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«Nell’incerta ombra di una lingua che fu»: i “Sepulchra maris” di Pietro Tripodo

Sepulchra Maris è il risultato della traduzione di Le Cimetière Marin di Paul Valéry, che Pietro Tripodo completò presumibilmente nel 1979.

Nel periodo compreso tra il 1979 e il 1981, Tripodo cedette a Ignazio Visco la sua traduzione in latino medievale dell’opera di Valery, intitolandola appunto Sepulchra Maris; ad essa era annessa una fotocopia de Il Cimitero Marino tradotta da Mario Tutino nel 1966 per Einaudi, con il testo originale francese a fronte e l’epigrafe tratta dalla terza pitica di Pindaro.

Il testo si articola in due sezioni: la prima, rispettando il formato originale dell’autore, costituisce la traduzione delle ventiquattro sestine del Cimetière. Tutte le strofe tradotte, in versi decasillabi, sono composte da sei versi ciascuna, con l’eccezione delle prime tre (sette versi ciascuna) e della sesta (otto versi). Della suddetta traduzione, Pietro Tripodo pubblicò su «Dismisura» (XI, 57-60 agosto 1982, p. 25), sotto il titolo Sepulchra Maris, le strofe dalla IX alla XXIV. Nel manoscritto originale, così come nella pubblicazione in rivista, i due emistichi di ciascun verso sono visivamente separati quando è possibile farlo in modo completo. Sorgerebbe qui spontaneo l’interrogativo su quale motivo abbia spinto Pietro Tripodo a decidere di non pubblicare le prime otto strofe; tuttavia non è la prima volta che la sua indecisione nel considerare un suo lavoro definitivo gioca un ruolo cruciale nella scelta di tenere in cantiere le sue opere. È dunque presumibile che, in questo caso specifico, il poeta non si sentisse completamente a suo agio con le scelte operate a livello metrico, lessicale e grammaticale durante il processo di traduzione. Infatti, nelle Note allegate alle strofe contenute nel numero XI di «Dismisura» si fa esplicito riferimento alla sua incertezza e alla sua ricerca mai conclusa della perfezione.

La seconda parte del dattiloscritto originale, invece, intitolata Quid valérienne e note, consta di un dattiloscritto composto da 9 fogli di circa 70 righe ciascuno a interlinea singola con numerosissime revisioni manoscritte.

