- Pietro Tripodo negli anni Sessanta e Settanta
Ho già in diverse occasioni ricordato Pietro Tripodo, di cui è nota e celebrata la ricca, “febbrile”, attività di “poeta e traduttore” negli ultimi due decenni del Novecento. Con Pietro, compagno di liceo negli anni Sessanta, interlocutore assiduo negli anni Settanta e poi amico di una vita ahimè breve, ho condiviso per anni interessi e approfondimenti culturali, pur avendo finito per imboccare strade apparentemente distanti[1]. Non divergevamo certo, però, nel riconoscere il debito nei confronti della nostra tradizione classica.
Per quanto mi riguarda, da tempo sostengo che si debba fare ogni sforzo per superare una volta per tutte la barriera che da noi ancora sembra dividere la cosiddetta cultura “umanistica”, da quella “tecnico-scientifica” (oltre che per innalzare i nostri livelli di “conoscenza”). Comunque, se la prima, di cui i “classici” sono fondamento, sempre meno appare essere valorizzata nell’opinione comune, sulla seconda, le cui radici non sono in fondo diverse, ancora troppo poco da noi e in Europa si investe, con difficoltà crescenti anche nell’azione di contrasto dei gravi problemi demografici, ambientali e geopolitici che oggi così tanto ci affliggono[2].
Si tratta, in effetti, di questioni che già affliggevano e sulle quali si interrogava il giovane Pietro; per lui come mi scriveva esattamente cinquant’anni fa, “l’evoluzione scientifica, la tecnica, l’urbanizzazione, l’automatismo, l’industrializzazione, la maggiore velocità di comunicazione, l’aumento della popolazione” costituivano infatti fenomeni difficilmente sostenibili, anche sul piano personale. Ne conseguiva quindi, da un lato, una a volte particolarmente accentuata tendenza a chiudersi verso l’esterno, pur restando, come dice, il filosofo, “compagnevole animale”, bisognoso di amicizia e affetto, desideroso di riuscire ad avere una vita normale (per quanto “normale” può essere una vita). Dall’altro, altrettanto accentuato era a volte il timore di confrontarsi con la realtà, con una natura in qualche modo bifronte, da maledire non meno che venerare, anche se non per questo egli viveva “fuori dal mondo”, come forse, pur vinte molte delle sue ansie più antiche, è sembrato essere quando, riconosciuto ormai il suo valore anche all’esterno, con la realtà ha finito per scendere ai patti.
Questo timore, come ho detto o scritto nei miei ricordi, amplificava il “male di vivere” di cui Pietro a lungo sofferse, in modo particolarmente accentuato per oltre un decennio. Certamente, come così appropriatamente e così bene hanno osservato Raffaele Manica ed Emanuele Trevi[3] egli sentiva “sua” La Cognizione del dolore di Gadda. E nel tempo, la lingua, il lessico, la stessa ironia gaddiane hanno certamente costituito uno specchio nel quale guardarsi, con cui confrontarsi, anche se da subito lingua, lessico e ironia furono elementi innati del suo modo di essere e comunicare. Da subito, peraltro, fu il modo di porsi nei confronti del “male oscuro” di don Gonzalo, in un ambiente, una realtà, che non gli pareva distante dal suo, ad attrarlo e forse anche in parte spaventarlo, in un “corpo a corpo” a volte molto duro, il cui esito vedeva con ansia e non poca sofferenza, ma senza rassegnarsi e quindi affidarsi alla montaliana “divina indifferenza”.
Negli anni Sessanta e Settanta, in cui lesse molto e molto scrisse, fu forse anche questo a spingerlo a immergersi in entrambe le attività in maniera estrema, in modo non dissimile nei suoi primi anni da “poeta e traduttore” da quanto poi finì per fare negli ultimi, di “traduttore poeta”, quelli, per intenderci, dei Canti di scherno e d’amore di Arnaut Daniel, ma anche della poesia “senza verso” di Vampe nel tempo. Quali allora le sue letture? Con chi iniziò il suo confronto? Certo, già allora, anche per la provenienza di parte della sua famiglia, il mondo greco e della Magna Grecia – quello dell’Odissea e dei lirici greci, fino a Saffo e a Ibico – costituiva per lui, come per la lirica latina, un richiamo non resistibile. E, dei latini, certamente Orazio, con Catullo e Ovidio, Lucrezio e il Virgilio delle Georgiche.
Ma ampia era in quegli anni la schiera degli autori, di versi e di versioni, moderni e (quasi) contemporanei, che furono per lui occasione di lettura e rilettura, riflessione e discussione. In un ordine un po’ sparso, e senza pretese di ricordi esaustivi, la mia memoria va a Pessoa, Jimenez, Machado, Rubén Darío, Neruda e Asturias; Quasimodo, Montale, Piccolo e Calogero; Pope, Eliot, Lee Masters e Whitman; Rilke, Rimbaud, Valéry, Frenaud e Nelly Sachs. E poi ovviamente, nella nostra tradizione ed educazione anche scolastica, Carducci, Pascoli e D’Annunzio; Foscolo e Leopardi; Dante, gli stilnovisti e i provenzali. Alcuni sarebbero rimasti a lui sempre presenti, altri in via mediata, molti se ne sarebbero aggiunti negli anni a venire, in un dialogo continuo e familiare, che lo vide da subito partecipe e attento.
Non cominciò, infatti, come parrebbe guardando alle date delle sue pubblicazioni, a scrivere e tradurre poesia dagli anni Ottanta in poi. Anzi, nei suoi primi anni di “attività” – che dal maggio del 1967, come egli stesso ricordava, andò affiancando, per ampia parte del suo tempo libero, lo studio, spesso a esso sovrapponendosi – molto produsse, sempre attento a selezionare, rivedere, “rifare” ciò che scriveva. Era certo preoccupato della qualità della sua produzione, ed era già sempre straordinariamente alla ricerca della parola più giusta, nonché istintivamente già in grado di tirar fuori toni musicali elevati e ritmi particolari in tutto ciò che componeva.
Al tempo stesso Pietro Tripodo era ben consapevole delle sue capacità; non scriveva solo, come molti come lui sensibili ma assai meno dotati, per sé stesso. Da un lato, infatti, osserverà venti e più anni più tardi riguardo allo scrivere poesia: “essa soltanto può essere più forte del dolore, e nonostante tutto, pur sempre – questa è la sua colpa – rasserenare”[4], non risolvendo ma solo aiutando ad accantonare temporaneamente angoscia e paure. Si rendeva quindi necessario andare all’origine della sofferenza, in un consapevole ancorché laborioso e a volte doloroso esercizio di “cognizione del dolore”.
Dall’altro lato, però, scrivendo si ambisce a comunicare, trasferire ad altri la propria “arte”, a interlocutori che saranno, ciascuno a modo suo, in grado di apprezzare. Al riguardo, già allora, quindi, Pietro ambiva a essere “pubblicato” ma, come ho in altra sede ricordato, temendo di non riuscirci. Queste – agosto 1972 – le sue parole: “Non ci sarà mai “nessun ‘potente’ – né critico, né editore – che abbia voglia di pubblicare tutte le mie cose … Purtroppo la ‘realtà’ è quella che è e io non voglio essere in alcun modo ‘travolto’ (pensa a un Lorenzo Calogero – si parva licet)”.
Eppure, sia pure a un lettore come me ben disposto ma non per questo disattento o poco consapevole, già nelle sue produzioni di allora, tra il 1967 e il 1980, non solo la visione era alta, ma la qualità, la capacità di toccare il cuore e la mente, l’anima, di un interlocutore potevano raggiungere livelli inattesi. Come ho detto, io ero e sono però un interlocutore di parte; come tale credo che si debba operare per avere una visione complessiva dei risultati raggiunti da Pietro Tripodo, nelle sue composizioni come nelle sue traduzioni di poesia, anche più di quanto critici sapienti e amici devoti siano riusciti a fare finora, a opera quindi di studiosi dedicati e di editori generosi e lungimiranti.
Non mi assumerò perciò, in questa sede, il compito di affrontare un complesso percorso di analisi critica, poiché non ne sarei in grado. Cercherò invece di illustrare, sulla base delle raccolte che ebbi la ventura di ricevere da Pietro negli anni Settanta, per conservarle (e forse anche un giorno per diffonderle), l’ampiezza e la varietà del suo lavoro “classico” e sui “classici”, con una luce “moderna” di intensità fuori, a volte, dall’ordinario.
Va inteso che, anche se quelle raccolte già furono il risultato di una profonda attività di selezione e revisione, certo il Tripodo degli anni Novanta, se ben disposto e gentilmente sospinto, avrebbe saputo, operando soprattutto per sottrazione, portarle ai livelli ricercati e pienamente raggiunti (ancorché, come ricorda Raffaele Manica, mai definitivi) negli ultimi anni di una vita purtroppo non lunga a sufficienza. Sono ancora, infatti, quelle raccolte, soprattutto “contenitori”, anche se via via più qualificati, per muovere nella direzione poi conseguita, anche in parte attingendovi, con la pubblicazione di Altre visioni nel 1991. Ritengo tuttavia che da esse molto possa essere tratto, con grande giovamento per chi legge.
Parlerò quindi anzitutto delle raccolte, in alcuni casi vere e proprie sillogi, descrivendone brevemente il contenuto. Ne considererò poi il rapporto con i “classici”, parlando dell’attività del Pietro Tripodo “traduttore poeta”, che ebbe inizio già in età molto giovane, avanzando alcuni riscontri e osservazioni che potrebbero essere complemento di un qualche interesse a recenti, approfondite, interpretazioni. Infine, farò un cenno alla classicità così alta e moderna, certo non di maniera, che si ritrova “oltre” le traduzioni, le versioni e i “rifacimenti”, ma anche alla loro base, in versi lirici e potenti. Versi, volutamente contaminati, nella lingua e nei ritmi, da un’immersione profonda in quello che potremmo definire, usando un’espressione a lui cara, l’“immenso mare” che già allora egli si mostrava in grado di riuscire, con maestria, a dominare.
