmente lontana da quegli attori, dalla loro vita. Dalla ripresa della prima rappresentazione, infatti, risulta evidente che questa parte fosse ancora un po’ scarica, giocata meccanicamente.

Com’è stata recepita Affabulazione dal pubblico moscovita?

Poco, è stata recepita. La sala ospitava solo una settantina di spettatori ed è stato recitato 3 o 4 volte in tutto. Nel complesso la prima è andata bene. Mi pare che a Graziella Chiarcossi, che era venuta a vederlo sino a Mosca, fosse piaciuto. Non ricordo di recensioni sulla stampa. Lo spettacolo morì molto giovane. Le ragioni sono diverse. Della sua qualità intrinseca mi viene difficile parlare (però, come ormai ho spesso imparato a capire non tanto e non solo sulla mia esperienza, le ragioni intrinsecamente estetiche hanno spessissimo un ruolo limitato nelle decisioni dei teatri). Per il resto le cose andarono così: la prima fu il 10 dicembre del 2000. Il 12 avevo l’aereo per l’Italia dove il 28 sarebbe nato mio figlio. Non riuscii a tornare a Mosca e rivederlo prima del 24 febbraio. In questo spazio di tempo lo avevano recitato solo un’altra volta o altre due volte… senza la mia presenza era peggiorato tantissimo. Mi dispiacque molto quando lo vidi. Purtroppo non mi trattenni e lo feci capire agli attori. Gli dissi che così non poteva essere mostrato e sarebbe stato bene sospenderlo per riprendere le prove in futuro e rimetterlo in scena. Alcuni attori si offesero e decisero che non lo avrebbero più recitato. D’altronde causa di questa disaffezione, oltre la mia assenza di tatto, era stato anche il fatto che il teatro e il suo direttore artistico, non avendo alcun interesse ulteriore nell’impresa non avevano sostenuto lo spettacolo e lo stavano lasciando degradare. Una volta percepiti i soldi dell’IIC (Istituto Italiano di Cultura) di Mosca, necessari a pagare la scenografia e gli incentivi di produzione agli attori, non c’era più interesse economico nel replicarlo, visto anche che in quella sala l’entità degli incassi sarebbe stata comunque contenuta. Inoltre la dirigenza dell’IIC nel frattempo era cambiata. La nuova direttrice non aveva approvato l’operazione e quindi lo spettacolo per il teatro aveva perso anche l’attrattiva di questo interesse relazionale con l’IIC. Sicché era stato disposto nel repertorio in maniera da interferire il meno possibile con il resto dell’attività del teatro e programmato poco e con lunghi intervalli tra uno spettacolo e l’altro: la replica più vicina prevista dopo quella di fine febbraio sarebbe stata tra due mesi… Lo spettacolo invece era difficile, lontano dalla sensibilità e dalle abitudini teatrali di quella troupe e per sopravvivere avrebbe dovuto essere sostenuto, valorizzato, mostrato più spesso.  Insomma, il risultato fu che morì molto giovane.

Affabulazione fa parte del Teatro di Parola, un teatro teorizzato prima ancora che scritto, nel quale la parola ha un ruolo assoluto, politico, metateatrale. Nell’introduzione alla traduzione ne parli, perché lo spettatore/lettore della traduzione possa contestualizzare in modo corretto l’opera di Pasolini. Ma quanto hanno pesato, e in che modo, le riflessioni pasoliniane sul Teatro di Parola nelle tue scelte traduttive?