Il Quid valérienne e note, che seguono la traduzione delle ventiquattro strofe del Cimetière Marin rappresentano, quindi, un «testo quasi concluso» contenente «osservazioni riguardanti la traduzione», come indicato nella nota aggiunta da Pietro Tripodo alla fine della sezione di traduzione del Cimetière pubblicata su «Dismisura». Mentre le annotazioni forniscono dettagli sulle scelte metriche e lessicali adottate, il Quid valérienne costituisce un documento di ordine metodologico interessante per comprendere le basi teoriche delle successive traduzioni poetiche di Tripodo, nonché dei suoi rifacimenti. All’interno del testo, si trovano non solo osservazioni sulle ragioni del latino medievale come lingua per tradurre il Cimitière (e sulle relative implicazioni linguistiche, metriche e foniche), ma anche riflessioni su questioni filologiche e in parte filosofiche legate all’opera di Paul Valéry. Si affrontano altresì considerazioni sulla natura delle traduzioni poetiche e sull’eventuale intraducibilità della poesia (con riferimento specifico a questa traduzione e non solo). Inoltre, Ignazio Visco ha ritrovato, grazie ai familiari del poeta – i figli Giulia e Valerio, la sorella Patrizia e la cugina Ines Morisani, due serie di appunti e progetti di revisione della traduzione del Cimitière, da cui potrebbe nascere addirittura una nuova versione, completa se non definitiva. Nei primi fogli inediti si trova una copia del Quid valérienne e delle Note, rimaste invariate rispetto a quelle consegnate da Tripodo a Visco; tuttavia, in aggiunta, c’è un foglio, successivamente cancellato, contenente alcune questioni che avrebbe voluto discutere con Raffaele Manica (probabilmente prima della pubblicazione in rivista) e un paio di pagine con vari tentativi di revisione relative alle prime otto strofe della traduzione, mai pubblicate, così come il Quid e le Note. Il Quid, verosimilmente, non era destinato alla pubblicazione su «Dismisura», essendo un testo estremamente lungo e, probabilmente, rappresentante solo il «testo quasi concluso». Per quanto riguarda le Note, vale la pena ricordare che nella postfazione ad Altre visioni, curata da Pietro e pubblicata da Donzelli nel 2007, Manica afferma che dopo aver corretto le bozze per la versione da pubblicare su Dismisura, Pietro «passò la notte a correggere e al mattino non volle più pubblicare la nota»[1]. Le Note, infatti, contengono riferimenti anche ai versi delle strofe da I a VIII, non pubblicate, suggerendo che la complessità della riduzione in un testo riferito solo alle strofe pubblicate potrebbe aver influito sulla decisione finale di non pubblicarle, nonostante fossero già in bozza e probabilmente in vista di una revisione più approfondita. Per quanto riguarda i tentativi di revisione delle prime otto strofe, non si tratta di modifiche effettive, bensì di suggerimenti, appunti e bozzetti su come intervenire nelle strofe I, II, III, VI e VIII (escludendo IV e V). Questi interventi sono chiaramente successivi alla versione qui edita, ma probabilmente precedono la pubblicazione, nel 1982, delle restanti 16 strofe. In un insieme di fogli datati molti anni dopo e pochi mesi prima della sua scomparsa, si trova il Sepulchra Maris, preparato per una possibile pubblicazione. Da queste pagine emerge chiaramente che, a distanza di quasi vent’anni, Tripodo non avesse ancora risolto i suoi dubbi sulle prime otto strofe (le restanti sono riprodotte senza variazioni, dattiloscritte prima delle altre). Tra le otto strofe non pubblicate, la IV, la V e la VII non differiscono da quelle originali. La I è predisposta su sei versi con puntini al posto dei primi due e del primo emistichio del terzo, seguito da parti degli originali quarto e quinto verso, con nel sesto buona parte dell’originale settimo verso. Anche la II e la III sono riprodotte nella versione originale (sebbene rispettivamente di sette e otto versi); la VIII, invece, presenta puntini al posto del primo verso e dell’inizio del secondo, oltre a un punto interrogativo al terzo. Di notevole interesse, e in linea con quanto affermato prima, è la frase posta alla fine delle sedici strofe pubblicate: «Dubito che ci sia una sola strofa (non ne parliamo di quelle I-VIII; o forse sì?) che sia possibile da qualsiasi punto di vista: scelte lessicali e d’immagini e relativa precisione (anche se di vaga atmosfera medievaleggiante era meglio cercare maggiore memoria dei classici), e prima di tutto, grammatica, ecc.; da decifrare e valutare».[2]

Guidare il lettore alla comprensione delle motivazioni che hanno orientato le scelte linguistiche dei Sepulchra Maris è fondamentale per una corretta interpretazione di una traduzione sicuramente complessa e stratificata; pertanto, in questa sede verranno sviscerati, attraverso una analisi e un approfondimento del Quid valérienne, tutti gli argomenti da Tripodo proposti a supporto della sua traduzione in latino medievale di un’opera cardine della letteratura francese del primo Novecento.