- Le raccolte degli anni Settanta
Nel 1970 Pietro mette insieme, ciclostila, rilega e distribuisce ad alcuni amici una sua Antologia poetica, “concepita non come scelta del fiore della mia produzione, ma come testimonianza di quel periodo della mia vita che va dal maggio 1967 all’ottobre 1969”, un periodo, aggiunge, che ha avuto alterne vicende, con alterne vicende quindi anche per la sua produzione. La silloge consiste in una selezione di oltre 450 poesie, numerate come dovevano essere in origine (e quindi con salti relativi a quelle non selezionate), per un totale di circa 250 pagine dattiloscritte.
L’Antologia è divisa in 5 sezioni; la prima (Focus, la più consistente), risentendo anche del momento storico – il “sessantotto” – nel quale erano stati prodotti, contiene anche testi di natura politica e sociale; nelle tre successive sezioni sono raccolti componimenti più intimi, anche di natura e ricerca religiosa; l’ultima (Delle Terre) è quella dove più espliciti e diretti sono i riferimenti di origine classica (peraltro largamente diffusi lungo tutta l’opera). Alla fine della raccolta compare anche un “Piano dell’opera nel prossimo futuro”, molto dettagliato, con nuovi titoli che poi ritroveremo anche in raccolte successive.
Pietro Tripodo ambiva a che la sua opera fosse non solo conosciuta ma anche pubblicata. Era certamente consapevole della necessità di operare a questo fine un’attenta selezione, considerando debole la qualità, sul piano dell’arte, di molte delle poesie contenute nell’Antologia. Nella prima metà degli anni Settanta, tuttavia, in un contesto di forte tensione emotiva e di rigetto di ciò che riteneva sconveniente, sul piano morale, religioso o politico, nonché di delusione, sul piano esistenziale e su quello sentimentale, decide di distruggere le copie rimastegli, senza peraltro richiedere la restituzione di quella in mio possesso.
Nel 1972, quando mi trovavo per ragioni di studio negli Stati Uniti, egli mette insieme una seconda raccolta, di circa 230 poesie, Il Copernico, divisa in sezioni simili a quelle dell’Antologia, a eccezione di una, dal titolo Dei lirici greci. Mentre anche delle poesie di questa raccolta, datami in fotocopia in occasione di un mio rientro in Italia nel 1973, finisce poi per essere in complesso insoddisfatto, per motivi analoghi a quelli che lo avevano portato a separarsi dall’Antologia oltre che per dubbi di natura qualitativa, quest’ultima sezione resterà nel tempo di evidente ispirazione per versioni e rifacimenti successivi; di essa tratterò nel paragrafo 3.
Negli anni seguenti Pietro continuerà ad aggiungere a queste due consistenti raccolte, di cui aveva deciso personalmente di staccarsi, altre di minori dimensioni, consegnandomene via via copia e confidando che le avrei conservate con cura, incluse le prime due, a futura memoria e anche per sue eventuali necessità. Quelle portate a termine negli anni per lui forse più difficili, tra il 1973 e il 1975, sono: Frammenti e ricostruzioni (con 24 poesie, di cui 2 cancellate), Rifacimenti, sostituzioni e altro (22 poesie, una cancellata), e Mese di marzo al bivio (4 poesie). È interessante osservare che le prime due includono testi tratti dall’Antologia (rispettivamente 6 e 3) e da Il Copernico (3, tutte nella seconda), evidentemente ancora da lui stesso conservate. A queste tre raccolte si aggiungono nel 1976 7 componimenti, di cui due particolarmente lunghi e uno il “rifacimento” di una poesia, Femme déserte, di André Frénaud (dattiloscritta anche in originale), raccolti sotto il titolo di Aracnidea.
Nel frattempo progredisce il progetto di produrre raccolte di qualità a suo giudizio più elevata con testi sui quali – come risulta anche dalle carte, spesso manoscritte, da lui lasciate – interviene con successive revisioni ancor più di quanto fatto in precedenza, con riflessioni e ripensamenti sulla loro migliore sequenza. Tra il 1978 e il 1979 Pietro mi consegna, in successione, 4 diversi insiemi di poesie raccolte sotto il titolo di Visioni Sovvisioni, di volta in volta con revisioni (anche di una tratta da Rifacimenti), aggiunte e rimozioni; fin dall’inizio troviamo una versione di “Paralogia regredita”, la cui ultima revisione sarà su Dismisura, nel 1982, la sua prima poesia pubblicata.
Una parte di questi testi va a formare una prima raccolta, intitolata FLORA e compiuta nel 1979; in essa troviamo, preceduta dal titolo di Visioni, una sola sequenza di 8 poesie, tra cui la versione definitiva di “Paralogia regredita”[5]. Queste otto poesie divengono poi la prima sezione (dal titolo Flora) di una più ampia e in qualche modo definitiva silloge, messa insieme tra il 1979 e il 1980, sempre intitolata FLORA e contenente altre 4 sezioni[6]. La seconda e la terza, i cui titoli sono Visioni e Altre Visioni contengono ciascuna 7 poesie; da esse Pietro trarrà, in toto e in parte, tre delle poesie poi pubblicate nel 1991 nel volume che ancora deciderà di intitolare Altre Visioni.
Di particolare interesse è l’ultima sezione, intitolata Versioni. Essa inizia con 8 traduzioni, o meglio rifacimenti, da Poematia et epigrammata di Giovanni Pascoli; di essi, sei saranno poi anch’essi pubblicati nel 1991 in Altre Visioni e i rimanenti due nel saggio su “Pietro Tripodo traduttore del Pascoli latino” pubblicato da Alice Cencetti nel 2020 nel fascicolo di Semicerchio dedicato a “Pietro Tripodo e la traduzione dei classici”[7]. Troviamo inoltre versioni di due Odi di Orazio: la IX Ad Taliercium e la XI Ad Leuconoem, la prima pubblicata nel 2020 nel saggio di Eleonora Rimolo sempre nello stesso fascicolo di Semicerchio,[8] la strofe finale essendo anche l’ultima delle otto pubblicate nel 1987, come “Vino di quattro autunni”, in La Taverna di Auerbach, e la seconda pubblicata prima in Dismisura nel 1984 e poi ancora, nel 1991, in Altre visioni). In questa sezione di FLORA sono anche presenti la versione di un epigramma di Ausonio e quelle di 2 carmi di Catullo (rispettivamente l’epigramma XVIII e i carmi XCVI e LXXII), pubblicate e commentate nello stesso saggio di Rimolo citato in precedenza. Infine, abbiamo il rifacimento, inedito, di un celebre frammento di Ibico, 6 Diehl (o 286 Page)[9].
Un elenco completo di tutte le raccolte degli anni Settanta, con la mia ricostruzione, sulla base di carte e ricordi, degli anni in cui le completò e me le consegnò per conservarle, è contenuto nell’Appendice 1.
- Traduzioni, versioni, rifacimenti
Pietro Tripodo iniziò molto presto la sua “contaminazione” con i classici, anche con traduzioni e rifacimenti che avrebbero poi costituito nel tempo una delle cifre principali della sua opera poetica. Di queste versioni, come spesso lui stesso le considerava, ne troviamo a più riprese anche nelle raccolte degli anni Settanta. Alcune anticipano altre prove sullo stesso testo poi pubblicate negli anni Ottanta e Novanta. Molti dei testi di quelle inedite sono riportati nell’Appendice 2. Di una (il frammento 7D/287P di Ibico), oltre alla versione inedita, si riportano anche tre successive versioni su cui mi soffermerò più avanti. Non riporto invece quelli di Orazio, Ausonio e Catullo, così come quelli pascoliani, pubblicati negli anni, oltre che in Altre visioni, in Semicerchio.
In Antologia poetica, la sua prima raccolta, non figurano versioni da lirici greci o latini. In compenso, in una delle 5 sezioni – intitolata “Di Dio (seconda parte, dalle prime 21 poesie)” – rinveniamo tre rifacimenti di poemi della tradizione babilonese e asiatica (riferiti rispettivamente all’Enuma Elis, al mito di Ištar, e al Buddha Matrayia), nonché un’originale traduzione del Cantico delle creature di San Francesco[10].
Il Copernico contiene invece un’intera sezione “Dei lirici greci”. Come esergo Pietro mette, nella lingua originale, la dodicesima strofe del Cimitero marino di Paul Valéry, autore che lo accompagnerà negli anni, sia spingendolo alla “follia” (così Emanuele Trevi) della traduzione in latino (medioevale) del Cimetière, sia a proporre, da ultimo, di “spostare leggermente l’affermazione di Valéry (portata dal poeta del Cimetière fino al paradosso), secondo la quale ogni autore, ogni testo poetico, è infinitamente interpretabile: esso sarà, anche, infinitamente traducibile”[11].
In complesso la sezione contiene 27 brevi testi: 3 sono rifacimenti o elaborazioni su parti dell’Odissea omerica, mentre in uno si propone una versione dei primi 19 versi dell’undicesimo canto – Nekyia, la discesa all’Ade – che già molto lo aveva colpito ai tempi del liceo; abbiamo quindi versioni da frammenti di Teocrito, Anite, Mnasalca, Leonida di Taranto, Apollonio Rodio, Dioscoride, Meleagro, Marco Argentario (3), Alcmane, Teognide (4), Ibico (4), Esiodo e Archiloco (2), nonché, forse paradossalmente trattandosi di lirici greci, di due carmi di Catullo, o forse no, almeno per uno dei due, celebre versione da Saffo.
Con riferimento a quest’ultimo, Ille mi par esse deo videtur, si può qui aggiungere una chiosa. Nel saggio su Pietro Tripodo traduttore del Pascoli latino precedentemente citato, Alice Cencetti ricorda come anche Catullo, pur iniziando a tradurre Saffo in modo letterale, finisca poi per inserire “elementi personali nell’originale greco”. Un modus operandi coltivato da Pietro, e che porta l’autrice a scrivere: “è impossibile che Tripodo non avesse presente il rifacimento catulliano (LI) dell’ode di Saffo”. In effetti, non solo egli l’aveva presente ma già produceva all’inizio del decennio una traduzione notevole, letterale ma ispirata e metricamente il più possibile fedele, di questo bellissimo carme.