Nulla di particolare. Assieme a Raisa Raskina abbiamo solo cercato di essere fedeli il più possibile. Io, in particolare, spingevo in questo senso. Sino ad essere pedante. Insistevo anche su aspetti sintattici, a volte, perché mi parevano comunque significanti, mi pareva che a renderli più “fluenti” avremmo tolto qualcosa. Forse è venuta fuori una traduzione un po’ troppo macchinosa. Raisa stessa in seguito mi ha detto che, trovandone il tempo e l’occasione, su quella traduzione ci rimetterebbe volentieri le mani. (Però, ora che io ho recuperato il video e lei l’ha visto recitato, è rimasta sorpresa e soddisfatta di come la sua traduzione tenesse bene la scena). Comunque queste sono valutazioni che non posso fare io e spettano ad un madrelingua. La mia conoscenza del russo mi permette giusto di capire se il senso dell’originale è tradotto correttamente e se, all’incirca, è adeguato il taglio relazionale e culturale che viene dato al linguaggio di questo o quel personaggio. Non di più.

Nell’introduzione alla traduzione, individui i punti essenziali del Teatro di Parola e di Affabulazione in particolare. Tra questi, il sogno, tema e procedimento molto russi, e, aggiungerei, propri della Russia più amata da Pasolini, quella di Gogol’ e di Dostoevskij. Come hai lavorato su questo punto nella messa in scena?

In parte l’ho scritto sopra: modificando lo spazio, il suo uso, sicuramente anche le luci (pure se non ricordo come) e usando di più la musica. Non c’erano segni particolari nella “maniera” di recitare degli attori. Certo, però, cambiava il tessuto relazionale tra i personaggi, il che produceva un cambiamento oggettivo. Ma insomma niente “voci strane”, movimenti al rallenty o altro.

L’esperienza di Affabulazione ha segnato la tua idea di teatro e la tua prassi registica?

Non più di altri spettacoli. Il problema, come sempre, è questa parola inesistente per i teatranti italiani che è: continuità. Tornato in Italia ho provato a rimetterlo in scena, ma non ho trovato i soldi e dopo qualche anno ho smesso di provarci. Di Gogol’ ho fatto tre spettacoli professionistici e due nelle accademie. Di Pirandello anche: tre professionistici e parecchi nelle accademie…. Ecco che su un arco simile sicuramente è più facile dire in cosa un autore ti segna. Un drammaturgo è un pensiero, un immaginario… Lavorandoci più volte si capisce come si articola dentro la tua poetica quell’immaginario, Ma questo con il Teatro di Parola non è successo. Peraltro ho lavorato più volte, in sede pedagogica e laboratoriale, su una sceneggiatura di Pasolini, La notte brava ma lì l’immaginario e la struttura sono diversi.…. Insomma se ne facessi altri di spettacoli forse potrei dirtelo, al momento è rimasto un’esperienza isolata, purtroppo. Benché preparata molto a fondo, amata e significativa, nel suo incontro con Pasolini, per me come persona.

Il Teatro di Parola pasoliniano è stato messo in scena poche volte, anche in Italia. C’è un perché, a tuo parere?

Sì, c’è una questione tecnica. O meglio estetica. Gli attori italiani non sono preparati a mettere in scena quel tipo di tessuto drammaturgico. I testi di Pasolini non sono del tutto testi per personaggi. I personaggi stanno dietro ai temi che portano. E il centro di quello che avviene non sono i rapporti tra i personaggi, ma le considerazioni che questi rapporti generano nell’autore o che i personaggi elaborano sulla base dei rapporti. Questo significa che ogni tentativo di recitare, per capirci, Orgia come un’orgia, o Affabulazione come un rapporto abusivo tra un Padre e un Figlio, sono destinati a fallire. Ma la prima cosa su cui si buttano gli attori (e verso cui li spingono i registi) è proprio quella di rappresentare dei personaggi. Non solo, stante l’invasione culturale dei testi (drammaturgici, filmici, ecc.) angloamericani, che di fatto centrano tutta la loro attenzione sempre e solo su rapporti psicologici tra personaggi, molti registi si sono abituati a questo tipo di analisi del testo…e quindi su Pasolini si scornano. Peraltro la stessa cosa succede, e succedeva ed è sempre successa, rendendolo in genere sulle scene una rottura di zebedei insopportabile, per Pirandello. Quando ho letto il teatro di Pasolini per la seconda volta, l’ho fatto dopo aver studiato anni con Vasil’ev sulla messinscena dei dialoghi di Platone. Lì i personaggi sono puri vettori di posizioni filosofiche. Non c’è situazione, non c’è carattere a cui possa attaccarsi un attore per sostenere quella massa di testo. Bisogna che due attori, due persone, si presentino sulla scena a recitare il dialogo, come dire, a pari energia, sulla medesima posizione (quella platonica) prendendo uno la parte A del conflitto, l’altro quella B. Sono testi in cui in teoria ad uno schioccare di dita si potrebbero invertire i ruoli. Ecco credo che questo principio sia utile per approcciare i testi di Pasolini. E d’altronde lo stesso Pasolini racconta di aver scritto le sue sei tragedie dopo aver riletto i dialoghi di Platone. Mi ha colpito molto la registrazione dei dialoghi di Orgia nella messinscena originale di Pasolini. Ci sono in giro, nel web, degli stralci (mi piacerebbe tantissimo riuscire a sentirla tutta dall’inizio alla fine). E’ esattamente come me la immaginavo. Parlano, come dire?, pacatamente, mentre dicono le cose più tremende. Ragionano, sostanzialmente.

