No sap chantar qui so non di (‘Non sa cantare chi suono non dice”) intonava il trovatore girondino Jaufre Rudel, intessendo parole cariche di risonanze sentimentali accompagnandole, forse, col dolce suono del suo strumento. La melodia è sempre presente quando si tratta di esprimere il nostro ‘io’, sebbene non sempre ne siamo consapevoli. Essa fluisce nel manto fonico delle parole; si fa ritmo e mistura di suoni, che tornano a intervalli più o meno, o dopo pause misurate, insieme a sospiri e riprese che spezzano il discorso e trasformano le nostre emozioni in vibrazioni. Ed è con voce tremante che, nel non lontano 1972, un giovane cantautore confessava: «nella testa una musica che mi fa diventar matto». Un amore ossessivo, simile al riecheggiare di un disco rovinato, ha provocato nel cantore emozioni cariche di tonalità, a tratti fosche, alle quali il cantore prova a porre rimedio lasciando scivolare la sua voce tra le corde di una chitarra. Medesima reazione, secoli diversi. Bernart de Ventadorn, di fronte alla consapevolezza di aver nutrito invano la speranza di un amore ricambiato, si lascia andare a un lamento: «De las donas mi dezesper / ia mais en lor no·m fiarai / qu’aissi cum las suelh captener / enaissi las descaptendrai / quar vey que nulha pro no·m te / ves lieys que m’auci e·m cofon / totas las autras ne descre / quar sai que atretals se son» (BdT 70, 43). Cercamon, confuso dal continuo rimescolio di sentimenti in contrasto, racchiude all’interno di una canso il malessere della disforia d’amore: « Bel m’es cant el ma follatis / e·m fai badar e·n vau muzan; / de leis m’es bel si m’escarnis / o·m gaba derers o denan, / c’apres lo mal me venral bes, / ben lieu, s’a leis ven a plazer» (BdT 112,4). In questi – come in moltissimi altri esempi – la consonanza con le tematiche affrontate dagli odierni cantautori si rivela sbalorditiva. Basta ascoltare gli ultimi secondi di E apri quella porta (1973) per immergersi in un flusso di disperazione: «ah non t’avessi incontrato / mai incontrato / son perduto ormai […] mannaggia alle donne / a tutte quante le donne / una per una / sono tutto un programma»; o ancora, è possibile rinvenire tra le righe di Mia cara Esmeralda (1970) quel tocco di ironia gravida di dolore: «Mia cara Esmeralda / lo sai che con te / mi trovo assai bene / mi trovo da re / vorrei solamente / capire perché / la sera dell’ultimo /non sei con me […] / Mia cara Esmeralda / se ritornerai / una buona azione / di certo farai / io me ne andrò a letto / pensando un po’ a te / che m’hai chiuso a chiave».
Di somiglianze, riprese intertestuali e intermelodiche, contraffatture e parodie traboccano sia l’intero patrimonio lirico romanzo sia il canone della ‘tradizione’ cantautorale italiana. Tracciare anche solo una bozza di paragone tra questi due mondi può rivelarsi spesso un’impresa ardua. Le similitudini si moltiplicano, gli immaginari si sovrappongono e sfumano intrecciandosi lungo le tappe di un percorso che, lo scorso 21 maggio, nell’aula V della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “Sapienza” di Roma, ha condotto Paolo Canettieri, Anatole Pierre Fuksas, Stefano Milonia, Carlo Pulsoni, Susanna Rafart, Antoni Rossell e Oriana Scarpati ad avvicinare gli esiti più raffinati dell’arte del trobar ai prodotti discografici dei cantautori italiani[1]. Alla presenza di Claudio Baglioni, che proprio come un trovatore moderno ha plasmato l’immaginario emotivo di molteplici generazioni (Arianna Punzi), i relatori hanno offerto le loro riflessioni sui vari aspetti della lirica medievale, mettendo in evidenza somiglianze e differenze con la tradizione cantautorale contemporanea.