Nell’Appendice 2 si riportano i testi relativi ai quattro frammenti di Ibico, al celebre Notturno di Alcmane e ai due di Catullo. Riporto inoltre, dalla raccolta Aracnide, il rifacimento di una poesia di André Frenaud del 1960, poeta ben conosciuto in Italia, certo moderno, anzi contemporaneo, e forse distante dai “classici”. Eppure, forse, anche un anticipo precoce di altre traduzioni di poeti moderni con cui Pietro si cimenterà negli anni seguenti.
Delle versioni contenute in FLORA ho parlato nel paragrafo precedente: tutte sono state poi pubblicate, a eccezione del frammento di Ibico, il celebre frammento 6D/286P su primavera e amore. Lo riporto qui subito dopo una precedente versione, anch’essa inedita, una delle 4 della sezione “Dei lirici greci” de Il Copernico. A differenza di quest’ultima, quella di fine decennio è molto più che una traduzione, suggestiva e forse non distante dal rifacimento del frammento 7D/287P.
Di quest’ultimo frammento sono state estesamente, e con estrema cura, commentate da Eleonora Cavallini[12] la versione pubblicata nell’edizione Rotundo di Altre visioni (1991) e quella del 1998, non pubblicata in vita dall’autore e di cui dà conto, pubblicandola, Raffaele Manica nella “Notizia sul testo” con cui si chiude il volume edito da Donzelli nel 2007. Ebbene, esistono altre due versioni: la prima, inedita, una dei quattro frammenti dei primi anni Settanta; la seconda, pubblicata in un insieme di cinque componimenti dal titolo “Amplitudine del Sole” su Prato Pagano nella seconda metà degli Ottanta. A parte le differenze di metrica e stile, queste quattro versioni hanno una caratteristica in comune: nel riferirsi al colore degli occhi (poeticamente “palpebre” o “ciglia”) del dio Eros, Pietro non si accontenta, osserva Cavallini, di un semplice denotativo come “nero o “blu scuro”, ma fa riferimento – nel presupposto di “una dottissima ricerca etimologica” – al “fiordaliso”. Questo vale tanto per il Pietro Tripodo in età matura quanto per il Tripodo traduttore-poeta ancora alle prime armi.
- La poesia oltre le traduzioni e i rifacimenti
Nelle Appendici 3, 4, 5 e 6 sono presentate alcune delle poesie contenute in 4 delle raccolte di cui ho dato conto nel paragrafo 2 (ed elencate nell’Appendice 1). Si tratta, in complesso, di circa il 6 per cento degli oltre 750 testi che, al netto di traduzioni e rifacimenti, compongono queste raccolte. Il mio intento – oltre quanto si può direttamente ottenere dalla lettura delle traduzioni e dei rifacimenti considerati nel precedente paragrafo e presentati nell’Appendice 2 – è di dar forza, leggendole e apprezzandole, ad alcuni assunti che costituiscono le principali motivazioni di questo breve intervento.
Anzitutto, l’attività poetica di Pietro Tripodo inizia ben prima di quando comincino le sue pubblicazioni, in riviste e volumi. In effetti, già dalla seconda metà degli anni Sessanta attività poetica e versioni poetiche appaiono essere considerate dall’autore un tutt’uno, e come un tutt’uno i suoi testi vanno letti.
In secondo luogo, fin dall’inizio le singole parole (mai desuete anche se a volte antiche e sempre meditate), il lessico (moderno, in costruzioni già spesso innovative), il ritmo delle composizioni, la disposizione metrica costituiscono caratteristiche chiare del modo di intendere e comporre poesia da parte di Pietro. Questo, in un processo che lo vede misurarsi intenzionalmente, anche sulla spinta delle sue sofferenze interiori, con il bisogno di continue revisioni, affinamenti, sottrazioni e sempre più con la necessità di trovare i giusti equilibri nella disposizione dei testi.
In terzo luogo, si tratta di un processo che mira a far emergere in modo naturale il suo pensiero e il significato della sua ricerca, senza sacrificare la qualità lirica del modo in cui cerca di comunicarlo. Un processo che si affina nel tempo, con l’obiettivo di dare sempre più unitarietà ai suoi lavori. In questo, un ruolo di assoluto rilievo mi pare sia svolto proprio dalla più soddisfacente ricerca ritmica, fino a rinvenire modalità appropriate, negli ultimi anni, anche nelle sue brevi composizioni in prosa, “senza ritmo”, non alternative a mio modo di vedere a quelle in versi.
Infine, l’essenza, quasi l’immanenza, della natura (terra, acqua, fiori, alberi, volatili), la complessità, quando non la caducità, dell’amore, l’inarrestabile trascorrere del tempo sono, fin dalle raccolte da cui sono tratti i testi presentati in queste appendici, i temi profondi e costanti di una narrativa poetica che progredisce, come qualità ma anche soddisfazione personale, nei due successivi decenni. Con essi, nel tempo forse Pietro riuscirà a fare i conti con una visione certo non ottimista dell’umana natura.
- Una conversazione da riprendere
In conclusione, un obiettivo di queste pagine è stato quello di promuovere una visione unitaria dell’opera pluridecennale di Pietro Tripodo, inclusa quella sotto traccia, intuibile ma che mi pareva necessario far emergere. Allo stesso tempo, mi premeva, al di là del mio non essere sufficientemente equipaggiato per esprimere valutazioni critiche e giudizi di valore letterario, comunicare il piacere, la commozione, a volte l’incredulità provate nel leggere, e rileggere, gli scritti di Pietro degli anni della nostra giovinezza.
Nella quarta di copertina dell’edizione Donzelli di Altre visioni si legge che Pietro Tripodo “è considerato uno dei massimi poeti del secondo Novecento”. Non sta certo a me dare un giudizio su quest’affermazione. Di fatto, però, Pietro continua a essere un poeta, un autore, di nicchia, se non di culto. Credo che sia giunto il tempo di dargli il giusto riconoscimento su una scala più ampia, come illustri studiosi già propongono, così da mantenere viva una conversazione bruscamente interrotta.
In massima parte quest’intervento ha voluto portare alla luce – anche con i testi qui riprodotti – la capacità di Pietro di parlare anche per il tramite dei grandi del passato con cui ha inteso mantenere e intensificare un dialogo continuo, al di là del tempo e dello spazio. Per chiudere, non trovo di meglio che usare parole che si rinvengono in alcuni dei saggi da lui – non solo poeta e traduttore, ma studioso erudito e sapiens homo non solum eloquens, oltre che persona sensibile e cara a molti – scritti negli ultimi suoi anni di vita. Sono anch’essi saggi poco noti e quindi poco letti; anch’essi, ritengo, andrebbero, una volta raccolti, diffusi e studiati.
Nei riferimenti agli autori di cui Pietro scrive non è peraltro difficile leggere appieno il suo pensiero nonché intravedere elementi che potrebbero senza dubbio essere a lui stesso riferiti:
“[Lucio] Piccolo [o Pietro Tripodo…] è un moderno (anzi un romantico): si immerge nell’oggetto; è – direbbe Klee – tutt’uno con l’oggetto, e lo fa a modo suo, attuando il mulinargli del mondo attorno, come nella memoria che s’è formata dall’infanzia, e che ha creato una mitologia propria, ontogenetica… ”[13]
“Manifestiamo una libera gratitudine ai contemporanei, a coloro che ci sono vicini, e a cui dobbiamo tanto: anche da loro è un insegnamento, così come dai classici, o dai grandi critici del passato anche recente, o dai filologi. … La poesia degli antichi (i demiurghi che formano e trasformano, per dimorare come elementi vitali e interagenti al centro della nostra anima, si chiamino Saffo, Virgilio, Sannazaro, D’Annunzio o Montale) ha generato non solo opere ma, dentro di noi, mondi reali, mondi che sono diventati materia, terra del nostro sentimento. È così che Lidia diventa l’oggetto d’un interiore universale, Leuconoe d’un sentire vivente.”[14]
“Tradurre è commuoversi del fatto che la vita non è prerogativa del singolo, non è solitudine assoluta, se altri cantarono d’uno smarrirsi simile al nostro, d’una consimile paura della morte, o d’ignominie impensabili, o dell’Aurora dalle dita rosate: commuoversi per la stessa cosa che ha commosso un altro poeta è una storia che parte da Saffo e da Mimnermo di fronte ai poemi omerici: parafrasando Stefan George, riflettere è cantare.”[15]
“Restringendo il campo alla traduzione ‘vera e propria’, quando questa riguarda la poesia o il poème en prose, è possibile dunque pensare che il testo della lingua d’arrivo diventi autonomo, una creazione a sé, con proprie leggi interne, formali e insieme spirituali, analoghe oppure dissimili da quelle della fonte.”[16]
“Da tempo la poesia, da tempo l’arte … è nel nonostante tutto. …Pensare, ringraziare, commuoversi. Ci si riconosca come si riconosce una patria. Non siano nominati invano gli dei, né siano relegati in mondi alieni: il mito ha bisogno del tragico, e se sintesi c’è, essa opera su una complessità anteriore: il mito ha bisogno d’una perfetta fusione tra la sua filogenesi e l’ontogenesi che ne riscrive. Nonostante tutto, sì, riconosciamo il divino nell’uomo.”[17]
“Personalmente non ho mai escluso, nella letteratura come nella vita, alcun paradosso. E d’altro canto una minaccia questa volta proveniente dalla morte anziché dalla vita, o meglio i fatti di morte stanno proprio qui, nel dibattersi nella gabbia di forme eccentriche, dibattersi che poi è vitalità e non morte…”[18].
