Sembra quasi uno sport domenicale, quello di sparare addosso alla Divina Commedia, mettendone in discussione il valore, l’originalità, la esportabilità, la leggibilità, la classicità, l’universalità. Adesso anche in casa nostra, in Italia, a Treviso, per restare alla cronaca (scolastica) degli ultimi giorni, questo tiro-al-bersaglio ha preso piede, e ha dato il pretesto per un tam-tam mediatico tanto clamoroso e chiassoso, quanto ciuccioso (se mi fosse consentito il neologismo). Non si tratta dunque dell’ennesimo pseudo-studioso straniero, che, invidioso del successo trans-nazionale di Dante Alighieri, e in cerca di una qualche visibilità mediatica, ne contesti alcuni aspetti, no. Questa volta i protagonisti del tiro-al-piattello sono docenti, genitori e un dirigente scolastico di casa nostra, forti, ne sono più che convinto, del fatto che non abbiano mai letto per davvero (e per intero) il poema dantesco. Costoro, infatti, si son convinti che la lettura della Divina Commedia nuoccia gravemente agli studenti perché ritengono di aver individuato nei versi di Dante Alighieri tracce di anti-islamismo.
Mi permetto di ricordare, che la Comedìa (poi, Divina Commedia), è, innanzitutto, un’opera letteraria (e non teologica), e che quindi va letta come tale, e va interpretata e compresa mettendo in campo le risorse della retorica e della metrica (poi, quelle della filosofia, della religione, della storia dell’arte, della linguistica, della matematica, della astronomia, della politica, etc. etc, che restano, tutte, sullo sfondo). Inoltre, nel canto IV dell’Inferno, che è l’unico canto di tutto l’Inferno dantesco nel quale le anime presenti non soffrono, ed è anche l’unica zona di tutto l’Inferno che è illuminata, che non è al buio; ebbene, in tale zona, che è quella del «nobile castello», del castello delle scienze, nel quale Dante incontra i grandi saggi del passato, dell’età pre-cristiana, quelli che lui chiama gli «spiriti magni», in questo canto, in condizione di serena saggezza, Dante colloca il Saladino, celebre (e giusto) sultano d’Egitto e di Siria (1137-1193), Salh-aldin, titolo onorifico di Yûsuf ibn Ayyûb, ricordandolo proprio come signore musulmano giusto e valoroso. Dante lo presenta ai suoi lettori (e a tutti noi, compresi i lettori recalcitranti di Treviso), come rappresentante di quella schiera di virtuosi infedeli del tempo cristiano (in rapporto al cristianesimo vengono definiti infedeli, esattamente come i cristiani, agli occhi dei musulmani, son detti «infedeli»). Lo presenta in modo isolato, mettendolo, quindi, maggiormente in evidenza:
e solo, in parte, vidi ‘l Saladino (If. IV, 129)
Il Saladino combatté contro i cristiani (nella seconda crociata), ma fu sempre visto come esempio di magnanimità e di coraggio. E Dante lo rappresenta proprio con queste caratteristiche virtuose. Dante, quando vede il Saladino, è nel Limbo, nella seconda parte di questo «lembo» del suo Inferno, quella illuminata, nella quale, come ho già scritto, campeggia il «nobile castello», con sette mura di cinta e un fiumicello, e dove Dante incontra gli spiriti magni, tra cui, appunto, il Saladino. È in questo stesso luogo che Dante incontra la così detta «bella scola», composta da Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e Virgilio. Gli spiriti magni dell’antichità vagano liberamente in un immenso prato verde. Dante si emoziona alla vista di costoro, tra i quali, lo stesso Saladino. Non solo, tra costoro, Dante colloca altri due campioni delle fede e della cultura musulmana, e cioè Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198). Avicenna, filosofo e medico arabo-spagnolo, fu autore di diverse opere di argomento filosofico, teologico, medico, ma, soprattutto, fu traduttore e commentatore dell’opera di Aristotele, trasmettendo, di fatto, in Occidente, la cultura greca, in un tempo in cui, la conoscenza del greco antico si era persa in Occidente (Dante stesso non conosceva il greco antico). Avicenna, in tutto il suo splendore di uomo giusto e sapiente, si trova sempre nel grande prato del nobile castello, canto IV v. 144, dell’Inferno:
Averoìs che ‘gran comento feo
Avicenna, a sua volta, fu medico e filosofo, arabo di origine persiana, tra le cui opere spicca il Libro della guarigione [dell’anima], considerato, appunto, come un commento all’opera di Aristotele, che fu tradotto in latino già all’inizio del XII secolo, segnando profondamente la cultura cristiana. Dante lo nomina nel verso 143 del canto IV, in una lista di spiriti magni («Ipocràte, Avicenna e Galïeno»).