Secondo Paolo Canettieri, ideatore dell’iniziativa, i termini di questa comparazione sono molto interessanti: sia i trovatori provenzali sia i cantautori cantano prevalentemente d’amore, ed esplorano questo sentimento in ogni sua dimensione e sfumatura. Temi come la gelosia, il mal d’amore, la nostalgia per un amore perso o non ricambiato, confluiscono in entrambi i repertori, a tal punto che Paul McCartney, criticato per aver scritto brani ritenuti schmaltzy (it. “sdolcinati”), difende a spada tratta la complessità del tema citando i versi di Silly Love Songs: «Love isn’t silly / Love isn’t silly at all!» e comparandosi, appunto, a un trovatore[2]. Un altro aspetto fondamentale che avvicina trovatori e cantautori risiede nel modus operandi. Entrambi praticano l’intertestualità e l’intermelodicità, attingendo di continuo versi, rime e temi dalle fonti più disparate: dalla letteratura latina, ai testi classici e liturgici, ai romanzi, fino ai casi di cronaca. Lontano dal moderno concetto di copyright, queste pratiche pongono le basi di un dialogo perpetuo tra creatori di suoni e parole. La costante ricerca del connubio perfetto tra questi due elementi – i motz e il so, il testo e la melodia – rappresenta una caratteristica universale presente in tutte le culture, pertanto condivisa da trovatori e cantautori. Eppure, uno degli interrogativi che da sempre assillano i filologi romanzi – afferma Canettieri – è quale dei due elementi abbia la priorità. Questa domanda rimane centrale sia nello studio dei trovatori che nell’analisi delle opere dei cantautori moderni.
La risposta alla vexata quaestio risiede – secondo Claudio Baglioni – nelle inclinazioni personali di ogni autore-compositore[3]. Alcuni vivono «una sorta di conflitto interiore, quasi una dissociazione» (parole di Claudio Baglioni) tra la facilità con cui elaborano i profili melodici del brano e l’estrema difficoltà con cui si sforzano nel tentativo di ‘trovare’ le parole giuste. La musica, per costoro, ha sempre avuto la priorità sulla parola. Detto in altre parole, riprendendo locuzioni altrui: cithara tene, verba sequentur. Raramente l’ispirazione ha intrapreso il percorso inverso e quando ciò è avvenuto lo sforzo si dimostra considerevole: «La parola è infatti una ‘scienza esatta’, difficile da gestire, che media attraverso il significato; la musica invece trasmette a presa diretta le emozioni, le rende evidenti, quasi palpabili senza bisogno di alcuna mediazione» (Id.). Ed è così da soli di fronte a un pubblico selezionato, può capitare di scoprire i legami con la tradizione poetica delle origini: «Ho capito che ciò che stavo facendo era paragonabile all’esperienza di un trovatore dei giorni nostri: un artista che canta e suona ciò che crea, basandosi sul proprio vissuto, sulla propria vicenda umana e sentimentale. Certo, mi sento anche un po’ come un giocoliere, perché ho cercato insistentemente di affascinare il pubblico, di non farlo mai annoiare. Ma credo che questo concetto di “gioco”, meramente tecnico, sia connaturato all’esperienza musicale. D’altronde in molte lingue i verbi “suonare” e “giocare” coincidono»[4] (Id.). In effetti, l’opera dei trovatori acquista pieno significato solo se contestualizzata nella sua originaria dimensione sociale, che permetteva alla voce, ai suoni e agli ideali cantati di circolare nell’ambiente di corte attraverso intere generazioni. «Nessuna espressione è infatti isolata. Ogni parola, ogni verso, ogni strofa, ogni componimento poetico e musicale vengono influenzati dal passato e destinati a influenzare il futuro. In un certo senso riutilizziamo costantemente ciò che creiamo e che abbiamo ascoltato. Creazione e ri-creazione sono processi intrecciati, condizionati da ciò che riecheggia all’interno della società»[5] (Id.).