“A qualcosa si tenta, impossibilmente, di tornare; le immagini antiche che si abbandonano perché non riproducibili e nello stesso tempo quelle che si tenta di rifar presenti; la pienezza del prima, dell’universo poetico degli antichi … è come la fenice degli Annali di Tacito, come la Fenice del Cligès, come l’aura. Nella tristezza d’un vuoto che si tenta di colmare … e in quest’arte che, corsi via i secoli, tenta di essere e fiorisce … a partire da un’origine appunto lontana, è lo stigma d’una riflessione, dell’istituzione d’un’altra, eternata lontananza, è lo stigma – luogo essa stessa d’una bellezza che s’aggiunge alla bellezza – d’una perdita.”[19]
“Lo so: è in odio a tutti chi pensa che l’arte sia un mezzo. Dev’essere, l’arte, fine a se stessa. Ma come invisibile all’artista e involontario è quel fine che si consustanzia all’arte solo nel suo compimento ed è quello che a volte ci consola. Ci fa vibrare Orazio per quello che dice, ma ancor più per come.”[20]
E alla ricerca del “come” Pietro Tripodo, innanzitutto poeta, ha sempre dedicato tutto sé stesso. Il suo genio poetico ha trovato sublimazione nelle laboriose revisioni, nell’essenziale ricerca della giusta parola, del giusto metro, della migliore resa fonica, nel passaggio, non dato per scontato, dal disegno completo nella sua mente alla traduzione testuale più vicina alla perfezione. Una perfezione mai data per acquisita, sempre pronto, quindi, ad aggiungere, togliere, modificare. Eppure, per chi lo legge, ogni singola prova è un risultato compiuto e la stessa successione di testi inediti, pubblicati e ancora rivisti costituisce un’opera in sé, consente una “conversazione” che non si ferma.
Appendice 1 – Elenco e datazione di sillogi e raccolte non pubblicate di Pietro Tripodo
Antologia poetica, 1970 (oltre 450 poesie, in volume ciclostilato)
Il Copernico, 1972 (circa 230 poesie, di cui 27 versioni e rifacimenti)
Frammenti e ricostruzioni, circa 1973-75 (23 poesie, alcune da Antologia poetica)
Rifacimenti, sostituzioni e altro, circa 1973-75 (23 poesie, alcune da Antologia poetica e da Il Copernico)
Mese di marzo al bivio, circa 1973-75 (5 poesie)
Aracnidea, circa 1976-77 (7 poesie, di cui una “rifacimento” da Frenaud dopo il dattiloscritto del testo originale)
Visioni Sovvisioni, circa 1978-79 (4 raccolte, anche da precedenti e con revisioni ed eliminazioni successive, l’ultima con 12 poesie di cui 2 cancellate)
FLORA, 1979-80 (raccolta ampia e completa con 4 sezioni)
- Flora, 8 poesie già in una raccolta immediatamente precedente anch’essa dal titolo FLORA ma poi di fatto intitolata Visioni (la quinta, “Paralogia regredita”, rivista da prove precedenti in Visioni Sovvisioni, poi pubblicata in Dismisura, 1982), con in ultima pagina illustrazione manoscritta a me indirizzata delle motivazioni relative al loro ordine)
- Visioni, 7 poesie (di cui la quinta “Non feste…” poi in Altre visioni, Rotundo, 1991, così come, tolti i primi 5 e gli ultimi 8 versi, come “L’obliato colmo…” la sesta)
- Altre visioni, 7 poesie (la terza “Quanto al tempo…” poi in Altre visioni, Rotundo, 1991, tolti gli ultimi 3 versi)
- Versioni
- Da Pascoli (Poematia et epigrammata), 8 poesie (6 poi pubblicate in Altre Visioni, Rotundo, 1991, e le altre 2 in un saggio di A. Cencetti, Semicerchio, 2020; di cui alcune pubblicate anche prima in Prato Pagano, 1985)
- Da un epigramma di Ausonio (XVIII Ad uxorem), 1 poesia (poi pubblicata in Rimolo, Semicerchio, 2020)
- Da due odi di Orazio (IX Ad Thaliarcum e XI Ad Leuconoem), 2 poesie (la prima poi pubblicata nel 2020 Rimolo, Semicerchio, 2020, e, prima, gli ultimi sei versi come ultima strofe di “Vino di quattro autunni” in La Taverna di Auerbach, 1987; la seconda poi pubblicata in Dismisura, 1984, e quindi in Altre visioni, Rotundo, 1991
- Da un frammento di Ibico (6D 286P), 1 poesia (inedita)
- Dai carmi di Catullo (XCVI e LXXII), 2 poesie (entrambe anch’esse poi pubblicate in Rimolo, Semicerchio, 2020)
Sepulchra Maris (e Quid Valérienne e Note), 1979-80
Tra le carte lasciate da Pietro, in una cartella denominata “Visioni, 1967-1976”, vi è un foglio di calendario con data mercoledì 2 maggio, che contiene solo due versi; questi appartengono alla versione di una delle traduzioni dal Pascoli “Frante lesene…”, contenuta, con le altre, nella sezione Versioni della silloge FLORA; in questa sezione vi sono anche le due versioni da Orazio, tra cui quella, da molti giustamente celebrata, del carme XI, pubblicata prima in Dismisura nel 1984, poi in Altre visioni nel 1991. Il 2 maggio venne di mercoledì sia nel 1978 sia nel 1979; è molto probabile che sia quest’ultimo l’anno di stesura di queste versioni da Orazio e Pascoli, anno al quale, peraltro, in altri fogli manoscritti vengono fatte risalire anche alcune delle poesie contenute in Visioni Sovvisioni e poi in Flora. Il frammento da Ibico (6D) contenuto in FLORA non sembra essere tra le carte rinvenute nella cartella “Visioni, 1967-76”; esso si aggiunge al rifacimento del frammento (7D) pubblicato nel 1991 in Altre visioni e alle versioni di altri 27 frammenti dei lirici greci in precedenza inclusi nella raccolta del 1972, Il Copernico.
Tra il 1972 e il 1981 io sono stato negli Stati Uniti per quattro periodi: luglio 1972-luglio 1974, luglio 1975-gennaio 1976, 4° trimestre 1978 e 2° semestre 1981. Durante un breve rientro nell’estate del 1973 Pietro mi diede copia de Il Copernico ed ebbi certamente le successive tre raccolte prima della mia seconda partenza nell’estate del 1975. Sono sicuro di avere avuto FLORA – perché io la conservassi insieme alle precedenti, che temeva potessero andare perdute o in un suo momento di crisi essere da lui stesso eliminate… – dopo il mio terzo soggiorno e ben prima della mia ultima partenza: da qui la mia originale datazione “1979-80”, confermata dalla visione delle carte. A quegli stessi anni deve risalire la stesura del Sepulchra Maris (versione latina del Cimitière Marin di Paul Valéry, da me trascritta con il Quid Valérienne e Note nel 2024 e pubblicata in Insula europea).
Appendice 2 – “Versioni” e “rifacimenti”
Da Antologia poetica, cicl., 1970
N. 530 Il nuovo Enima Elis
Quando lassù il cielo non aveva nome,
e qui da noi la terra non aveva parola che la definisse,
quando dall’apsu originario il tutto scaturì,
e Mummu Tiamat, da cui scaturirono volta celeste e terra,
come cieca belva rimescolava in turbini l’acqua primeva,
e quando la prima capanna ancora non era costruita,
né i giunchi laggiù delle paludi si scorgevano ancora,
e quando nessuno, nessuno degli dei –né Anu né Enlil suo figlio,
né Ea supremo sapiente, dominatore dell’apsu, né Sin la luna,
né Shamash il Dio sole, né Ishtar o Ininna, per cui l’uomo
e la donna s’uniscono– si era ancora formato, condensando attorno a sé materia,
e a nessuna cosa era stato dato nome,
e in tutta la natura le energie segrete non erano placate,
ecco finalmente furono creati gli dei.
Lassù. –Ai confini delle energie segrete. Nel tempio delle leggi universali.
Fra tutti gli dei il più sapiente ed il più saggio nasce: il dio Marduk !
Dall’apsu nasce Marduk.
Dal risplendente apsu, ecco, nasce Marduk!
Suo padre, Lahmu, e sua madre, Lahamu, lo hanno fatto.
Fu allattato ai seni di tutte le dee,
e lo allevò la sua nutrice e lo colmò di magnificenza.
Del dio Marduk,
altissima la statura, fulgente lo sguardo dei suoi occhi,
e maschio nacque, il più maschio di tutti,
e fin quando nacque cominciò a generare.
Lo ammirò il suo creatore, Lahmu,
ne ebbe immensa gioia, e il suo cuore si riempì di letizia.
Lo aveva creato perfetto, colmo d’una duplice essenza divina,
il più forte di tutti gli dei.
Con una lancia di luce infatti spaccò in due la mostruosa Tiamat,
e da essa nacquero il cielo e la terra.
Non conoscibile e ben modellato il suo corpo,
non conoscibile il suo corpo immenso a vedersi.
Quattro erano i suoi occhi, quattro le orecchie,
quando parlava dalla bocca usciva fuoco.
Le sue quattro orecchie crebbero,
e con i quattro occhi contemplò l’intero cosmo.
Del dio Marduk,
altissima la statura, fulgente lo sguardo dei suoi occhi,
ben modellato il suo corpo, immense le sue membra,
Lahmu, suo padre, disse. “O figlio mio o virilità! O figlio mio o virilità,
o figlio del sole, sole del cielo, o virilità!”
Contornato dalla sublime cerchia dei dieci iddii
Marduk era fortissimo.
Da Antologia poetica, cicl., 1970
N. 538
Verrà, o notte da cui l’alba sorge,
verrà, o monti da cui l’alba sorge,
–dalle vette di cristallo a settentrione, il fermo Himàlaia–
verrà, oceano le cui acque rismuovono i venti,
verrà, verrà –è passato infatti, è già passato un kalpa–
verrà il Buddha Maitreya.