Il verso adottato per la traduzione di Valéry, che nel Cimitero Marino utilizza uno «scarno décasyllabique francese attinto ai modelli della Délie di Scéve, e ad alcuni sonetti di Labé e Du Bellay», è quello cenobitico delle officiature del Mattutino e delle antifone e dei responsori dei Notturni: Tripodo spiega che, dopo la riforma carolingia, questo verso decasillabo, cesurato 4+6, avrebbe avuto un ictus in decima sede e, citando lo studio di Avalle sulla Preistoria dell’endecasillabo [3], spiega che quella cesura avrebbe irrigidito il verso a favore di una predominanza della paratassi, dell’iterazione sinonimica, dell’enumerazione, ossia di quei fenomeni che rendono i primi monumenti della letteratura francese scritti in décasillabes un tono di particolare arcaicità. E tale arcaicità è condivisa anche dai decasillabi dei ritmi e dei tropi mediolatini, assieme ad una patina di “lontananza” che, non a caso, è esattamente la stessa cercata da Tripodo nella sua traduzione: lontananza dalle lingue particolari, dal latino classico ma anche dal francese e dall’italiano. Tanto è che il poeta si scusa per non aver saputo ignorare la memoria involontaria dei ritmi dell’esametro classico e dunque di aver “contaminato” il testo con nessi, incipit e a capo provenienti dai versi latino-classici, per poi continuare con notazioni di ordine strettamente metrico. Ancora citando l’Avalle, Tripodo annota che «nel décasyllabe arcaico, quello cioè dei poemetti agiografici e delle più antiche chansons de geste, il primo emistichio è trattato come un verso a sé, tanto è vero che ammette dopo la quarta accentuata un’atona soprannumeraria che non entra nel computo totale delle sillabe». Dunque gli ictus su quarta e su decima sillaba sono immodificabili: pertanto Tripodo, computando l’atona soprannumeraria nel caso in cui i versicula potevano essere cesurati, propone nella sua traduzione le seguenti possibilità: 4+6 (totale 10) con ictus su quarta e decima, 5+6 – e questo sarebbe il caso della cesura trobadorica o italienne dove la quarta sillaba è seguita da una atona che entra nel computo totale delle sillabe del verso (e il totale viene undici, poiché anche il secondo emistichio, fermo l’ictus sulla decima sillaba, ha un’atona soprannumeraria, che si può contare), 5+7 e 4+8. In questi ultimi due casi, in cui si hanno sempre due ictus su quarta e decima, le ultime tre delle dodici sillabe sono mosse da un proparossitonismo ossitonico: questo perché Tripodo ammette una subliminale e continua (nonché “aggredita” dagli esametri) influenza, oltre che di gallicismi carolingeschi, degli asclepiadei minori di Alceo, di Orazio, di Prudenzio, di alcune chansons de geste, fino alla Jeune Parque dello stesso Valéry. Per Tripodo, e non solo, un antico verso latino così composto può essere considerato sillabicamente un endecasillabus, che sarebbe derivato con ogni probabilità dal decasillabo francese e sarebbe stato introdotto in Italia insieme con la prima lirica francese e provenzale.

Interessante, dopo alcune considerazioni sulla sensibilità degli uditori e alcune preoccupazioni del traduttore rispetto all’ambiguità di alcune collisioni semantiche inevitabili per ragioni metriche e di «soppesazioni minimali», la trattazione di un tema centrale del Cimitero Marino, ossia il pericolo che l’anima individuale corre di essere assorbita e nullificata dall’illusione dell’immortalità. Il v. 1 della strofa VIII riporta nel greco originale («Αὐτὸ καθ’ αὑτὸ     μεθ’ αὑτοῦ, μονοειδὲς ἀεὶ ὄν») la traduzione francese di Valéry («O pour moi seul, à moi seul, en moi-même») tratta dal Simposio di Platone, che Tutino traduce con «O per me solo, a me solo, in me stesso»[4].