Pasolini dedica il suo Teatro di Parola a Majakovskij, Esenin e i giovani dell’Ottobre. Potrebbe essere questa anche una strada interpretativa per la messa in scena dei pezzi che lo compongono? In altre parole, quanto la riforma teatrale russa (e penso a Mejerchol’d più che a Stanislavskij) può intrecciarsi con il teatro pasoliniano degli anni Sessanta/Settanta?

Non so quanto Pasolini sapesse di Mejerchol’d. Lui, parlando di modelli estetici, si riferisce alla tragedia classica. Sicuramente (basti vedere il film Porcile o anche Salò) la via della caratterizzazione forte, così cara a Mejerchol’d e a Ejzenstejn, era nelle sue corde. Idem dicasi per quello che Ejzenstejn definisce tipaž (cioè la ricerca degli interpreti per volto-tipo, figura-tipo). Forse ancora, ammesso e non concesso che ne avesse letto (ma non mi ricordo di aver mai letto una citazione di Mejerchol’d nei suoi scritti…anche se ovviamente potrei sbagliare), la cosa più vicina a Mejerchol’d è l’idea, poi ripresa da Brecht, di distanziamento dal personaggio. E però penso che il teatro russo in quella dedica non c’entrasse niente. D’altronde il teatro esige una quantità di lavoro infinito e dà risultati molto fragili e sottili e mi sembra chiaro che Pasolini avesse troppa urgenza di creare immagini per mettersi nell’infinito dedalo del lavoro con gli attori. C’entra l’idea di una poesia politica e appassionata, probabilmente. Quella di poeti che hanno lanciato il loro corpo, e il loro corpo poetico, potrei dire, nella lotta…. Fino a farsi male. La Russia in definitiva, per un italiano, e credo Pasolini non facesse eccezione, è un’illusione ottica. Crediamo di vedere un posto in qualche maniera vicino, fratello, che parla la nostra lingua e vive la nostra cultura, le nostre contraddizioni, ma invece stiamo vedendo un mondo totalmente altro. E il mito della rivoluzione, ovviamente (e questo riguarda ampiamente anche il sottoscritto), è frutto del momento in cui probabilmente questa illusione ottica è stata più vicina che mai all’essere realtà.

francescatuscano@gmail.com

Appendice

Dall’introduzione all’edizione russa di Affabulazione (AA.VV., Poterjannye p’esy, Akademičeskie teatradi Moskva 2001, pp. 55-65):

Quel sogno parla dell’irruzione nella vita del Padre – fino a quel momento protetta dal suo ruolo sociale, dal suo detenere il potere, dalla propria ironia su sé e sul mondo – di un altro mondo, precedente a questa presa di potere, precedente a questa maturazione sociale. Un mondo senza protezioni, in cui le passioni non sono regolate dai cerimoniali mondani, sono dirompenti, barbariche, antiche, non addomesticabili, “diverse”, individuali, imperiose.