Verrà a noi, son passati, infatti, un miliardo e seicento milioni di anni,
verrà a noi, s’incarnerà, parlerà alle genti.
Corpo! Quando nascerai dal fianco destro della madre tua,
a risplendere! O toro della nostra generazione,
o padre del sole –alla nascita e alla tua morte un fulgore mai visto
illuminerà l’universo intero ed ogni vivente, ed i trenta cieli,
ed il trimundio con i suoi dei da per tutto illuminerà,
ad ogni sua meditazione sentirai la terra scuotersi,
segno di nuove conquiste del cielo, per tutta l’umanità!
Di nuovo Mara sarà sconfitto, sotto l’albero del risveglio,
di nuovo parlerà il cielo per bocca di Indra,
di nuovo il più amato degli uomini parlerà agli uomini.
Da Antologia poetica, cicl., 1970
N. 547 Il nuovo mito di Istar
È sorta, sorge adamantina dall’orizzonte di biancastro fuoco
la chiara alba, Istar mattutina.
Nella casa buia s’era rintanata ieri sera, al calare del sole,
nella casa d’Irkalla, dove chi va non ha speranza di ritorno,
dove chi va vi dimora per sempre.
Con fresca forza vi è ritornata stamattina –però è scesa dalle anime dei morti–
è risorta con gloria Istar mattutina.
Da Antologia poetica, cicl., 1970
N. 558 Che Dio mi perdoni la sfrontata contaminazione
[Cantico delle creature]
Altissimo, onnipotente, buon Signore,
Tue son le lodi, la gloria e l’amore, ed ogni benedizione:
a Te solo, Altissimo, si confanno,
e nessun uomo è degno di menzionarti.
Sii lodato, mio Signore, da tutte le tue creature,
e specialmente dal fratello Sole,
che fa giorno e c’illumini con esso,
ed è bello e radioso con grande splendore:
di Te, Altissimo, porta significazione.
Sii lodato, mio Signore, dalla sorella Luna e dalle stelle,
l’hai formate nel cielo chiarissime, preziose e belle.
Sii lodato, mio Signore, dal fratello Vento,
e dall’Aria con le nuvole, dal sereno e da ogni tempo,
con che alle tue creature dai sostentamento.
Sii lodato, mio Signore, dalla sorella Acqua,
che è sempre molto utile, ma soprattutto umile, e vergine preziosa.
Sii lodato, mio Signore, dal fratello Fuoco,
con il quale c’illumini la notte,
ed è bello e festoso, portentoso e forte.
Sii lodato, mio Signore, dalla nostra madre Terra,
che ci sostenta e ci governa,
e che produce diversi frutti e colorati fiori ed erba.
Sii lodato mio Signore da coloro che perdonano perché Ti amano,
e che sostengono tremende infermità;
beati quelli che le sosterranno in pace,
poiché da Te, Altissimo, saranno incoronati.
Sii lodato, mio Signore, da sorella Morte corporale,
dalla quale nessun uomo vivente può scappare.
Guai per quelli che la morte troverà in peccato!
Beati quelli che essa troverà nella Tua santa compiacenza,
poiché così la seconda morte non sarà cattiva.
Lodate e benedite il mio Signore, e ringraziatelo,
e servitelo con grande umiltà.
Da Il Copernico, sezione “Dei lirici greci”, mimeo, 1972
Ibico, Frammento 7
Per Amore, guardandomi ancora con gli occhi
pieni di desiderio, da sotto le palpebre di
fiordaliso, con lusinghe infinite, io
cado nelle non districabili reti della bella
Afrodite, tremo al suo assalto, come
un cavallo da bighe, usato un tempo per
vittorie, ora vecchio, a malincuore s’avvia
con l’agile carro alla gara.
Da “Amplitudine del Sole”, in Prato Pagano, Autunno 1986-Inverno 1987
Ibico, Frammento 7
Da quanto Amore trovandomi
con lusinghe infinite mi guarda.
Se non fugge, occhi struggenti,
da ciglia di fiordaliso con le armi
di Venere mi spinge a quelle rocce.
Per questo tremo a lui dinanzi, e viene
come un destriero ai carri dell’autunno
vecchio, glorioso di vittorie un tempo
e adesso ai carri agili
nell’ora del mutamento.
Da Altre visioni, sezione “Ai carri dell’autunno”, Rotundo, 1991
Ibico, Frammento 7
Amore di lusinghe infinite
volgendo fra le ciglia di fiordaliso
ancora in me struggenti sguardi,
armi a Venere dentro cieche dimore
mi spinge. Di questo tremo a lui dinanzi, e viene
come un destriero ai carri dell’autunno
vecchio, glorioso per vittorie un tempo
e ai carri agili adesso,
la gara intorno.
Da Altre visioni, Donzelli, 2007 [circa 1998]
[in “Notizia sul testo”, di Raffaele Manica, sezione “Sotto le sue armi”]
Ibico, Frammento 7
Amore per lusinghe inesauribili
volgendo fra le ciglia fiordaliso
ancora ove son io struggenti sguardi
nelle reti di Cipride intricate
me sotto le sue armi a forza spinge.
Di questo tremo a lui dinanzi e incedo
come destriero ai carri già d’autunno
glorioso un tempo per vittorie vecchio
viene con agili polledri stretto
a gara che rifiuta e svuole e teme.
Da Il Copernico, sezione “Dei lirici greci”, mimeo, 1972
Ibico, Frammento 6
A primavera, acque fluenti scorrono il ruscello,
e inondano di freschezza i meli cidonii e i puri
giardini delle ninfe, e sotto i tralci carichi
d’ombra c’è la potenza delle vigne in fiore,
turgide per il tempo avvenire: ma senza che si
fermi Amore, –senza primavera– mi brucia
nelle vene, come vento pungente del nord se la
folgore scoppia, erompe dal sangue –ah vertigine–
e con la tenebra, non più domabile, è il vio-
lento despota del mio cuore, fin dalla giovinezza.
Da “Versioni” in FLORA, mimeo, 1979-80
Ibico, Frammento 6
Ma solo a primavera i meli e i tralci
di smeraldo fioriscono ai viventi,
quei meli che i fiumi equinoziali
dissetano al giardino del sole,
dove i tralci carichi di ombra
si avvinghiano alle pergole degli orti,
neri e d’oro si stendono fra i muri
e ai curvi peschi, a zaffìri di mandorli,
tutti fioriscono a primavera.
Primavera fiorisce senza posa,
sta insonne primavera senza pioggia
l’adolescente Amore che saetta.
Come il fiore dell’ibisco e l’autunno
cielo e acqua arrossano, foglie di loto
infinite e Bora avvampa le aure
della pioggia, sì Amore mi trascina
schiantandomi alle rocce di sirena,
al tempio della sua divina madre.
Da Il Copernico, sezione “Dei lirici greci”, mimeo, 1972
Ibico frammento [La cicala…]
La cicala frinisce, i rami sono stanchi
di reggerla, misteriosa è la corteccia
dell’albero, il mio cuore brucia (desi-
dera pace e verità), ardendo come le
stelle di fuoco nella grande notte.
Da Il Copernico, sezione “Dei lirici greci”, mimeo, 1972
Ibico frammento [Il canto di Narciso…]
Il canto di Narciso adolescente
echeggia nei giardini, negli orti,
l’olmo respira il fiotto del vento,
quando l’insonne splendido mattino
desta gli uccelli.
Da Rifacimenti, sostituzioni e altro, mimeo, 1973-75
Ibico frammento [Il canto di Narciso…]
Il canto di Narciso adolescente,
come la sua eco
nei giardini si ode, negli orti,
quando l’insonne splendido mattino
desta le gazze.
Da Il Copernico, sezione “Dei lirici greci”, mimeo, 1972
Alcmane, Notturno
Ascolta, amore, il silenzio:
dormono le cime delle montagne,
dormono i crepacci, le valli
e i precipizi, dorme la specie
dei serpenti, quanti ne nutre
la nera terra, e le belve nei
boschi dormono, e le varie famiglie
delle api, e i mostri, lontani
nell’oscuro baratro del mare,
dorme la progenie degli uccelli dalle ali veloci.
Da Il Copernico, sezione “Dei lirici greci”, mimeo, 1972
Catullo (Saffo…)
Egli sembra a me essere simile a un dio,
egli sembra a me superare gli dei,
egli che siede dinanzi a te
e ti contempla e ascolta
e dolce ridente, e questo a me infelice
rapisce i sensi: infatti, Lesbia, non appena
ti ascolto, niente di voce sopravvive
nella mia bocca,
ma la lingua s’intorpidisce, ma una fiamma
sottile si propaga nelle membra, e le orecchie
tintinnano di un loro ronzio, e i miei due occhi
sono avvolti dalla notte.
Da Il Copernico, sezione “Dei lirici greci”, mimeo, 1972
Catullo [Scritta quando morì il canarino della mia donna]
Piangete, piangete, o veneri e amori,
e quanti di voi amano la bellezza,
è morto il canarino della mia donna,
il canarino che essa teneva nel suo giardino,
cui più che ai suoi occhi teneva!
Era dolce come il miele, e conosceva la padrona
Come una bimba conosce la madre, e non
si allontanava mai dal suo grembo,
ma sempre le saltellava intorno, e non
faceva che pigolare, non faceva che pigolare.
Ora esso cammina lungo un tetro sentiero,
verso quel luogo da cui tutti dicono che nessuno ritorni.
Ma che siate maledette, dannazioni dell’Orco!
Voi, che vi divorate la bellezza!
Vi siete inghiottite questo mio povero canarino!
Oh sciagura! (Povero uccello!)
Ed ora, per questo fatto gli occhi spendenti della mia donna
sono gonfi di pianto.
Da Aracnidea, mimeo, 1976-77
Femme déserte
Une fois encore l’inutile rencontre.
Pour avoir trop aimé en vain
autrefois,
à qui pardonnerai-je?
Je suis à la recherche d’un sourire perdu,
s’il m’était destiné.
Il a glissé dans l’ombre et je me suis défaite,
tremblante comme un nuage.