Proprio in virtù della sensibilità con cui captano le vibrazioni del presente, i poeti e i cantautori sono chiamati a preservare il passato, facendolo rifluire attaverso parole e suoni. Entrambi, secondo Susanna Rafart, possiedono il ruolo di custode della memoria collettiva: devono resistere all’entropia e immagazzinare al loro interno un intero patrimonio di ‘cose’, proprio come piccoli ‘pozzi di ghiaccio’. E come il ghiaccio, le poetiche cristallizzano le diverse tradizioni, decostruendone le forme, i generi e gli immaginari rendendoli altamente fruibili, pronte per essere proferite, cantante, musicate. Per questo motivo – afferma la poetessa catalana – i trovatori di tutte le epoche avvertono costantemente il bisogno di ‘comunicare’ con i loro predecessori: solo così essi possono trarre linfa vitale dalla tradizione e consegnare ai posteri il frutto più prezioso dei loro sforzi. Ma la poesia è per poeti e cantautori anche un viaggio alla riscoperta delle radici che ci legano alla storia. Possiamo trovare in Jaufre Rudel la spinta per superare le barriere temporali e culturali. Il destriero che il trovatore cavalca nel suo viaggio verso Tripoli simboleggia il cammino verso la morte: Jaufre erra a dorso del suo destino (il cavallo) in direzione della meta finale della sua vita (Tripoli). Le immagini della poesia raddoppiano, ora nell’aroma muschiato e fragrante del fiore di sambuco, ora nei contorni morbidi di una nuvola, il cui manto prosodico della parola muta di lingua in lingua. A unire queste e altre innumerevoli figure, sapientemente tratteggiate e poi rifratte all’infinito, provvede l’ordito musicale che intesse di melismi, neumi e salmodie gli ‘atti d’amore’ proferiti dai poeti. La musica quindi, riprendendo le parole del compositore e filologo Antoni Rossell, «completa la poesia e quest’ultima ne compenetra l’essenza, creando un dialogo armonioso in cui entrambe si arricchiscono»[6].
Questo è il motivo per cui nel sistema medievale delle arti, musica, grammatica, retorica e dialettica si completavano vicendevolmente. La musica veniva considerata parte fondamentale dell’educazione, indispensabile per il culto religioso e la vita di corte. Parola e musica erano – spiega Anatole Pierre Fuksas – quindi due facce della stessa medaglia; due aspetti della stessa modalità di elaborazione artistica. A pensarci bene, questo legame resiste indissolubile ancora oggi. Quando ascoltiamo una canzone di Branduardi, De André o Bob Dylan, non stiamo solo recependo testi metricamente ben costruiti, ma stiamo ascoltando brani musicali abilmente orchestrati, che hanno richiesto un lavoro meticoloso e geometrico delle varie componenti. E se esaminassimo da un punto di vista socio-culturale le canzoni di artisti contemporanei come Branduardi, De André o Bob Dylan, troveremmo un confronto più che adeguato con la poesia dei trovatori. Quest’ultima, infatti, sebbene rappresentasse una forma di intrattenimento nata come espressione culturale della nobiltà e destinata agli abitanti delle corti, col tempo si è aperta a un pubblico sempre più vasto, uscendo dalle corti. Un momento cruciale in questo processo di diffusione delle tematiche cortesi può essere identificato in Dante, che traspose la figura della midons in un contesto borghese, integrandola nella società comunale. Secondo Fuksas, questo passaggio ha segnato un allargamento delle prerogative della nobiltà a quelle della borghesia. Con Dante la borghesia poté finalmente avere la sua midons angelicata e, dopo secoli, anche noi abbiamo potuto esprime i nostri sentimenti per quel ‘piccolo grande amore’. La trasposizione delle prerogative della nobiltà, quindi, è proseguita fino ai giorni nostri, rendendo la canzone un genere accessibile a tutti, indipendentemente dal rango sociale.
