È stata più volte ribadita dalla critica – anche nel titolo di un importante convegno fiorentino del 2019 – la definizione di Pietro Tripodo come ‘poeta e traduttore’, con cui si vuole sottolineare come la sua attività di traduzione da varie lingue, antiche e moderne, sia un momento non dissociabile dall’atto poetico vero e proprio. In questa sede, cercherò di prendere in esame alcune traduzioni o – con termine più esatto e anche più tripodiano – rifacimenti dal greco antico che mi sembra svolgano un ruolo importante per la ricerca delle immagini e degli strumenti espressivi della sua lingua poetica, attratta, come ha scritto Raffaele Manica, «da un punto antecedente come da una calamita». Accanto ai classici moderni e agli autori di lingua latina (si pensi a Orazio naturalmente, a Catullo, ad Ausonio, ma anche al Pascoli latino), la lingua e la letteratura della Grecia antica attraggono Tripodo fin dagli anni della formazione liceale al “Tasso” di Roma, in cui – come ricordato da Ignazio Visco, suo compagno di classe – beneficia degli insegnamenti di un valido docente di latino e greco, Raffaele Argenio, e comincia ad essere irresistibilmente attratto dai suoni delle parole e dalle loro combinazioni. Ma di fatto Pietro Tripodo, molto greco già nel cognome, a quel mondo mediterraneo di luci meridiane, estati metafisiche e vaste distese marine si sentiva indissolubilmente connesso per via della famiglia, legata alla Magna Grecia, e particolarmente a Messina, luogo di nascita del padre e dello zio suo omonimo. Della Sicilia, che sorvola con la mente e con il cuore nella lirica n. 523 di Antologia Poetica[1] si dichiara figlio, professandosi «greco d’origine» e confessando di essere pervaso dalla nostalgia delle terre distese e delle isole («Io, greco d’origine – nel corpo la nostalgia delle terre distese/ e delle isole –/ dalla terra che confina con tre mari,/ la Sicilia dalle tre punte cardinali,/ nacqui. Dalla fonte d’Aretusa, dalle nere pendici dell’Etna/ (o dalla bocca più grande del vulcano), dai ciclopici scogli/ del mare, dalle sorgenti di ghiaccio,/ lungo l’anima delle terre cavernose,/ fino alle incontaminate foci dell’Alcàntara»). In un’altra lirica giovanile (la n. 546) dirà apertamente che la Grecia è la sua patria («Grecia, mia patria!»), mentre in clausola alla poesia che figura al n. 556, al termine di un appassionato elogio di Atene, collocherà un verso del legislatore Solone (fr. 3 G.-P.): ἡμετέρα δὲ πόλις κατὰ μὲν Διὸς οὔποτ᾽ ὀλεῖται. La citazione è in forma abbreviata: Solone voleva dire che la città di Atene non morirà per il destino di Zeus, ma per il malgoverno degli uomini; per Tripodo è sufficiente dichiarare che Atene, la sua amata Atene, non morirà mai.
La Sicilia torna in una delle rielaborazioni originali – perché non si tratta di traduzioni in senso stretto – dall’Odissea, dove si legge una singolare apostrofe a Ulisse da parte di una donna, forse Calipso o Circe, che richiama in una chiave originale il motivo letterario della relicta, della donna abbandonata, con evidenti contaminazioni con la vicenda di Didone raccontata nel IV dell’Eneide. Ma ciò che merita di essere sottolineato è il richiamo alla terra di Sicilia, con la menzione dei Faraglioni dei Ciclopi nella costa orientale (non c’è nemmeno bisogno di nominare l’isola) e soprattutto «l’azzurro mare al largo di Tauromenio». Tauromenio è il nome greco di Taormina, e l’azzurro mare è quello in cui Pietro Tripodo amava tuffarsi e nuotare nelle estati passate nella casa di famiglia a Mazzarò. Ecco quindi, da parte del poeta, un gioco erudito di appropriazione sentimentale del mito greco, che lo riporta ai suoi luoghi dell’anima.