Questa irruzione comporta, come si era scritto, un cambiamento nella personalità del Padre (che è la personalità di un pensiero più che di un personaggio), il quale rompe la solidarietà della coppia borghese organizzata secondo salde e vecchie regole morali e comincia ad entrare in conflitto con la moglie (col tipo di etica a cui lei è rimasta fedele). Questa rottura si vede in tutto. Nel fatto che il Padre parli per monologhi mentre la Madre per brevi frasi; nel fatto che il Padre recepisca questa novità come un cataclisma e che la Madre gli proponga una cura ricostituente o una terapia psichiatrica d’appoggio (dopo di che passerà ai fatti e condurrà da lui un dottore… e non bisogna fare caso della circostanza dell’accoltellamento: si tratta di un accoltellamento più simbolico che reale), nel fatto che alla proposta del Padre di praticare una patetica e minimale follia che li faccia uscire dalla quotidianità della loro vita di coppia (fare l’amore con il rischio – la certezza – che qualcuno li veda) la Madre opponga un rifiuto, e così via. Da notare anche che i due sono divisi da un conflitto stilistico, metateatrale. Il personaggio della Madre continua a vivere in uno stile da teatro borghese, da Teatro della Chiacchiera, come l’avrebbe definito Pasolini, alla De Benedetti, per capirci (dopo l’irruzione del sogno, nel primo episodio, rivolta al Padre: «Cosa ti sentivi? Parlavi sognando. Te l’ho detto, non dovevi venire qui subito, nel giardino, appena mangiato. Sei bianco, si vede che stai digerendo male.(…) Cosa c’è da gridare? Non ti ho mai visto comportarti così!…(…) Vado a prenderti un caffè (…) Non pensi di parlarne a un medico? Forse è solo stanchezza – è una vita che lavori senza risparmio…») mentre il Padre vive in un teatro tragico e mitico, in cui parla con Dio bestemmiandolo («Ah lo so ben io cosa ho sognato quel maledetto pomeriggio! Ho sognato Te. Ecco perché è cambiata la mia vita»), parla del suo dolore senza pudore, parla della crisi del suo ruolo nella società.

Anche il Figlio rompe la solidarietà con la sua famiglia, con la weltanschauung che ne determina la quotidianità. Ma la sua rottura lo porta in un mondo, in un pensiero diversi rispetto a quelli a cui approderà il Padre. Il Figlio infatti abbandona la villa dei genitori, attorniata a dovuta distanza da «belle fabbriche silenziose, come i prati», e va a rifugiarsi in un angolo di Milano i cui colori sono «degni di Napoli nel cuore dell’estate» (altra opposizione tra il Nord industriale, borghese, operoso e il Sud sottoproletario, caotico, istintuale; va aggiunto che anche la Negromante indovina la presenza del Sud anche nei capelli del Figlio, nel suo corpo «Ci sono dei napoletani biondi/che hanno questa fuliggine sull’oro,/ e, se li guardi sotto, hanno grembi molli e un po’ sporchi, e sempre troppo pronti a fare all’amore,/ con crudeltà di guappi e grazia di ragazze. Hanno il sesso negli occhi, e il suo odore di seme/ nei capelli spettinati e un po’ polverosi»). Nel finale il Figlio dichiara se stesso e il suo mondo come qualcosa  di altro rispetto al Padre e al suo mondo (e anche rispetto al loro contrario, a chi vi si oppone frontalmente – da ricordare che Pasolini ha cominciato a lavorare alle sue tragedie nel 1967). Nel dialogo finale con la Ragazza, all’osservazione di lei che mette in dubbio la validità della sua fuga dal mondo della società (il Figlio vuole fare l’obiettore di coscienza) e riporta la possibile disapprovazione del suo gesto da parte di chi è impegnato nella società («tutti diranno che sei un anarchico che fa delle cose che non servono a niente!») il Figlio risponde: «Certo che lo diranno! E non solo i vecchi borghesi ma anche i ragazzi rivoluzionari. Appartengono tutti ad una stessa razza: la razza di chi misura ciò che si fa dalla sua utilità». E aggiunge: «Quello che so è che non c’è bisogno che le azioni di vero amore o di vero odio servano a qualcosa, che non importa che il mondo che metti in imbarazzo col tuo troppo odio o il tuo troppo amore l’abbia vinta, infine, facendo di te il suo buffone. La vittoria è sempre di chi perde. La vittoria non è mai riconosciuta. La vittoria è inutile.» E’ la posizione del poeta, la cui missione è testimoniare la verità. La verità della vita, la verità della natura, della realtà, delle emozioni. Verità che è dirompente e vittoriosa, intellettualmente ed esistenzialmente, ma che al tempo stesso è condannata alla sconfitta dal Potere, dalla logica del socialmente e moralmente (ed economicamente!!!!) utile e dalla propria stessa apaticità, dalla propria tendenza alla contemplazione. L’atto del poeta, quindi, è come l’atto del diverso, di chi non permette di far omologare se stesso, la propria individualità, ai meccanismi della società, alle regole dettate dal Potere. E’ l’atto di libertà di chi conosce, accetta e vive la propria diversità, la propria unicità, la propria inaddomesticabilità ed è, per lo scandalo che suscita con la sua esistenza, condannato al linciaggio morale («il mondo fa di te il suo buffone») e materiale (l’omicidio del Figlio… e di Pasolini stesso).