Questo processo di continua apertura e di diffusione si fa quasi spia di un ritorno alle origini romanze. «Sin dai tempi della mia laurea magistrale ho sempre ritenuto impossibile scindere la dimensione musicale da quella poetica, sia che si tratti di una tenso o di una canzone dei nostri giorni», ha dichiarato Stefano Milonia, secondo cui il concetto di intertestualità non può che richiamare il suo doppio: l’intermelodicità (il termine è stato coniato proprio da Antoni Rossell). Entrambi facilitano la comprensione del modo in cui la musica e la parola contribuiscono a plasmare le identità culturali, sia nel Medioevo sia nell’epoca contemporanea. Un esempio pertinente è rappresentato dai trovatori medievali, i cui repertori includevano circa un terzo delle canzoni basate su melodie preesistenti. Questo principio di rielaborazione e ricostruzione, che incorporava elementi di significativo valore storico e culturale, dava origine a opere artistiche di notevole ricchezza. Tale riflessione ci induce a considerare anche il fatto che, prima dell’avvento del copyright, la musica fosse percepita come un bene comune, con melodie e testi soggetti a continua rielaborazione e reinterpretazione.
Un processo di continua manipolazione di cui la storia offre una casistica variegata e affascinante: da Bernart de Ventadorn e Pons de Capduelh a Lucio Dalla, Billy Joel e Celentano. La pratica della contraffazione non è – secondo Carlo Pulsoni – solo una caratteristica specifica dell’arte del trobar, bensì si riflette anche nella composizione dei cantautori. Dal riuso politico e sociale a quello ironico e satirico, fino alla completa reinvenzione delle tematiche: ogni melodia può essere ‘riciclata’. Il ‘meccanismo’ alla base delle contraffatture è semplice, e per questo universale: una volta riconosciute e apprezzate dal pubblico le melodie vengono riprese e adattate a nuovi testi per riflettere temi contemporanei. È il caso delle canzoni di crociata medievali che utilizzavano melodie d’amore per promuovere la partecipazione alle campagne di guerra. Ma questo ‘metodo’ non si limita alla musica antica. Fischia il vento, costruita sulle linee melodiche della canzone sovietica Katiuscia, rappresenta un esempio emblematico di come le musiche possono essere investite di nuovi significati. La casistica mette in luce anche la dimensione ironica e spesso irriverente della contraffazione, dove testi popolari vengono storpiati o reinterpretati a scopi umoristici o satirici. I cori da stadio, ad esempio, trasformano canzoni pop in inni sportivi. «Riprendere, aggiungere o togliere qualche parola o giro di accordo alle canzoni», ha affermato Pulsoni, «è molto più di un fenomeno musicale e letterario: è quasi una necessità culturale».
Una necessità che si realizza – riprende Oriana Scarpati – non solo attraverso la ripresa di melodie, ma anche mediante la rimodulazione di alcuni stilemi. Una delle grandi innovazioni della lirica – spiega Scarpati – è stata quella di mettere al centro l’“io”, che non necessariamente rappresenta l’individualità del poeta, ma in cui alcuni possono immedesimarsi. Dietro l’“io” universale di canzoni come Questo piccolo grande amore o E tu esiste una lunga tradizione che risale ai trovatori medievali, a partire da Guglielmo IX d’Aquitania. Spesso, nelle loro opere, si trovava una coincidenza perfetta tra l’autobiografia dell’autore e l’“io” cantato. Guglielmo IX, nato nel 1071, nei suoi vers faceva riferimenti alla propria esperienza biografica, rendendoli credibili solo se interpretati da lui stesso. Analogamente, nella canzone contemporanea, Claudio Baglioni in Io sono qui utilizza riferimenti autobiografici che risultano autentici solo se espressi da lui. Inoltre, sia i poeti medievali sia i cantautori spesso si nominano nelle loro canzoni. Un esempio famoso è quello di Arnaut Daniel, citato da Dante nel ventiseiesimo canto del Purgatorio, dove l’auto-menzione rende l’“io” autobiografico ancora più esplicito. Nella canzone contemporanea, esempi di questa coincidenza tra autobiografia e “io” sono Vecchioni con «Scrivi Vecchioni, scrivi canzoni» o Tricarico con «Buongiorno, buongiorno, io sono Francesco», dove l’identità dell’artista si sovrappone perfettamente al testo. Peire d’Alvernha, nella sua canzone Chantarai d’aquestz trobadors, usa deittici legati alla performance, facendo riferimento a caratteristiche fisiche dei trovatori contemporanei. Nella musica contemporanea, deittici simili assumono significato grazie al contesto personale dell’artista. Quando Niccolò Fabi canta «non voglio più chiedere scusa se sulla testa porto questa specie di Medusa”, il deittico “questa specie di Medusa” ha senso solo se cantato da qualcuno con una capigliatura simile. Oltre all’ “io storico” e all’“io lirico”, esiste l’“io personaggio”, in cui il cantante parla con la voce di qualcun altro, come nella “pastorella” di Marcabru o nella canzone “Carlo Martello” di Fabrizio De André e Paolo Villaggio. Claudio Baglioni, ad esempio, canta dalla prospettiva dell’astronauta Gagarin, creando un io lirico distinto dalla sua esperienza personale. Insomma, la connessione tra i trovatori medievali e i cantautori contemporanei si manifesta non solo attraverso la musica: i processi di auto-menzione e di identificazione con il pubblico sono metodi sempre validi e ripresi persino oggi.