Tripodo, considerato che il verso di Platone rientra in un computo dodecasillabico, sceglie di inserire le parole originali del filosofo greco che Poe pose in epigrafe al racconto Morella, per portare in superficie le memorie letterarie e filosofiche del poeta francese, i cui versi rielaborano, nella tensione di suono e senso, e con l’incarnazione di immagini tangibili, le grandi interrogazioni sulla dimensione temporale, in primo luogo, ma anche sull’illusione, sull’assoluto, sulla transitorietà, sulla mortalità, sul nulla, il tutto tramite la creazione di rappresentazioni corporee, attraverso il trionfo del visibile. Tra il bianco marmo delle tombe e lo scintillio dell’ampia distesa marina, si dipanano riflessioni sull’amore e sul decadimento, dove desiderio e dolore emergono come linguaggio intrinseco all’umano, così come l’attesa e il sogno. Sullo sfondo si delineano figure di pensatori come appunto Platone, ma anche Lucrezio, Agostino e Pascal. Tripodo sottolinea che il verso di Platone potrebbe fungere da epigrafe per l’intera traduzione, se non fosse che, a partire dalla strofa VIII, Valéry decide di ascendere «a un ulteriore gradino invocativo-ragionativo». Qui, si introduce l’ansia dell’attesa, l’osservazione da lontano di quelle sorgenti da cui scorre incessantemente l’acqua che rientra costantemente nel perpetuo moto chimico dell’esistenza. Nel gioco di questo movimento è necessario gettarsi e rimanere, a meno che Valéry non scopra qualcosa al di qua «della griglia elettrica del nulla». Valéry però non sa o non può ancora muoversi; è come Achille che, pur velocissimo, è costantemente dietro alla tartaruga (strofa XXI). L’inclinazione del pensiero, che emerge tra l’intensificarsi delle immagini, svela dunque chiaramente il suo profilo distintivo: la necessità dell’ombra, l’accettazione della condizione umana e della distanza dall’assoluto, dal principio. È un invito a «rientrare dans le jeu», ossia a reinserirsi nel gioco, che è un gioco di vita e morte insieme, a reinventarsi, opponendo al fascino dell’astrazione la pulsazione dei corpi[5]. Al richiamo dell’oltre, oltre il tumulto della vita presente, e al gelo della cancellazione, si contrappone l’onda del desiderio: la rinuncia all’assoluto è proclamata, e corpo e vita esprimono la loro essenza nel movimento del desiderio, in armonia con l’energia metamorfica e scintillante del mare. Pertanto, conclude Tripodo, è sicuramente preferibile come epigrafe[6] quella effettivamente scelta da Valéry e tratta dalla terza pitica («Anima mia, non desiderarti vita immortale, ma poniti a opere che ti sia dato compiere»).

Tripodo propone poi un parallelo di grande fascino: definisce Fontfroide «gemello geografico» di Sète; nella Abbazia della stessa Fontfroide egli immagina un pittore che potrebbe essere Valéry (se il poeta fosse stato pittore) affrescare il ciclo della Notte e del Giorno, come aveva fatto il simbolista Odilon Redon (e come ancor meglio avrebbe potuto fare Boecklin). Sicuramente «più vicina e mediterranea di Conques» conclude Tripodo «forse nei suoi vestiboli ancora agonizza l’eco delle sommesse preghiere in decasillabi» e forse quelle umili suppliche persistono nell’instabilità dell’etere (che in parte continua a esistere oltre di noi) e nella sostanza, seppur artificiale, che, vibrando attorno agli atomi e venendo registrata nei blocchi di basalto e granito che costituiscono il tessuto mutevole del mondo, possiede anch’essa vita, analogamente alle ossa. È a partire da questa suggestione sinestetica che la traduzione di Tripodo, da lui definita «tenuissima ombra del Cimitero Marino», si propone di gettare un ponte da una lingua per nulla conosciuta al traduttore (il francese) a una lingua che il tempo – l’ «ére successive»[7], citando Valéry – ha come serrato, col risultato di una traduzione che non viene da una lingua già data ma da una lingua «giammai traducibile», simile a quella che ciascuno di noi potrebbe ascoltare nelle proprie «sinapsi al mattino quando le gazze provano il giorno». Come non pensare ad una comunanza profonda di intenti poetici con lo stesso Valéry il quale rivelerà che il suo primo slancio verso l’ispirazione del Cimitero nacque da una sensazione puramente ritmica, priva di significato, colma di sillabe che sembravano vuote, e che per un certo periodo si trasformò in un’ossessione. Una vera e propria frase musicale, dunque, che si insinuava nella mente senza parole, ma che cercava di stabilirsi nella misura metrica del decasillabo; allo stesso tempo, però, questa misura, mentre risuonava, non a caso proiettava l’ombra del dodici, la conta sillabica dell’alessandrino, con la sua “potenza”, e tendeva verso quella soglia per poi ritirarsi (da cui la scelta della metà del dodici, la sestina, come strofa di composizione, e del doppio del dodici, ventiquattro, come insieme di strofe). Per un poeta come Valéry, fermarsi metricamente al di qua del dodici significava evitare l’eloquenza teatrale dell’alessandrino, metro esplicitamente escluso anche da Tripodo.