J’avance très vite parmi rien, toujours,
au hasard d’une marche sans lumière,
intrépide.
Et j’attends l’éclaircie, à défaut
d’être brûlante pour resplendir.
Je suis sourde et ne peux parler, j’essaie de rire.
Les peupliers, les regards passent sur la route
entre les buissons de rêve saignant, leurs éclairs vains.
[Quand sera le repos d’un clair sommeil sans rive,
où rien ne retentit? Eau douce, eau morte enfin,
le songe aussi n’est plus.]
15 juillet 1960 André Frénaud
Donna deserta
Sempre (sono) in cerca d’un
sorridere smarrito da minute
ombre nascoste, diviso, io
foschia, meriggio svanito.
Nel nulla avanzo e nonostan-
te tutto e più veloce di quanto io
da me sola
potrei o in me la forza
consentirebbe e a lume spento (e: mal-
grado me).
Non io potendo, o il mio corpo, nemmeno
farmi un barlume minimo, non io bruciando, non da me
ardore, qualunque splendore al di fuori di me
essendo, senza me.
Spento udire: spenta ogni voce
possibile in me, deserta, tento,
di ridere, di vivere.
Sguardi non viventi, grandi occhi malati,
sul perno d’un collo tor-
to, attonita
bocca,
quasi di lèg-
gere tentano, morti
specchi, la polvere del viale.
Appendice 3 – Da Antologia poetica, cicl., 1970
(alcune, riviste, anche in Frammenti e ricostruzioni, mimeo, [FR], e in Rifacimenti, sostituzioni e altro, mimeo, 1973-75, [RSA], qui nell’ultima stesura)
N. 5
Un sonno eterno dormiremo insieme
là dove più calore hanno le stelle
in una notte d’infinito buio.
Vaga ogni spirito con luce di brillante
vaga e lamenta di esistere pur sempre.
N. 95 [RSA]
Qui nella mia stanza: di sera, quando tu venivi;
il tavolo, pianura immensa e polverosa al sole,
dove i libri, sogni infiniti, immobili sostavano
(letture di profili, e d’occhi).
Sì, nella penombra, noi, noi siamo,
N. 183
Ma forse questa vita dovevamo prendere.
Forse dovevamo far sì che tutti i nostri desideri
fossero perfetti.
Già tramanda la penombra
le maledizioni di un fiore mutilato.
E invecchiano le icòne per aver saputo
le disarmoniche nascite.
Pesa il destino dell’uomo,
meditano i vecchi nelle chiese.
N. 186
Dall’infinito. Dal basso, fumoso
di nebbia.
Sui muri aguzzi a guardia dei venti,
quattro statue. Per quattro cancelli,
quante sono le direzioni del cielo.
E bene mi sembra entrare nel cancello a est,
dall’oriente dell’anima mia,
là dove s’erge perfetto
Apollo il poeta.
N. 197
“Domani risolcheremo l’infinito mare”,
ma io non voglio andarmene, voglio restare qui,
nella luce diamantina dell’alba.
Ho bevuto ellèboro d’oriente,
perciò mi fermo. Distendo il mio corpo
nella terra degli ulivi.
Contemplo,
come un dio greco
sulla pietra solare della perfezione.
N. 228 [RSA]
Tu – cancellata per milioni di anni
la nascita di Venere dal mare –
dall’onda esci, spuma i tuoi capelli,
bianca, con rugiada che trema al lieve vento.
N. 283
Quando tu vieni, grande estate,
il sole ci urla nella pelle,
e chi sa di estinguersi in inverno
ne approfitta e si nutre di te.
Quando tu vieni
nel mare viola
dei porti
nascono grandi meduse,
e qualche nave le ucciderà.
Quando tu vieni, immane estate,
non volano più i gabbiani,
il sale della tua saggezza è cosparso per i monti,
vola via
poi
perfettissima
la tua sacra nudità.
N. 284
Bruci ariete nel rogo
fumo
al sole che tramonta
nel cielo
uccelli strepitanti
augurio. Serenissima volta
del mondo popolato
da una nuova umanità.
Sacro fumo per Saturno
per le costellazioni,
tu essenza d’ariete,
sole,
estremo occidente.
N. 304 [FR: DAL PAESE ABBANDONATO I°]
Mi ero dimenticato di dirti che si è arrugginita
anche la ringhiera di ferro.
Forse la pioggia.
E ci sarebbero tant’altre cose che non vanno,
il pavimento consumato
e il calcinaccio che si stacca.
Non so perché tutto questo non m’importa,
come per esempio non mi domando perché le
rondini sono così silenziose
– le rondini qui sotto –
né perché il paese sia così silenzioso.
N. 311 [FR: DAL PAESE ABBANDONATO VI°]
Qua ve lo giuro porterò alla gente
la notizia più triste degli astri del cielo
(la prima esperienza terrestre del dolore):
il qui presente paese.
Il qui presente paese, pallidi il cielo
il sole e la luna, stecchiti gli insetti,
le bestie da soma, non più una mosca che
bussi alla porta.
Andiamocene via, anima mia, via,
lasciamoci alle spalle ciò che è deserto,
le rondini squillanti (squillanti per cosa), il sole e la luna
sepolti nella terra.
N. 328 [FR]
forse un giorno tutto s’avvererà
e il vuoto e azzurro cosmico e tremendo
ci prenderà,
e noi ce ne andremo per profondi viali
(altissimi alberi a lato)
e non ne vedremo la fine –
noi nel pallore dell’assenza uniti
mano per mano con gli occhi chiusi
come a sognare un’eternità,
d’amore,
se brulica zampilla ribolle
la vita minute erbe petalo per petalo
arbusti a migliaia e insetti con piccole ali
N. 350 [FR]
Due colline, terrigne labbra
della voragine. Là io mi immagino
quando l’estrema cellula energetica
m’avrà lasciato e i canti degli uccelli
e i lunghi discorsi dei tapiri e le meditazioni
delle talpe e dei lombrichi avranno sfondato
le mie trombe d’eustachio e il mare a lungo
battendo e ribattendo m’avrà
scavato i piedi col suo sale e il vento
che parte dal deserto avrà consumato
tutti i miei capelli e i lapilli infuocati
dei crateri avran bucato la mia tenera pelle,
N. 370 [FR]
Cielo, più candido del seno
della mia donna, io vorrei essere te,
assimilare a te la mia anima,
libera per l’aria e per gli alberi
e per gli opposti pianeti della spirale.
N. 373 [RSA]
Quando nella vastità dei mari e delle terre,
nell’umido segreto dei torrenti e quando
tranquillamente gli insetti si riproducono
o vengono divorati da rondini o rane,
e quando dalle coste del pianeta
sorgono i primi vapori della nuova primavera,
e quando sorge l’alba per le ignote campagne
nel lontano casolare ricco d’olmi
mentre narciso dorme,
tu senti la terra scuotersi, segno
di un nuovo cielo
ultrasecolare e vulcani spenti accendersi
di nuovo vigore
e il mare tempestarsi di bianco
e di spaventàti gabbiani,
(è lui, l’enosigèo.)
N. 391
È il tremendo sonno del meriggio,
quando la morte è vicina, proprio perché ormai non la si teme.
Perché sonnolenza è morte,
morte delle cicale, morte degli insetti,
mentre sopravvive l’anima dell’usignolo!
N. 521
Anche tu,
Delfi,
pietra primigenia da cui le fonti nacquero,
e il mondo nacque,
con le terre senza fine per le cime innevate,
e per gli dei che nacquero incontaminati
dalle acque delle fonti.
N. 522
Io qui sbarcato a Patrasso,
vorrei oltrepassare quei monti,
quella neve ultrasecolare,
per giungere sano nel corpo e nella mente
a Olimpia, terra di semidei.
N. 523
Io, greco di origine – nel corpo la nostalgia delle terre distese
e delle isole –
dalla terra che confina con tre mari,
la Sicilia dalle tre punte cardinali,
nacqui. Dalla fonte d’Aretusa, dalle nere pendici dell’Etna
(o dalla bocca più grande del vulcano), dai ciclopici scogli
del mare, dalle sorgenti di ghiaccio,
lungo l’anima delle terre cavernose,
fino alle incontaminate foci dell’Alcàntara.
N. 537
Calabria, estrema terra, io so il tuo sogno:
dall’alto delle tue invalicabili mura contemplare le isole e gli scogli
che si posero attorno a te provenienti da altro pianeta.
Dalla cima delle tue insormontabili rocce contemplare la schiuma,
le frange del cristallino tappeto steso attorno a te,
venerabile terra.
Estrema terra, confine da cui sorge l’alba e la luce sorge e l’immacolato chiarore;
più in là c’è la neve recente, più in là ci sono i laghi fra le tue foreste,
più in là c’è il cielo inteso nella sua magica purezza.
Estrema terra, confine posto tra noi e ciò che canta il mare, l’immenso mare,
l’immane oceano che tu non conosci.
Conosci le sue frange, che non ricoprono – troppo bella infatti è la tua nudità –
i tuoi subacquei lapislazzuli.
N. 539
Tempo, felice tempo, giorni e giorni m’allontanano l’autunno.
Scaldata si è la terra sotto le foglie rosse,
cadute nell’inverno.
O vento dell’oriente, tu mi riempi il petto!
O sole del cielo, che sciogli la neve e t’avvolgi di quei vapori,
guardami mentre m’àncoro alla terra come aratro che lacera,
guardami inebriato nella vigna attendere l’uva dell’anno nuovo,
guardami nella vigna mentre attendo il plenilunio.
N. 542
Cielo, cielo sopra le vette di cristallo, sopra la terra,
cielo sopra i fiumi, sopra l’immenso mare,
cielo toccato dalle nostre mani,
dalla purezza della neve, dalle guglie dei campanili,
cielo, fra le onde di campane ormai morte,
fra le parole dei mortali,
fra i mondi e fra gli spazi,
cielo nell’alba del mattino, nelle terre eteree,
cielo nel meriggio, quando squilla dall’alto il mezzogiorno,
cielo nella sera, in sperati lampi di serenità,
cielo nella notte, la notte di zaffiro che c’investe
con i suoi graffi di leopardo in amore,
cielo nelle stelle, che innumerevoli brillano o cadono!