In conclusione, tra la fin’amor dei trovatori e la Maglietta fina di alcuni cantautori, sussistono termini di paragone più evidenti di quanto possa sembrare. Entrambi si basano sul recupero di stilemi, tecniche, immaginari e principi compositivi che sono alla base di un dialogo culturale ininterrotto. Questo dialogo attraversa i secoli, innervando la contemporaneità di tradizioni letterarie e musicali remote. Il tema dell’amore – e di tutte le sue sfaccettature – continua a rappresentare un ‘multiverso’ che aggrega la produzione artistica di tutte le epoche, e funge da filo conduttore attraverso cui gli artisti possono ritrovarsi in uno spazio comune e parlare una koiné largamente condivisa. Per questo l’atto creativo non è mai isolato: è inserito in un continuum di influenze e rielaborazioni che attraversano il tempo e lo spazio. Ogni opera d’arte è al contempo un tributo al passato e una proiezione verso il futuro, un processo di creazione e ri-creazione che arricchisce il patrimonio culturale collettivo. Il passato e il presente si illuminano reciprocamente, offrendo nuovi significati e prospettive capaci di arricchire la nostra comprensione del mondo.
[1] L’evento è stato patrocinato dall’AISC – Associazione Italiana di Studi Catalani – che si impegna a promuovere lo studio della letteratura, della lingua e della cultura catalana in Italia. Durante la giornata di studio, Emanuela Forgetta, tesoriera dell’associazione, ha sottolineato l’importanza dell’iniziativa, auspicando l’avvio di progetti che coinvolgano non solo poeti e studiosi della materia, ma anche grandi musicisti e cantautori.
[2] Per una consultazione completa delle puntate dell’intervista si rimanda al sito: https://www.pushkin.fm/podcasts/mccartney-a-life-in-lyrics (ultima data di consultazione 22 maggio 2024). Con il brano Silly Love Songs, McCartney ha voluto rispondere ai detrattori che lo accusavano di essere troppo sentimentale. Il cantante ha spiegato che le canzoni d’amore non sono affatto sciocche, in quanto rappresentano emozioni profonde e universali, e sono in grado di aumentare il livello di alfabetizzazione emotiva delle persone che le ascoltano. Per ulteriori informazioni si rimanda a: https://www.independent.co.uk/arts-entertainment/music/news/paul-mccartney-love-songs-critics-podcast-b2507875.html (ultima data di consultazione 22 maggio 2024).
[3] Così, si definisce Claudio Baglioni al termine di una riflessione sulle origini del termine ‘cantautore’: «Questa parola fu coniata da Ennio Melis intorno al 1962-63 per ragioni di marketing, in particolare per promuovere artisti come Gianni Meccia. Il termine nacque al fine di descrivere un artista che si occupa sia dei testi sia delle melodie: un ottimo slogan pubblicitario che finì per diventare una tendenza. Da quel momento in poi, la parola ‘cantautore’ cominciò a diffondersi in tutto il territorio nazionale. Forse avremmo potuto adottare la terminologia anglosassone, come ‘sing-song writer’, che rende meglio il concetto. Personalmente, preferirei termini come ‘autore-compositore’ o ‘interprete-compositore’, che hanno un sapore un po’ antico e polveroso, ma che descrivono meglio il ruolo di questi artisti».