Come si è già anticipato, Tripodo lavora direttamente su alcuni testi della letteratura greca e produce numerose traduzioni e rifacimenti, molti dei quali, tuttora inediti, si trovano nella sezione denominata Dei lirici greci della raccolta Il Copernico (1972), allestita in forma dattiloscritta dallo stesso Tripodo e nota solo attraverso una copia in possesso di Ignazio Visco[2]. Tra gli autori greci frequentati da Tripodo spicca Ibico, il grande lirico nato a Rhegion nel VI sec. a.C., e dunque magnogreco come lui si sentiva (il poeta, come si desume dalle testimonianze degli amici, amava la Calabria, la «venerabile» terra cui dedica un ritratto molto appassionato nella lirica 537 di Antologia poetica). Ibico è il poeta di un eros che, in accordo con una sensibilità piuttosto diffusa in epoca arcaica, si configura come forza inarrestabile e incessante e domina come un despota l’animo degli uomini. Su Pietro Tripodo traduttore di Ibico ha scritto contributi importanti Eleonora Cavallini, che si è soffermata con attenzione sulle due versioni del fr. 287 Davies, fornendo una convincente interpretazione dei due testi anche alla luce di alcuni richiami intertestuali. Di queste traduzioni, tuttavia, esistono due ulteriori versioni inedite, una nella medesima silloge Dei lirici greci, un’altra pubblicata negli anni Ottanta insieme ad altri componimenti, sotto il titolo di Amplitudine del sole, nella rivista Prato Pagano. La prima non presenta elementi di eccezionale novità rispetto alle versioni note, mentre nella seconda Tripodo opta per scelte più radicali, ma certo la presenza di ben quattro versioni del frammento 287 dà il senso del continuo labor limae del poeta sui suoi testi, mai definitivi e sempre soggetti a ripensamenti.
Altre due brevi traduzioni, di cinque versi ciascuna, sono ricondotte al nome di Ibico nella silloge tripodiana. Il primo frammento («La cicala frinisce, i rami sono stanchi/ di reggerla, misteriosa è la corteccia/ dell’albero, il mio cuore brucia (desi-/ dera pace e verità), ardendo come le/stelle di fuoco nella grande notte») si apre su una cicala che frinisce – immagine in sé pascoliana – con i rami stanchi di reggerla. Non si trovano cicale in Ibico, da cui invece derivano sicuramente gli ultimi due versi, che traducono, in modo piuttosto letterale, il fr. 314 Davies; allo stesso modo, l’immagine del cuore che brucia potrebbe richiamare il fr. 286 dello stesso Ibico, dove pure il concetto è più sfumato. Se si considera tuttavia la traduzione operata da Tripodo nella medesima silloge, che forza il senso del frammento ibiceo, si trova qualcosa di molto simile: «ma senza che si/ fermi, Amore, – senza primavera – mi brucia/ nelle vene come vento pungente del nord se la/ folgore scoppia». La metafora dell’amore come fuoco, di infinita fortuna dall’antichità fino ad oggi, rimonta a Saffo, la poetessa che ha fondato la fenomenologia e l’estetica dell’eros occidentale: sia nel fr. 31 V., la famosa ode della gelosia tradotta da Catullo (e Tripodo traduce il rifacimento catulliano), sia, in modo ancora più evidente, nel fr. 48 V. Quanto alla presenza della cicala, al di là di alcune suggestioni che potrebbero essere giunte al poeta attraverso i moderni (come il d’Annunzio della Tenzone), a mio parere Tripodo potrebbe avere in mente un passaggio delle Opere e Giorni di Esiodo, che egli stesso traduce nella medesima sezione (vv. 582 e ss.). Si tratta, nell’ambito dell’intento didascalico che muove l’opera esiodea, dei precetti relativi all’estate, in cui si deve conservare il raccolto, preparare il fieno e svolgere altri compiti analoghi appropriati al periodo. A Tripodo non interessano però i precetti, ma la descrizione del paesaggio, dove campeggia (vv. 582-3) una cicala che, seduta su di un albero, diffonde il suo canto. Interessa a Tripodo il paesaggio dell’estate ‘spossante’ (nel greco di Esiodo καματώδης), il sole abbacinante sul paesaggio mediterraneo, il momento dei demoni meridiani, in cui, come scrive in una lirica giovanile, «è tremendo il sonno del meriggio,/ quando la morte è vicina, proprio perché ormai non la si teme». Un’estate bruciante, quindi, in cui brucia anche il cuore, che arde come stelle di fuoco nella grande notte: e dunque la metafora d’amore si riflette nell’evocazione, solo allusa per via intertestuale, del paesaggio bruciato dal sole dell’estate. Ecco dunque un piccolo esempio del modus traducendi di Tripodo: selezione del materiale, tagli, riformulazioni, collage di testi diversi accomunati da medesime suggestioni, colte per intuizione dallo sguardo del poeta, che non dà vita a semplici traduzioni, ma a opere poetiche a sé stanti, sulla stessa linea, e tuttavia a mio parere con una più profonda consapevolezza linguistica e letteraria, di altri letterati del Novecento (Quasimodo, Pasolini). Osserva Emanuele Trevi che «l’interpretazione, per giungere al suo scopo, deve selezionare, ristrutturare, amplificare», per «ottenere quel regime di indistinzione tra le parole proprie e quelle altrui nel quale è ancora possibile scommettere sul significato» E ancora: «la lettura è sempre vincolata alla logica dell’inventio: senza di essa, semplicemente, ciò che si legge non esiste». In questo desiderio di toccare le radici profonde dei testi e in questa costruzione di significato per via combinatoria, con una padronanza assoluta degli strumenti poetici mi sembra risieda il senso ultimo della attività di traduttore di Tripodo.