Se questo è il portato del personaggio del Figlio (e peraltro non lo è dall’inizio alla fine della pièce, ma questo lo vedremo tra breve), altro è quello del Padre. E’ il portato di chi è ormai anima e corpo compromesso con il Potere, con la società. La coscienza che mano a mano acquisisce di sé e del mistero di cui gli aveva parlato il sogno, e di cui ora è portatore il Figlio (di questo mistero della vita, della verità), non lo redimono ma, al contrario, si connettono con il suo ruolo di Padre borghese in maniera esiziale, per se stesso e per il Figlio (che però sopravviverà alla morte riapparendo come spirito). Il Padre è condannato a percorrere quello stesso percorso che farà la borghesia dopo il ’68. Trasformare la ritrovata libertà interiore, fino a quel momento oggetto di autocensura, in libertinismo, in edonismo e rapportarsi agli oggetti del desiderio in termini di possesso, di consumo, di utile (l’Ombra di Sofocle avverte il Padre: «questa tua vecchia abitudine al possesso è la tua morte. Morte che nessuno, mai, in nessun luogo, piangerà»; ma poi conclude sconsolata «Quanti eroi son stati preavvertiti dai profeti, ma sempre inutilmente. (…) La tua giornata comincia: la giornata che tu vuoi vivere come hai deciso e niente potrebbe convincerti a farlo in altra maniera»).

Questo conflitto che potremmo definire, semplificandolo brutalmente, tra il Potere e la Natura, si manifesta anche nella cesura che taglia nettamente in due la struttura stilistica stessa della pièce. Nella prima parte (fino alla coltellata del Figlio al Padre) le diversità sono contenute ancora dentro un ambito familiare, all’interno della microsocietà costituita da Madre, Padre e Figlio. In questo ambito il conflitto rimane, in definitiva, di tipo psicologico e lo stile della pièce parodizza vagamente un dramma di costume. Fino a quel momento nessuno ha la coscienza della portata del conflitto, il Figlio stesso mantiene la sua conflittualità all’interno dei limiti di un’opposizione generazionale. Questa struttura esplode con la coltellata (o meglio con l’attentato del Padre al pudore del Figlio che la precede) e si passa da uno stile psicologico ad uno stile concettuale. Cominciano a confrontarsi le weltanschauung, si apre la strada al verificarsi di episodi metafisici (il dialogo con l’Ombra di Sofocle, l’incontro irreale con la Negromante, lo sdoppiamento della figura del Padre che si trova nella pièce e nella realtà evocata dalla sfera di cristallo della Negromante, ecc.), i personaggi sembrano acquisire una certa distanza dalla propria vicenda, gli eventi che vi avvengono sembrano appartenere più all’ambito del mito e della metafora che a quello della realtà quotidiana. Come se alla prima parte della pièce legata ad uno stile da dramma borghese, e quindi ad un mondo che si aggrappa alla propria cecità, ai limiti che si impone con il proprio costume, si opponesse una seconda parte legata al sogno, al mito, al mondo archetipico, e cioè a quel mondo fantastico che solo è capace di farci accedere alla realtà.