Attivare le sonorità del decasillabo con una flessibilità di cesure interne significava piuttosto ispirarsi all’endecasillabo dantesco, al suo esempio di vitalità ritmico-sonora e di modulazione razionale e contemplativa simultaneamente. Questa ispirazione prevalentemente sonora fa germogliare i movimenti del pensiero, offrendo loro un rifugio musicale: in definitiva, una volta che la forma metrica è penetrata dall’idea, essa entra in contatto con la peculiarità viva, ricordante e meditante del poeta, la sua storia personale di esplorazione interiore, sviluppo dello sguardo e interrogazioni sul legame tra vita e morte. L’esercizio metrico si trasforma quindi, parallelamente in Valéry e nel suo traduttore, in pensiero poetico[8].

Tripodo a ragione ritiene che Valéry, soprattutto attraverso il Cimetière Marin, abbia vagato lungo la battigia dell’Eternità con una caviglia lambita dalla risacca dell’assoluto. Questo istinto verso l’immortalità, l’inquietudine portata dal vento, dalla schiuma che si scontra con le rocce, dalla luce e dalle onde, che sono interferenze del giorno ma anche un rischio assoluto di morte, ha portato il poeta dall’immersione in queste esperienze fino alla riemersione presso quella riva limbica e speleologica, forse lontano da Villon e Baudelaire, da Laforgue, ma sicuramente meno distante da Dante, vicino a Mallarmé, quasi abbracciato, se vogliamo usare una metafora, ai Grandi Saggisti, a Gérard Genet, e pure a René Char, Yves Bonnefoy, Marcelin Peynet, Jean Pierre Faye, Denis Roche. E Mario Tutino, forse il più attento commentatore italiano del Cimetière, e non solo a giudizio di Tripodo, ha ragione quando afferma che queste strofe esastiche sono la matrice segreta di molta poesia italiana.

A questo punto Tripodo introduce il tema della traducibilità di un’opera, a partire dallo studio di Mounin, Teoria e storia della traduzione (1965), in cui si afferma la necessità da parte del traduttore di mantenere, se possibile, l’estraneità culturale ed etnografica rispetto all’epoca, o al mondo, del testo tradotto (altrimenti potrebbe accadere come a Leonzio Pilato, il quale invitato da Boccaccio a tradurre l’Iliade – a partire da una copia che Petrarca aveva ricevuto in dono da Bisanzio nel 1354 – ne propose una traduzione latina letterale più incomprensibile del testo greco proposto ad un principiante): oggi, dice il nostro traduttore, ammettiamo in partenza la sostanziale intraducibilità di un testo poetico e dunque l’inutilità della traduzione (a meno che non sia funzionale alla conoscenze delle letterature e delle culture da noi lontanissime, come quelle orientali) e per questo siamo sicuramente più predisposti ad apprezzare le riscritture anacronistiche (come l’Iliade di Monti, ad esempio) e a vedere la possibilità della traducibilità «quasi dappertutto». Di Mounin viene anche ricordata la teoria secondo la quale «l’intraducibilità di una poesia è una verità statistica, una questione di percentuale, non una verità metafisica…»; ciò implica che il traduttore deve preoccuparsi della forma più che del lessico, ma operando una distinzione e cioè rispettando un enjambement particolarmente significativo, alcune parole in principio o in fine di verso, alcune assonanze che più si stimano caratterizzanti, così che la forma guidi la scelta lessicale e non il contrario. Viene poi scandagliata anche la teoria dello strutturalista Sapir, secondo cui le zone non traducibili di un componimento poetico sono quelle più “impoetiche” in quanto legate a determinati giochi sonori o di parole dei quali si compiace quella determinata lingua. Tuttavia, avverte Tripodo, in questi casi la questione si pone in termini più complessi rispetto alla semplice traducibilità: se davvero fosse intraducibile ogni specificità linguistica, allora non avrebbe senso distinguere tra zone traducibili e non; d’altronde, conclude il nostro traduttore, la letteratura europea moderna è nata anche e soprattutto come rielaborazione. Non manca il pensiero dello stesso Valéry a proposito delle traduzioni: Tripodo cita due passi tratti dalla Traduction en vers des Bucoliques (Parigi 1956) in cui il poeta francese afferma prima che «in poesia la fedeltà limitata al significato è una sorta di tradimento» e poi che «i versi più belli sono insignificanti e sciocchi quando siano resi da un’espressione priva di intrinseca necessità musicale di risonanze» commentando che, nel suo caso specifico, la questione è molto diversa, e a parte la libera scelta del traduttore che dovrebbe comunque attenersi al testo e non a «determinate convinzioni dell’autore», vista la «segretezza del latino» – in particolare del latino medievale – le citate indicazioni di Valéry non sono congruenti. L’analisi prosegue affrontando il problema della traduzione-traslazione da mondo poetico a mondo poetico: al di là di Humboldt, oltre i principi saussuriani, e oltre Weigerberger, la questione è di natura linguistica più che culturale e in ogni caso riguarda la paziente decrittazione, del tessuto poetico, ai fini della sua rielaborazione concettuale (così come intesa da Valéry), senza escludere «l’intuizione immediata» da esplorare successivamente, ma di cui ci sentiamo comunque padroni, come lo è l’artefice-artista; un artefice che non è coinvolto, ma estraneo, celato dietro una maschera. Questa sostanza, ormai distante da quando si è raffreddata dai manoscritti nella lingua originale, fisicamente separata dal corpo umano, dal sistema fonatorio e soprattutto dalla mente-mano, forse staccata persino dal cervello e dalle sue funzioni più astratte, è ciò che, secondo Tripodo, costituisce il fondale del pensiero su cui concentrarsi, per ascoltare la voce remota di un linguaggio e dell’altro mondo meno estraneo che tenta di rispondere.