N. 544
La notte s’appressa agli olivi congelati,
le secche trame nelle gialle foglie,
nei rami contorti dipinti di nero.
Venere! Alta sulle ragnatele, sulle mosche invischiate
nel tragico inverno, Venere alta nell’aria di ghiaccio
Venere s’estende. Venere s’espande con la luce,
avanti a lei già defunta è la luce diurna,
si prepara ora la notte agli acuti dei graffi del notturno zaffìro.
N. 546
O Grecia, mia patria, canto ora i tuoi colli adamantini,
le tue isole ed i pascoli marini, le creste d’onde di cristallo lassù in cielo,
fra le nuvole bianche. Canto ora le montagne azzurre, gonfie d’aria,
che respirano mordendo le tue rive. Rive di vetro oscurato dal tempo,
il tuo verde che conversa con il mare. Eleusi con i bianchi cipressi che s’inoltrano
nel prato circolare della luna, Delfi, fonte primigenia, da cui scaturiscono rocce di sale e dei,
Corinto, capitello intarsiato sopra i monti, a sorreggere il cielo, al di sopra dei dirupi,
muri d’acqua per la tua campagna, fonti fosche e muschio per la tua campagna, alberi misteriosi,
neve sui cristiani campanili, serpi per le valli senza fondo, di pietra sterminata,
Nauplia dove un dio ha messo nuvole in metallo fuso, e sopra le torri merli
a difenderne l’onnipotenza, mare plumbeo e fermo come aspettasse l’eternità.
O Grecia, mia patria!
N. 547
Là un mio fratello è sepolto, un fratello morto prima di nascere.
Dopo decine d’anni vive in qualche luogo, o in tutte le tane dei pesci,
in tutte le tane dei granchi in questo momento coperte
dall’alta marea.
Dove sei, fratello mio, ossa delle mie ossa, sangue rinsecchito
ora concime, sangue del mio sangue?
In quale collina ti hanno seppellito,
di quanti fu la pietà nel corteo funebre?
Oh, mare del mio sangue, rocce delle mie ossa,
di sotto i raggi s’intravede Tauromenio,
è la mia terra.
N. 548
Tutta la luce del creato fosse negli incunaboli
dove le larve vivono degli astri…
oh aranci in compagnia d’aranci, fioriti di frutta
d’odore campestre di vago cedro dove non forse
s’incamminano gl’insetti divoratori dell’inquieto inverno
alla base delle colonne del bianco casolare ricco d’olmi?
N. 556
Oggi ad Atene strisce di nuvole
fanno ponte nel cielo, dalle rocce laggiù
del centro cittadino si diparte la schiera
degli amanti con peplo
che poi s’adornerà d’oro e d’argento
dinanzi a Pallade Atena.
Giammai cerchie di mura ebbero più forte protettrice,
la possente, la sapiente lancia di luce
che guarda in modo severo laggiù fino al Pireo.
Guarda, dalla statua possente, in circolo di numi
altisonanti lentamente volgendosi in eterno ai quattro venti
guarda, tu, Atena, lancia di luce, rispecchiandoti nel sole,
le correnti del mare chiamano te da ogni porto dell’Egeo,
le lenti correnti che attraversano gli stretti
dei Dardanelli, di Sikelìa, di Finisterre,
fino al mezzogiorno delle terre dell’Africa,
Alessandria, e da Antiochia, Izmir, Iràklìon,
fino ai mulini del Peloponneso,
alle barche di Milos, il pescatore ti vede
luminosa salutare la cometa pomeridiana
del tuo invisibile cielo e silenzioso da ogni altura
altisonando vai per gli echi delle valli
di ora in ora fino alla sera richiamata con pacato gesto
delle tue mani, Pallade Atena, e un velo di stelle si stende
attorno a te, venerabile donna che accetti
la benevolenza di questa città:
‘Ημετἐρα δἑ πὀλις οὔποτ’ολεῖται
N. 559
Cipressi di pietra,
io non vi vedo,
da lontano vi immagino immobili nel tempo…
(un giorno vi visiterò e starò con voi,
per cantare il vostro momento di gloria e il mio,
irti come creste di drago
Sangimignan Poggiboniz’ e Colle,
gli ulivi al vento piantati nella creta,
e Volterra tagliata sugli sghembi precipizi.
È vero che siete così come mi dicono,
volatili terrestri?)
N. 564
Voglio andare a Manaus, a Botucatu,
fra il Bororo del rio Ponte de Pedra,
respirare aria di Sudamerica.,
fra le conchiglie e le palme e la Terra del Fuoco,
voglio andare nel Cile, nelle sue mille isole,
conversare con gli Indios, cavalcare i lama,
osservare altre stelle, a me sconosciute,
mangiare manioca, estendermi nel suolo
del continente, quando tutto di me sarà puro,
quando non avrò paura nemmeno del grande Sudamerica.
N. 565
Ma invece io ti canto, o Nordamerica, per i tuoi campi di grano,
e stendendomi fra essi, mordendo il cielo e le stelle qui purissime,
(pensarmi vivo tra i morti di fame, donare queste ricchezze
a un altro continente, e poi tornare),
per vivere in una casa di legno, in una piccola fattoria,
nel Colorado, con moglie e figli.
N. 566
Mare, mare, immenso mare, dalle rive innumerevoli,
(i margini di pietra, regno dei granchi)
dagli enormi viventi che in te godono,
mare dell’intima conversazione, mare delle correnti,
dalle lenti correnti che si portano palme abbattute,
mare dai benefici influssi, mare della vita sognata
ora e sempre
capite gente,
io parlo di Nettuno, il signore delle terre non emerse.
Appendice 4 – Da Il Copernico, mimeo, 1972
Che romba Zeus negli atri giorni dall’alto…
Che romba Zeus negli atri giorni dall’alto,
i suoi macigni cadono,
e nubi nere scuoton l’orizzonte, e in fiamme è l’orizzonte,
piove fuoco dall’alto, il cielo spazza tra le nere trame
–il nero fumo– nel turbinìo dei turbini le foglie,
le foglie rosse cadute nell’autunno –la nera terra.
Tu, bella fra le belle…
Tu, bella fra le belle,
Venere vespertina alta nell’aria,
alta nell’aria di ghiaccio calpestato il fuoco del tramonto,
tu t’incammini soprappensiero
per le strade dei rossi boschi,
alte erbe son deste perché ti cantino,
i prati circolari aperti al lucore lunare,
i platani cortesi di gioia soverchi ti accompagnano,
la rana nascosta nel padule ti canta.
Del mattino…
Del mattino,
il celeste cielo in cui trapasso
con gli occhi pieni di sogni
a te votato e volo in bianchi cirri…
La tramontana gelida soffia… [RSA]
La tramontana gelida soffia
e noi nella nostra casetta
infreddoliti amore ci consoliamo
con tiepido vino che ci riempie le vene
e ci spinge a nuovi abbracci
finché non ci scaldiamo sotto le coperte
fra la tenera luce del lumetto.
c’era una dolcezza infinita e l’angelo intonava…
c’era una dolcezza infinita e l’angelo intonava
“Navi felici che dal vago mare…” e noi anime eravamo rapite
da quel canto e intorno c’era una pace infinita.
La stella mattutina splendeva e noi a riva ai piedi del monte
lentamente c’incamminavamo.
In memoria di Minerva Jones
Minerva, è il mondo la poesia: il mondo brutale,
anche, quel che si aderse e di te rise,
spaccata la tua verginità nel letto del pagliaio,
insanguinato lo sporco pavimento te un atroce destino
ghermì, te con le larghe gambe, sia tu bella,
o sia stata non bella, tu bella eri, lo stelo verde
dell’Inapparenza ti si offrì senza inganno.
Io per i prati volo, raccolgo le poesie, dei fiori mutilati
e degli esseri maltrattati la poesia raccolgo,
di tutti accolgo la poesia, bada, Minerva, così dei pentiti
come degli affranti, perché la voce che ora si leva è mia,
e questa voce che ora si leva è mia, e quest’altra è mia,
gli steli d’erba schierati con mistico clamore
te celebrano, come tutti celebrano, consunti sotto terra,
sotto terra è giustizia, gli steli d’erba schierati
fanno giustizia, è la linfa che fa giustizia
nel segreto umidore sotto terra, e la luce del sole,
la luce del sole è eterna.
Se poesia è amare, tu certamente hai amato, e se hai
amato –anche uno stelo d’erba– tu poesia, solo poesia hai cantato.
Alla luce del freddo mondo, siam tutti eroi,
alla luce del freddo mondo, così com’era, così com’è ora.
Le molteplici relazioni tra noi uomini –pessime, cattive–
si fanno e si disfanno, e tutti un giorno, tutti, siamo Minerva.
volate via miei versi…
volate via miei versi
seguite le correnti del vento
e rendetemi la gloria che bramo
perché io viva.
Vidi, maestro, grandi navi passare… [RSA]
Vidi, maestro, grandi navi passare (Sogno)
sovra cui un giorno mi parve d’andare
(queste navi andavano in processione
nel vasto mare Oceano senza terra vedere
o lungo coste e da porti insensibili
uscivano, da porti indefinibili)
Appendice 5 – Da Visioni, Sovvisioni, mimeo, 1978-79
Rifacimento
A sera ci salutiamo come per un patto stabilito dalla sorte,
un po’ di tragedia legittima, un po’ di scene idiote, fosche.
Veemenza, sì. Quella della distruzione.
Tragedia notevole; a causa, a mio modesto parere, di quella becera,
maledetta Natura così necessitante, amore, un patto
della sorte, ovviamente un po’ forte (amore!).