Diverso trattamento Dante riserva invece a Maometto e ad Alì (cugino e genero di Maometto, e suo successore come califfo), collocandoli entrambi tra i «seminatori di discordie», tra gli scismatici, nel canto XXVIII dell’Inferno, in una delle così dette «Malebolge» dell’ottavo cerchio, precisamente nella nona bolgia. È una delle bolge più insanguinate e difficili da descrivere per Dante perché grande è, qui, lo strazio dei dannati, ammucchiati in cataste di corpi mutilati. Così come in vita, costoro operarono (con malizia) per dividere e per causare conflitti, adesso, nel suo Inferno, Dante prevede, come contrappasso, che i loro corpi vengano divisi, mutilati, dalla spada di un diavolo. Questi, infatti, ferisce i dannati ogniqualvolta che gli passino davanti, rinnovando le precedenti ferite (appena rimarginatesi). Il canto XXVIII, vv. 1-4, si apre proprio con la descrizione di questo spettacolo cruento, della punizione che subiscono i seminatori di discordie, responsabili di scismi religiosi, senza alcun compiacimento da parte di Dante. anzi, tutt’altro. Egli, infatti, dall’alto del ponticello della nona bolgia, osserva la carneficina efferata che avviene sotto i suoi occhi, restando (quasi) senza parole:
Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?
Ogne lingua per certo verria meno
L’attenzione di Dante viene attratta da un dannato, che il demonio ha appena squarciato orribilmente, dal mento al bacino, lasciandogli le interiora penzolanti. Si tratta di Maometto, fondatore dell’Islam, che, dopo aver scambiato Dante per un dannato, gli indica suo genero, Alì, che gli sta accanto, con il volto spaccato a metà:
Dinanzi a me sen va piangendo Alì (v. 32)
Sia in questo canto ventottesimo dell’Inferno, che in tantissime altre parti, Dante colloca papi, cardinali e religiosi cattolici, tra i dannati (e anche tra i purganti del secondo regno), in virtù di ciò che hanno fatto in vita (tra i golosi, tra i simoniaci, tra i lussuriosi, tra i traditori, tra i violenti, etc etc). Cosa significa questo? Che andrebbe vietata la lettura del poema dantesco anche da parte cattolica? Dante, nel suo gioco letterario, non condanna le fedi, o le religioni, ma solo taluni fedeli e taluni religiosi, per i comportamenti che, a suo giudizio, non sono stati giusti, in vita. I fedeli, dunque, non le fedi; i religiosi (tra cui tantissimi papi cattolici), non la religione in sé.