Il secondo frammento («Il canto di Narciso adolescente/ echeggia nei giardini, negli orti,/ l’olmo respira il fiotto del vento,/ quando l’insonne splendido mattino/ desta gli uccelli») ha per oggetto il canto di Narciso in un paesaggio naturale, con la presenza di un olmo, che richiama contesti virgiliani e oraziani. Ibico non ha mai parlato di Narciso, anche perché l’elaborazione del mito, allo stato attuale delle conoscenze, non si può far risalire oltre il I secolo a.C., con la prima attestazione generalmente attribuita al mitografo Conone e la prima narrazione distesa al terzo libro delle Metamorfosi di Ovidio, da cui poi il mito si diffonde nella cultura europea e conosce una certa fortuna nel Novecento, grazie anche alla sua lettura in chiave psicanalitica. Dov’è dunque Ibico in questa traduzione di Tripodo? Ancora in clausola: «quando l’insonne, splendido mattino desta gli uccelli» è traduzione piuttosto fedele del fr. 303b di Ibico, con una variazione: il greco ἀηδόνας di Ibico significa ‘usignoli’, mentre Tripodo traduce più genericamente con ‘uccelli’. Quanto alla caratterizzazione di Narciso adolescente, essa può certamente discendere dalla descrizione ovidiana del mito, dove si dice che il figlio di Cefiso ha sedici anni e quindi si trova a metà tra la condizione di puer e di iuvenis (Met. 3.351-2). Tuttavia, mi sembra significativo notare che Carlo Emilio Gadda, autore letto e riletto da Tripodo, è autore di un curioso saggio, intitolato Emilio e Narcisso, in cui fornisce una ‘sua’ interpretazione del mito di Narciso (apparso per la prima volta nel 1949, è poi confluito nella raccolta I viaggi la morte, uscita per Garzanti nel 1958, ripubblicata nel 2023 da Adelphi). In questo scritto Gadda compie una sorta di esegesi, in chiave marcatamente ironica, del racconto ovidiano della storia di Narciso, commentando di volta in volta i vari aspetti della vicenda e desumendone considerazioni su un piano pseudopsicoanalitico riguardo al complesso di Narciso. Tripodo certamente conosceva Ovidio, ma non sembra fuori luogo immaginare che il testo di Gadda possa aver funzionato come testo sorgente.
Sempre alla sezione Dei lirici greci appartiene la traduzione di un breve passaggio dal III libro (vv. 744-50) delle Argonautiche di Apollonio Rodio, un meraviglioso notturno (Tripodo si era cimentato con il genere vertendo in italiano, con una traduzione piuttosto rigorosa, il famoso Notturno di Alcmane). È la notte del tormento d’amore di Medea, la notte che precede la pericolosa sfida lanciata da Eeta, re della Colchide, a Giasone: aggiogare tori che hanno zoccoli di bronzo e sputano fuoco dalle narici. Un silenzio perfetto avvolge la Colchide, quasi una calma prima della tempesta. La traduzione di Tripodo è piuttosto aderente alla lettera del testo, con piccoli scostamenti: la personificazione della notte, la traduzione di πόντος (‘mare’) come ‘Oceano’, ‘videro apparire’ per il semplice ‘guardavano’. Forse meno pregnante è la resa della chiusa del verso 750, che recita letteralmente «il silenzio possedeva la tenebra nera», mentre Tripodo traduce «c’è silenzio nel nereggiare dell’ombra». Merita tuttavia di essere notato, per la traduzione del greco κνέφας, l’utilizzo dell’avverbio ‘tenebricosamente’, che rimanda immediatamente al terzo carme del Liber catulliano, laddove il poeta piange la morte del passero di Lesbia, incamminatosi nelle tenebre dell’Ade. Tale carme Tripodo lo conosceva bene, poiché lo aveva tradotto (si trova sempre nella silloge dei lirici greci, a p. 56): ma in quella sua traduzione si legge semplicemente ‘esso cammina lungo un tetro sentiero’. L’aggettivo tenebricosus conosce una sua fortuna nella letteratura italiana, e trova impiego presso autori conosciuti e amati da Tripodo: anzitutto il Gadda del Pasticciaccio, ma anche lo scrittore maccheronico cinquecentesco Teofilo Folengo, di cui, secondo la testimonianza di Emanuele Trevi, Tripodo parlava, e che quindi conosceva.