Pioggia come pioggia del giudizio inatteso…
Pioggia come pioggia del giudizio inatteso:
buio in piazze splendenti una volta,
in morte maschere una pioggia ci specchia,
sospende. La cupola, fantasma
di galassie di pietra
al centro del mondo infero, seno di pietra.
Dinanzi a questo indifferente,
poi entrai nella notte affiochita,
sospesa per lembi tesi.
Ariete, nella notte provvisoria
io dopo entrai come assente,
sognando in alto bellerofonti e pegasi
visibili perché spingendo Ariete
a testa bassa contro un lieve tramonto,
all’altra parte del mondo
avanti a sé tirava freddi e nebbie
la fiamma, in alto, dei cirri
in un’aurora.
Appendice 6 – Da Flora, 1979-80
Sui viali a croce, in diafane e ruvide bolle…
Sui viali a croce, in diafane e ruvide bolle,
raffredda un verde una luce-si-spenge;
nel giorno a mezzo sgargiano le biglie
che cince e merli schioccano, tiri del bosco.
Un rosso-corallo in china diluita,
per vesciche natanti si libra;
tocchi del tempo, nella nerezza, pesci
neri serpeggiano tra bei rami scuri…
Integri percettori, e di qual canto…
Integri percettori, e di qual canto,
non gli astri alla deriva su equinozi
o i lauri e i melograni per quel canto
dei figli di finisterre, usignoli,
non arborei precipizi o rovine
sono al canto di cince le susine.
No, che non tocchi il fiore dell’ibisco…
No, che non tocchi il fiore dell’ibisco
e il calmo espandersi, la trama del rossore
in perle d’acqua, né il più fragile venire del vespro
su lanterne e vetri, da cirri boreali. Acque serene
avvolte all’emisfero, velo degli evi nel sidereo tempo.
Né del loto, messo ultramontano, i frutti
che le spoglie mutano di raggio in luce
tocchi l’inverno.
Non alle porte un vecchio allegro,
non bel cielo di bora, non lieto
nell’età, nel venire cieco dell’ora,
ma imploso attendere dell’irrevocata
immane ira del nembo, dell’inverno.
(relazione letta nel convegno Pietro Tripodo tra classicismo e modernità)
[1] I. Visco, “Ricordo di Pietro”, Nuova Antologia, 105, 2293, gennaio-marzo 2020, pp. 203-23 (anche in Insula europea, 4 novembre 2019, https://www.insulaeuropea.eu/2019/11/04/ricordo-di-pietro-tripodo-di-ignazio-visco/); “A margine delle versioni e dei rifacimenti di Pietro Tripodo”, Insula europea, 1 dicembre 2020 (https://www.insulaeuropea.eu/2020/12/01/a-margine-delle-versioni-e-dei-rifacimenti-di-pietro-tripodo/).
[2] I. Visco, “Investire in conoscenza, partendo dai libri”, Anni difficili. Dalla crisi finanziaria alle nuove sfide per l’economia, il Mulino, Bologna, 2019, pp. 36-41 (anche in Insula europea, 28 novembre 2019 (https://www.insulaeuropea.eu/2019/11/28/investire-in-conoscenza-partendo-dai-libri-di-ignazio-visco/); “Un futuro per l’Europa: tecnologia, demografia, mercato”, Accademia nazionale dei Lincei, Conferenza istituzionale, Roma 15 dicembre 2023 (https://www.lincei.it/sites/default/files/documenti/Articles/20231215_conferenza_I_Visco.pdf).
[3] R. Manica, “Notizia sul testo”, in P. Tripodo, Altre visioni, a cura di R. Manica, Donzelli, Roma, 2007, pp. 119-131; E. Trevi, “‘Non so vivere altrove’: Ricordo di Pietro Tripodo, Nuovi Argomenti, 6, aprile-giugno 1999, pp. 332-347. Cfr. anche T. Tarquini, “La critica oltre gli amici”, Nazione indiana, 16 ottobre 2014 (https://www.nazioneindiana.com/2014/10/15/pietro-tripodo-la-critica-oltre-gli-amici/).
[4] P. Tripodo, “Introduzione”, in P. Tripodo (a cura di), Callimaco-Catullo. La chioma dii Berenice, Salerno editore, Roma, 1995, p. 24.
[5] In una lunga nota a me indirizzata, dopo aver fornito un’illustrazione del loro ordinamento (per “gioco fonico”, “transizione metrica” e “media lessicale, stilistica e metrica … vicina a ciò che voglio”), ricorda tra l’altro come per la composizione di “Paralogia”, posta al centro della raccolta, vi sia stata “più fatica … che non in tutte le altre”, che i quattro tipi in cui raccogliere questi otto testi sono “i limiti esterni del bersaglio” e che la freccia al centro del bersaglio sarebbe costituita dalle “cose di Flora. Solo secondo Zenone la freccia non potrà mai arrivare al bersaglio”, anche se si tratta di “un paradosso (παραδοξολγία), altri dicono paralogia, e di paralogia io vivo e comincio”, frasi da cui si possono cominciare a comprendere, per quanto possibile, alcuni significati del testo poi pubblicato su Dismisura.
[6] Sempre al 1979-80 va riferito l’ultimo lavoro datomi da Pietro, Sepulchra maris, la traduzione latina delle 24 strofe del Cimitière marin di Paul Valéry, di cui pubblicò le ultime 16 nel 1982 su Dismisura. L’intera traduzione, inclusa la trascrizione delle note critiche e metriche, è stata pubblicata nel 2023 in Insula europea (https://www.insulaeuropea.eu/2023/09/11/pietro-tripodo-sepulchra-maris/).
[7] A. Cencetti, “‘Imitabere Pana canendo’. Pietro Tripodo traduttore del Pascoli latino”, Semicerchio, LXII, 1, 2020, pp. 29-34.
[8] E. Rimolo, “Traduzione e riscrittura in Pietro Tripodo: Orazio, Ausonio, Catullo”, Semicerchio, LXII, 1, 2020, pp. 6-11.
[9] In Altre visioni Pietro pubblicherà nel 1991 anche il suo rifacimento dell’altro celebre frammento di Ibico, 7 Diehl (287 Page) e del 2 Diehl di Mimnermo, entrambi non inclusi in FLORA.
[10] Nella traduzione dal volgare all’italiano balza subito all’occhio come Pietro abbia deciso di far salire le lodi al Signore non solo da tutte le sue “creature”, ma anche “da” sole, luna e stelle, vento, acqua, fuoco terra e morte corporale. Nel testo in volgare la lode è innalzata “cum” tutte le creature (e “spezialmente messor lo frate Sole”) “per” anziché “da” “sora Luna”, “frate Vento” ecc. A parte l’ambiguità per la lode riferita al Sole, la scelta appare distaccarsi volutamente da un valore “causale” delle lodi, diversamente dalla maggioranza delle interpretazioni date in letteratura (e forse anche in teologia, di qui forse il titolo attribuito a questa versione) al testo originale.
[11] P. Tripodo, “Paesaggi e sentimenti (sulle imitazioni di Attilio Bertolucci)”, Nuovi Argomenti, 4, luglio settembre 1995, p. 125.
[12] E. Cavallini, “Poeti traduttori di Ibico: Cesare Pavese e Pietro Tripodo, in E. Cavallini (a cura di), Scrittori che traducono scrittori. Traduzioni ‘d’autore’ da classici latini e greci nella letteratura italiana del Novecento, 2017, pp. 124-49. Cfr. anche E. Cavallini, “Poetiche della traduzione e traduzioni poetiche: su alcune versioni da classici greci e latini nella letteratura italiana”, in G. Cascio (a cura di), Esercizi di poesia. Saggi sulla traduzione d’autore, Istituto italiano di cultura, I quaderni di poesia, 5, Amsterdam, 2017, pp. 49-65.
[13] P. Tripodo, “Ferma è la notte come una memoria. Appunti di metrica e retorica su ‘Gioco a nascondere’ di Lucio Piccolo”, Nuovi Argomenti, 8, luglio ottobre 1996, p. 85.
[14] P. Tripodo, “Imitabere Pana canendo”, in G. Sica e M.I. Gaeta (a cura di), La parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana, Marsilio, Venezia, 1995, pp. 193 e 194.
[15] P. Tripodo, “Paesaggi e sentimenti (sulle imitazioni di Attilio Bertolucci)”, cit., p. 126.
[16] Ibid., p. 126.
[17] P. Tripodo, “Imitabere Pana canendo”, cit. p. 195.
[18] P. Tripodo, “Viola di morte. Il tradimento”, in T. Tarquini, Landolfi libro dopo libro, Hetea, Alari, 1988, p. 139.
[19] P. Tripodo, “Adsonat Echo”, Anticomoderno, Convergenze testuali, 1, 1995, pp. 76-7.
[20] P. Tripodo, “Vox circumsiliens. Iperboli, discorsi, parodie”, La Taverna di Auerbach, 2-3-4, 1988, p. 326.
L'autore
- Ignazio Visco è stato dal novembre 2011 all'ottobre 2023 Governatore della Banca d'Italia, istituzione nella quale è entrato nel 1972. Dal 1997 al 2002 è stato Capo economista e Direttore del Dipartimento economico dell’OCSE a Parigi. Laureatosi all’Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’, ha proseguito gli studi presso la University of Pennsylvania, conseguendo un Master of Arts e un Ph.D. in Economics. E' stato docente di Econometria e di Politica economica all’Università ‘La Sapienza’ di Roma. E' autore di numerose pubblicazioni, da ultimo Anni difficili. Dalla crisi finanziaria alle nuove sfide per l'economia, Il Mulino, 2018; Inflazione e politica monetaria, Laterza 2023.
Ultimi articoli
- In primo piano11 Maggio 2024Note e ricordi intorno alle prime versioni di Pietro Tripodo. Le sillogi poetiche degli anni Settanta
- In primo piano11 Settembre 2023Pietro Tripodo, Sepulchra Maris
- In primo piano2 Aprile 2023Giornata del laureato
- Interventi27 Gennaio 2022Note sull’economia di Dante e su vicende dei nostri tempi*