Infine, faccio notare che tra le fonti del poema dantesco figura pure il Libro della Scala, un poema arabo-ispanico, che racconta del viaggio di Maometto nell’aldilà. Dante aveva in grande considerazione e rispetto la cultura e la religione musulmana, fino al punto da valorizzare alcune sue figure storiche, e fino al punto da assumere come fonte del suo stesso poema un’opera arabo-ispanica. Già nel 1919, Miguel Asín Palacios (con il libro Escatología musulmana en la Divina Comedia), si soffermò sui rapporti, se non proprio sulle dipendenze, tra il poema dantesco e tutta una serie di racconti arabi di viaggi nell’aldilà, compreso quello del miʿrāj, che narra, cioè, l’ascensione al cielo del profeta Maometto (nei sette cieli, cavalcando un animale magico, il burāq). Suggestivi alcuni raffronti tra le due opere (Divina Commedia e il Libro della Scala) che Asín Palacios avanzava in quel suo studio:
– supplizi veduti da Maometto, e le pene descritte da Dante per l’Inferno
– gallo gigantesco veduto da Maometto, nel primo cielo, e la grande aquila descritta da Dante, per il cielo di Giove (il sesto)
– triplice abluzione di Maometto, e la duplice purificazione di Dante, nelle acque, rispettivamente, del Letè, e dell’Eunoè, in Purgatorio
La Comedìa dantesca è un’opera (molto) complessa. Di conseguenza, il problema delle sue fonti, dei suoi modelli letterari, va inquadrato in una rete di opere e di culture, in una pluralità di tradizioni culturali e religiose, di riferimenti, di culture, di stimoli, di letture, che, tutte quante, compresa la conoscenza di questo poema arabo-ispanico, il Libro della Scala, e di tanti altri poemetti sui viaggi di Maometto nell’aldilà, hanno agito su Dante, nel segno del dialogo interculturale, non in quello opposto dell’integralismo, o dell’esclusione. Questo, credo, che vada spiegato a scuola. La cultura del dialogo e dell’inclusione, non quella del divieto e dell’esclusione.
Suggerisco, ancora, la lettura di un romanzo d’impianto dantesco, che ha posto il problema del rapporto tra la cultura musulmana e la Divina Commedia, mi riferisco al romanzo di Hafez Haidar, Il viaggio notturno del Profeta, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2008. Questo romanzo ha pure il pregio di riportare integralmente, attraverso il racconto di un personaggio della storia, il testo del Viaggio notturno di Maometto, facendo cogliere al lettore le sorprendenti analogie, le somiglianze, e le vere e proprie sovrapposizioni testuali e situazionali, tra il poema dantesco, e questo misterioso testo arabo del VII secolo, al-Isra’ wal-Mi ‘rāg, redatto da Abdallah Ibn al-Abbàs.
Tutt’altro discorso andrebbe svolto intorno ai poemi epico-cavallereschi, quelli di Boiardo, di Ariosto e di Tasso, tanto per fermarmi a citare i massimi rappresentanti di questo genere letterario, che, nei programmi scolastici, seguono Dante Alighieri, e che, quindi, di qui a qualche settimana, cadranno, inesorabilmente, sotto la scure censoria di questi docenti, genitori e dirigente scolastico trevigiani. Anticipando la loro furia iconoclastica, mi permetto di suggerire ai Dirigenti Scolastici d’Italia di non avanzare (o di non avallare) richieste, per esempio, di riapertura del Tribunale della Santa Inquisizione, di non rimettere in auge l’Indice dei Libri Proibiti, di non radere al suolo il Colosseo (vestigia dell’imperialismo romano sono presenti anche a Verona, ad Aosta, a Milano…), di non sminuzzare la Colonna Traiana, di non organizzare un pubblico rogo con tutti i libri di opere letterarie giudicate offensive per questo o per quell’altro motivo (e non mi riferisco soltanto a opere letterarie italiane, poiché, seguendo quest’onda d’urto, è legittimo chiedersi che trattamento riserveremmo, che ne so, allo Shakespeare del Mercante di Venezia?). Del poema epico-cavalleresco, comunque, mi riservo di scrivere in altro momento.
L'autore
- Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura». Ha insegnato «Linguistica italiana» al Corso di Laurea Magistrale in «Scienze della Mediazione Linguistica», e «Didattica della lingua italiana» per l’Università degli Studi di Foggia, e «Storia della lingua italiana» in Polonia (Università di Stettino). È autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani, con il quotidiano «Corriere del Mezzogiorno» («Corriere della sera»), e con diversi blog letterari. Realizza lezioni-spettacolo sui Classici della Letteratura italiana, ed è commentatore televisivo e radiofonico.
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