Nella medesima sezione intitolata Dei lirici greci, le pagine 51-53 del dattiloscritto sono occupate dalle traduzioni di Tripodo di otto epigrammi compresi nella cosiddetta Antologia Palatina (o Antologia Graeca), una poderosa raccolta di testi epigrammatici di datazione anche molto difforme allestita in età bizantina. Tripodo traduce quattro epigrammi dal V libro, di contenuto erotico, e quattro epigrammi dal VII libro, tre dei quali di contenuto funerario. Se la scelta degli epigrammi riflette una contrapposizione fra eros e thanatos, tra il vitalismo dell’amore e l’incombenza della morte, temi che solcano la produzione tripodiana, può essere significativo in questo caso cercare di capire da dove Tripodo possa aver tratto il testo da tradurre. Al di là delle paludate traduzioni dell’inizio del secolo di Veniero (1905) e Ettore Romagnoli (1940-8), il roboante traduttore degli anni del fascismo, una buona selezione di epigrammi fu tradotta nel 1957, per l’editore Casini di Roma, da Annunziato Presta. Alla traduzione di un florilegio dell’Antologia Palatina si dedicò Salvatore Quasimodo, già curatore, nel 1940, di una scelta di Lirici Greci (questo il titolo dell’antologia, da cui Tripodo potrebbe aver tratto ispirazione per la scelta del titolo della sezione del dattiloscritto), che fece epoca e influenzò profondamente un’intera generazione. Quasimodo pubblica il suo Fiore dell’Antologia Palatina nel 1958, e in seconda edizione nel 1968, cioè negli anni in cui Tripodo attese alle sue traduzioni. Negli anni Sessanta videro inoltre la luce, a cura di Pietro Zari, la traduzione del libro V (Epigrammi erotici, 1964) e una scelta dei libri VI e VII (Epigrammi votivi e sepolcrali, 1965): forse proprio queste edizioni di singoli libri possono essere state utilizzate per i testi greci del V e del VII libro tradotti da Tripodo.
In conclusione di questa breve rassegna, da cui sono stati esclusi, solo per ragioni di tempo, altri autori greci non meno importanti (come il Callimaco della Chioma di Berenice, con l’ovvia intertestualità di Catullo, ma anche Alcmane, Archiloco, Teognide, Teocrito, gli epigrammisti sopra menzionati dell’Antologia palatina) si trae l’impressione di un poeta, Tripodo, profondo conoscitore della lingua greca, di cui si appropria per trarne significati ulteriori e le cui immagini archetipiche riversa nelle sue liriche raffinate, un filologo in contatto costante e fecondo con gli auctores della grecità, che mette in dialogo con la grande letteratura contemporanea. In altri termini, un umanista nel senso più profondo del termine, poiché, come ha osservato Gabriella Sica, «quel suo tradurre era, in realtà, l’esclusiva applicazione della sua poetica umanistica, lo svolgersi integro del suo spirito, la convinzione che è una singola nota del canto ciò che fa risorgere l’universo». Credo sia giunto il momento che Pietro Tripodo, attento e consapevole classicista, sia guardato come un classico della nostra epoca, non solo presso gli specialisti, che lo conoscono e lo apprezzano da decenni, ma anche presso il grande pubblico.
lorenzo.calafiore.94@gmail.com
[1] Antologia poetica è la prima raccolta di liriche di Pietro Tripodo, tuttora inedita: per notizie su questa silloge, nota solamente attraverso una copia conservata da Ignazio Visco, si rimanda al contributo dello stesso (e in particolare alle Appendici 1 e 3): https://www.insulaeuropea.eu/2024/05/11/note-e-ricordi-intorno-alle-prime-versioni-di-pietro-tripodo-le-sillogi-poetiche-degli-anni-settanta/. I testi citati infra sono stati generosamente messi a disposizione da Ignasco Visco.
[2] Si rimanda ancora al contributo di Ignazio Visco (https://www.insulaeuropea.eu/2024/05/11/note-e-ricordi-intorno-alle-prime-versioni-di-pietro-tripodo-le-sillogi-poetiche-degli-anni-settanta), in particolare all’Appendice 2.
L'autore
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Lorenzo Calafiore (1994). Laureato in Lettere Classiche, sta svolgendo il Dottorato di Ricerca presso l’Università di Perugia. Si occupa prevalentemente di Letteratura greca e del dio Dioniso, ma si interessa anche di arte. Appassionato di tennis e politica.
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