Infine centrale appare il dialogo tra il Padre e l’Ombra di Sofocle. Qui la problematica conflittuale della pièce viene evocata soprattutto nei termini di ragione e mistero. Sofocle sostiene che la ragione aiuta a risolvere gli enigmi, ma quello che tortura il Padre non è un enigma, bensì un mistero. Di questo mistero gli aveva parlato il sogno e continuano a parlargli il corpo, la gioventù, la biondezza del Figlio. Trattandosi di un mistero il Padre non potrà mai conoscerlo con la sua ragione venata di ironia e di distacco che gli ha sì permesso di prendere il potere sul mondo ma lo ha tenuto lontano, protetto anzi, proprio dal contatto con quel mistero che ora ha tanta ansia di conoscere…. E qui succede qualcosa di particolarmente interessante, per l’approccio al pensiero teatrale pasoliniano; infatti come strumento alternativo alla ragione per riuscire ad accedere al mistero, Sofocle propone il teatro (e ci ricolleghiamo qui al discorso precedentemente interrotto sulla presupposta natura razionalistica del teatro di Pasolini). L’Ombra di Sofocle afferma: «Nel teatro la parola vive di una doppia gloria,/ mai essa è così glorificata. E perché?/ Perché essa è, insieme, scritta e pronunciata./ E’ scritta, come la parola di Omero,/ ma insieme è pronunciata come le parole/ che si scambiano tra loro due uomini al lavoro,/ o le donne al mercato – come le povere parole insomma/ che si dicono ogni giorno, e volano via con la vita:/ le parole non scritte di cui non c’è niente di più bello. Ora, in teatro, si parla come nella vita./ Vedi? Tu ora ti lamenti, fai: aaaaah, aaaaaaaaaaaaaah,/ e nel teatro questo suono è lo stesso:aaaah/ aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaah….». E dopo: «L’uomo si è accorto della realtà/ solo quando l’ha rappresentata./ E niente meglio del teatro ha mai potuto rappresentarla.» E ancora: «Tuo Figlio è già in un palcoscenico,/ non te ne sei accorto? In un palcoscenico vivente. (…) Egli si rappresenta a te

Insomma, secondo il Sofocle di Pasolini, il teatro usa due sistemi di segni: quello della lingua e quello della realtà, della natura. Il Teatro (come il Cinema) è un ambito linguistico in cui la natura rientra di per sé, autonomamente, nel sistema di espressione artistica. Un attore è vivo e di per sé; dice qualcosa mediante la sua stessa presenza fisica. Il testo che pronuncia sulla scena (per quanto razionale e filosofico possa essere) si combinerà sempre alla sua voce, al suo accento, alle sue inflessioni, al suo fisico; avrà sempre a che fare con l’attore vivo e senziente (e in quanto tale non filosofico, né razionale; ma piuttosto soggettivo, emozionale, inconscio). Ed è questa bipolarità, questa insita tensione che sta a fondamento poetico del Teatro “Ateniese”, del Teatro delle Idee di Pasolini/Sofocle. Perché le sue idee sono quelle di un poeta che ha un utopia, un sogno di libertà profonda e di verità. Il sogno di un mondo di Santi peccatori, di Poeti. In cui ognuno viva liberamente il proprio essere. In cui il rapporto con il circostante non sia regolato dalle logiche del Potere e del Possesso. Un mondo insomma che non si rapporti alla natura (a quella del pianeta, a quella degli uomini) con lo scopo di entrarci in possesso, di violentarla ma piuttosto lo faccia per culturalizzarla, e cioè per rendersi conscio di cosa essa sia, per capire di cosa parli e per entrarci in libero rapporto. Pasolini/Sofocle sostiene che il mondo, la natura ci parla e che ha un suo sistema di segni, una sua lingua, il che comporta che la si possa anche capire, confrontarcisi.