Una cosa è certa. Tripodo ha adottato le circostanze stilistiche insite nella divisione che fa il Cohen del poema, in quattro tempi, ossia: 1) Immobilità del Non-Essere o Niente eterno e incosciente (strofe I-IV); 2) Mobilità dell’Essere effimero e cosciente (strofe v-vIII); 3) Morte o Immortalità? (strofe IX-XVIII); 4) Trionfo del momentaneo e del successivo, del mutamento e della creazione poetica (strofe XIX-XXIV)[9]. Tuttavia, nel Cimitero Marino, da un lato lo stile tende ad essere fondamentalmente uniforme, dall’altro ci sono molti più “stacchi” anche all’interno della stessa strofa, come dettagliatamente Tripodo rileva nell’apparato di note al testo. Pertanto, egli ha incontrato «l’ombra del Cimetière Marin nell’incerta ombra di una lingua che fu: di un impero e del tempo delle ere successive il cui solo centro ancora splende di pinnacoli e guglie».

Questa affermazione, con la quale il Quid valérienne si chiude, testimonia ancora una volta come Tripodo, anche nelle sue numerosissime prove di traduzione, veda la poesia come esercizio di pensiero in tensione perenne verso l’esattezza: i suoi versi sembrano sì venire da un tempo remoto, ma questo tempo mistico ingloba e raduna in sé ogni altro tempo – il tempo eterno del Cimetière, che attrae l’anima e la illude di potersi immedesimare nell’Assoluto. Per questo nella sua scrittura poesia e traduzione sono dimensioni poste in parallelo, nella ricerca di un’unità tra forma e ispirazione al fine di una ricerca di continuità originale nel linguaggio e nei contenuti tra il lavoro di traduttore e le sue opere originali[10]. È in particolare su «Nuovi Argomenti» che l’autore spiega che cos’è per lui la traduzione, affermando che «tradurre è commuoversi del fatto che la vita non è prerogativa del singolo, non è solitudine assoluta», dal momento che «gli autori lontani ammaestrano il poeta, in dolce dialogo»[11]. In apparenza, dunque, la traduzione latina dei Sepulchra Maris sembra come fissata in un cristallo ma in realtà è straordinariamente mobile dal punto di vista metrico, formale e linguistico, così che da un lato essa rievoca il testo del Cimetière, e dall’altro ne prende le distanze introducendo atmosfere, personaggi e ambientazioni estranee allo specifico testo originale – ma non all’insieme dell’opera del poeta francese, poiché tradurre significa, infine, comporre, poetare, raggiungere quell’equilibrio difficile definito dallo stesso Valéry come «hésitation prolongée entre le son et le sens»[12].