[4] E sulle impressioni del concerto ritornerà più tardi alla domanda di Oriana Scarpati: «La mia felicità in quel momento non derivava solo dal fatto di aver suonato per quasi cinque ore di fila ed essere sopravvissuto a tale impresa, ma anche dal sentirmi circondato dalla presenza dei miei fan. Davanti a loro sono riuscito a cantare alcune canzoni d’amore. Cosa che non facevo da anni. Negli ultimi periodi infatti, ho scritto canzoni su molti temi: soprattutto politici e sociali. Scrivere canzoni d’amore è diventato con gli anni molto più complesso; mi ha richiesto una spontaneità e una vitalità fuori misura. Cantare d’amore richiede anni di maturazione. E alla fine ci sono riuscito anche grazie al pubblico».
[5] A tal proposito, Baglioni racconta le origini di alcuni brani del suo repertorio, rivelando come la creazione artistica possa essere influenzata da diverse fonti, incluse esperienze personali di vita vissuta. Tra le canzoni citate: Annabel Lee, ispirata all’omonima poesia di Edgar Allan Poe; Io, lui e la Cana femmina che nasce dalle impressioni raccolte durante le gite in solitaria con i suoi due cani nelle campagne romane; Yuri Gagarin dedicata ai viaggi – reali e metaforici – dell’astronauta sovietico; Interludio sulla patetica, basato sull’Adagio della Sonata n. 9 di Beethoven, nota anche come Patetica in do minore.
[6] In merito alla questione degli adattamenti musicali, sollevato da una domanda di Oriana Scarpati, Rossell risponde: «Vi racconto un aneddoto: quando ho chiesto a Susanna di scrivere testi per musica, lei mi ha risposto: “Antoni, io scrivo poesie, non compongo canzoni!”. Alla fine, tuttavia, lo ha fatto ed è stata un’esperienza indescrivibile, sebbene molto faticosa. Abbiamo negoziato moltissimo, su ogni signola parola, cercando di immaginare la struttura metrica, il ritmo. Ogni canzone è nata dal dibattito tra preferenze stilistiche ed estetiche diverse. Non nascondo di aver preso ispirazione anche da altri artisti. Ad esempio, una delle canzoni riprende il ritmo di una ninna nanna cantata da Adriana da Cunha Calcanhotto. In sintesi, è stato un lavoro di costruzione, attentamente sorvegliato da Susanna: è come se avessimo stretto un patto». Osservando che l’accompagnamento musicale di Anatoll conteneva elementi musicali moderni, Anatole Pierre Fuksas ha posto la seguente domanda: «Come mai, quando si tenta di mettere in musica una poesia, le forme melodiche contemporanee emergono inevitabilmente e influenzano la nostra creazione?». Una domanda alla quale Rossell ha risposto riprendendo le parole di Baglioni, e sottolineando come il recupero dei suoni a cui siamo abitualmente esposti attraverso la radio, il cinema, la televisione e YouTube giochi un ruolo cruciale in questo processo.
L'autore
- Simone Palmieri ha conseguito la laurea magistrale in Editoria e Scrittura (LM-19) il 19/07/2017, con la tesi "Persuasione in rima - Versificazione e musicalità nel testo pubblicitario" (relatore prof. Paolo Canettieri). Ha partecipato in qualità di relatore al "3rd International Conference on Science and Literature, 2nd CfP" congresso internazionale sul tema "Scienza e Letteratura", proponendo l'intervento "A survey on the functionality of metrical-rhyming structures in italian advertising" (prossima pubblicazione con la casa Peter Lang). Attualmente è dottorando presso l'università La Sapienza di Roma ("Scienze del testo", XXXIV° ciclo), e lavora ad un progetto di ricerca sperimentale sulle funzionalità cognitive del linguaggio poetico.