L’Ombra di Sofocle mostra al Padre come il mistero di cui il Figlio è portatore lui lo possa scoprire solo rapportandovicisi come si rapporterebbe ad un’opera culturale, ad una rappresentazione teatrale. Anche l’Ombra, a sua volta, guarda al mondo come ad uno spettacolo («comincia ad albeggiare, è l’ora in cui il silenzio è più profondo… Ma un rossore corrompe col suo profondo essere, l’azzurro della gelida aria: fra poco ne brilleranno i vetri riflettendo il triste orizzonte») che gli parla di qualcosa (della vita? dell’incoercibile? dell’anima? comunque di qualcosa che non può essere nominato, pena la sua scomparsa) e comincia a lamentarsi di sé, e cioè di Sofocle, dell’autore teatrale: «Ah rimpiangerò per sempre di non aver rappresentato abbastanza nelle mie tragedie questa inanimata volontà della terra a rivivere; questo po’ di rosa, questo leggero spirare del vento – cose, non parole. Ahimé!». E ciò facendo è come indicasse, con quel tanto di malinconia che ispirano le cose impossibili, quali debbano essere l’arte Teatrale (e quella Cinematografica): luoghi di incontro tra pensiero analitico e vita, terreno sul quale far avvenire questa culturalizzazione. «Un ragazzo biondo che cammina. (…) Potrebbe anche essere fotografato, o dipinto, o scolpito. Insomma potrebbe essere segno iconico di se stesso nell’ambito di molti sistemi di segni, ognuno col suo codice specifico. Ma egli non sarebbe mai codificabile in nessuno di questi sistemi di segni, se non fosse prima di tutto decodificabile nel sistema di segni della Realtà come Autorivelazione o Linguaggio Primo, attraverso il suo codice che è dunque il Codice dei Codici. Ciò non naturalizza i codici della cultura (letteratura, cinema, linguistica), ma, al contrario, culturalizza la natura: facendo dell’intero vivere un parlare.» Nota del 15 gennaio 1971 a Il Codice dei Codici, in Empirismo eretico, cit., p.284.

 

L'autore

Francesca Tuscano
Francesca Tuscano
Francesca Tuscano è nata il 7 settembre 1964. Laureata in Lingua e letteratura russa e in Italianistica, addottorata in Letterature Comparate, si occupa soprattutto di storia dei rapporti tra cultura russa e cultura italiana, sui quali ha scritto diversi saggi. Ha tradotto dal russo testi di B. Akunin, R. Jakobson, Ju. Lotman, V. Chlebnikov, M. Kuzmin, A. Blok, A. Achmatova, N. Kaplan, e saggi di letteratura critica su Pasolini e Leonardo da Vinci (quasi tutti ancora inediti in italiano). Ha pubblicato una monografia sulla Russia nella poesia pasoliniana (La Russia nella poesia di Pasolini, Book Time 2010). Ha pubblicato le raccolte di poesie M.Y.T.O. (Era Nuova 2003), alla quale sono seguite La notte di Margot (Hebenon-Mimesis 2007), Gli stagni di Mosca (La Vita Felice 2012) e Thalassa (Hebenon-Mimesis 2015). Ha scritto anche libretti d’opera e testi teatrali (tra i quali Come si usano gli articoli, pubblicato in I diritti dei bambini, Rubbettino 2005). Nel 2016, per il Mittelfest di Cividale del Friuli, è stata messa in scena l’opera lirica Menocchio su suo libretto (musica di Renato Miani).