[1] Pietro Tripodo, Altre visioni, a cura di R. Manica, Donzelli, Roma 2007.

[2] Ignazio Visco, Pietro Tripodo, Sepulchra Maris, https://www.insulaeuropea.eu/2023/09/11/pietro-tripodo-sepulchra-maris/. Tutte le citazioni successive dell’autore sono tratte dal Quid valérienne consultabile al link.

[3] D’Arco Silvio Avalle, Preistoria dell’endecasillabo, Ricciardi, Milano-Napoli 1963.

[4] Paul Valéry, Il Cimitero Marino, trad. di M. Tutino, Einaudi, Torino 1966, p. 15.

[5] Antonio Prete, Un verso / Paul Valéry. Il mare, il mare sempre rinascente!, https://www.doppiozero.com/paul-valery-il-mare-il-mare-sempre-rinascente.

[6] La stessa citazione sarà posta in epigrafe a Il mito di Sisifo di Albert Camus.

[7] str. XXII, v.1.

[8] Per questo motivo, Oreste Macrí propose una traduzione italiana del celebre testo poetico di Valéry, accompagnata da un fitto e colto apparato esegetico. Cfr. O. Macrí, Il «Cimitero Marino» di Paul Valéry. Studio, testo critico, versione metrica e commento, Le Lettere, Firenze 1989.

[9] Gustave Cohen, Essai d’explication du Cimetière Marin, Gallimard, Paris 1933, trad. it. Lettura del «Cimetière marin», Solfanelli, Chieti 2019.

[10] Eleonora Rimolo, Pietro Tripodo, un poeta filologo in “Prato Pagano”, in «Testo a fronte», n. 63, 2022, p. 291.

[11] Pietro Tripodo, Paesaggi e sentimenti. (Sulle imitazioni di Bertolucci), in «Nuovi Argomenti», 1995, n. 4, pp. 126-130.

[12] Paul Valéry, Rhumbs, in Tel QuelŒuvres, tomo II, Pléiade, Gallimard, Parigi 1960, p 637.

L'autore

Eleonora Rimolo
Eleonora Rimolo
Eleonora Rimolo (Salerno, 1991) è Dottore di Ricerca in Studi Letterari presso l’Università di Salerno. Ha pubblicato il romanzo epistolare Amare le parole (Lite Editions, 2013) e le raccolte poetiche Dell’assenza e della presenza (Matisklo, 2013), La resa dei giorni (Alter Ego, 2015 – Premio Giovani Europa in Versi), Temeraria gioia (Ladolfi, 2017 – Premio Pascoli “L’ora di Barga”, Premio Civetta di Minerva, Finalista Premio Fiumicino, Finalista Premio Fogazzaro) e La terra originale (pordenonelegge – Lietocolle, 2018 – Premio Achille Marazza, Premio “I poeti di vent'anni. Premio Pordenonelegge Poesia”, Premio Minturnae, Finalista Premio Fogazzaro, Finalista Premio Bologna In Lettere, Premio Speciale della Giuria “Tra Secchia e Panaro”, Segnalazione Premio “Under35 Terre di Castelli”). Suoi inediti sono stati pubblicati su “Gradiva”, “Atelier”, “Poetarumsilva”, “Poesiadelnostrotempo”, “Poesia2punto0” “Perigeion” e tradotti in diverse lingue (spagnolo, arabo, russo, francese, inglese, portoghese, macedone, rumeno). Con alcuni inediti ha vinto il Primo Premio “Ossi di seppia” (Taggia, 2017) e il Primo Premio Poesia “Città di Conza” (Conza, 2018). È Direttore per la sezione online della rivista Atelier.

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