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Maria Gioia Tavoni intervista Gino Ruozzi

L’educazione alla base di tutto il suo comportamento, così come la disponibilità e la gentilezza, sono, in Gino Ruozzi (gino.ruozzi@unibo.it), doti non episodiche, ma costitutive della qualità del suo sapersi sempre proporre, sicuramente doti già incatenate nel suo DNA. Anche il profilo di docente, a cominciare dall’essere stato, per diversi anni insegnante di Lettere nella scuola media superiore, poi professore sulla cattedra di Letteratura italiana, incardinato nel ruolo ordinario dell’Alma Mater-Università di Bologna a partire dall’anno accademico 2001-2002, concorre a farne un’immagine da sempre conosciuta e apprezzata. La sua notorietà non spicca solo nella comunità degli studi, comprensiva degli allievi che ne hanno seguito il magistero, ma pure in chi ha avuto la fortuna di imbattersi nel professor Ruozzi per esserne stata collega, seppure per pochi anni, come chi scrive.  La carriera accademica di Ruozzi lo ha visto ricoprire molti ruoli importanti nelle istituzioni italiane, come insegnante di Didattica della Lingua e della Letteratura italiana presso la Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Superiore (SSIS) dell’Università di Bologna, parimenti impegnato nella organizzazione di convegni come La permanenza del classico (13 novembre 2002) e il Convegno internazionale di studi su Giuseppe Pontiggia contemporaneo del futuro (Università di Bologna, 23-25 settembre 2004). Il suo percorso è altresì intessuto di diverse nomine di rilievo quali, Presidente del Comitato Scientifico della Biblioteca del Dipartimento di Filologia classica e italianistica, Presidente dell’ADI – Associazione degli italianisti nel 2017 e Presidente della Scuola di Lettere e Beni culturali dell’Università di Bologna, 2018, per citare gli incarichi di maggiore rilevanza. I successi professionali si devono alla indefessa carriera di studioso di aforismi e di altre forme brevi, che lo hanno reso uno dei maggiori esperti dell’argomento non solo in Italia, come testimonia la curatela dell’imponente Scrittori italiani di aforismi, 2 voll., Milano, «I Meridiani» Mondadori, 1994-1996.

Qual è stato il momento più significativo della tua carriera accademica finora e perché?

Il momento più significativo della mia carriera accademica è stato l’inizio, sono stati gli anni di università frequentati a Bologna. Le prime lezioni che ho seguito sono state quelle di Letteratura italiana di Fiorenzo Forti, sul Cortegiano di Baldassarre Castiglione e sulla poesia di Gozzano. Lezioni molto belle, che mi hanno formato, insieme ai suoi studi danteschi (aveva appena pubblicato il bellissimo Magnanimitade) e manzoniani (la sua acuta prospettiva del “romanzo senza idillio”). E naturalmente il Settecento, che è diventato poi il mio secolo preferito. Nel momento della tesi di laurea Forti mi indicò le opere di Francesco Algarotti e in particolare i Pensieri diversi. Lì sono unite nella maniera più fruttuosa due strade che sono poi state per me fondamentali: il Settecento e gli aforismi. Devo quindi moltissimo a Forti, soprattutto questa decisiva intuizione. Cominciai quindi a lavorare sulla tesi di laurea ma lui si ammalò gravemente e non poté più tornare in università. Mi sentii smarrito. Ma in questo frangente fu essenziale il generoso e puntuale aiuto di Alfredo Cottignoli, che era assistente di Forti, con il quale avevo sostenuto parti degli esami di Letteratura italiana. Lui mi portò dall’allora direttore dell’istituto di Italianistica, che era Emilio Pasquini. Che non conoscevo. L’incontro fu determinante. Pasquini mi piacque subito moltissimo, cordiale e severo insieme, preciso e sorridente, come sarà poi sempre. Decise di prendermi tra i suoi tesisti e da quel momento sono diventato suo allievo. Lui mi ha insegnato tantissimo e soprattutto Pasquini aveva il profumo buono dell’Università. Un fascino indelebile, che mi è rimasto sempre impresso ed è vivo tuttora. Lui mi ha fatto innamorare di questo mestiere perché era lui che in primo luogo ne era innamorato. È come se fosse qui, lo sento e lo vedo ancora e non posso che ringraziarlo infinitamente.

Quali sono le principali sfide che ritieni il settore dell’italianistica debba affrontare nei prossimi anni e come si prepara ad affrontarle?

Le sfide dell’Italianistica sono molte e si intrecciano anche con quelle dell’Università in generale. In primo luogo il riconoscimento del valore primario della ricerca e dell’insegnamento. Sono due cardini indispensabili nella vita di una nazione. Il che significa che vanno date loro le risorse economiche necessarie e anche molto di più. Perché la ricerca è rischio e investimento e va sostenuta con continuità e decisione. I frutti si vedono nel tempo. È quella virtù che accompagnata alla fortuna crea il futuro. Ce lo ha insegnato in modo geniale Machiavelli. L’italianistica in particolare deve mantenere il ruolo centrale di educazione letteraria, linguistica e morale del paese, con una dose sempre importante di fantasia. In quest’ottica la lezione accademica e militante di De Sanctis è per me illuminante. Oggi poi è necessario sia il confronto con le altre culture civili e letterarie sia il dialogo serrato con le altre scienze, in termini generali e pure in aspetti molto specifici, come la qualità della lettura e della scrittura, indispensabili per tutti. Un altro aspetto da incrementare è la lettura dei classici della nostra straordinaria letteratura, da Dante Petrarca e Boccaccio a Machiavelli Ariosto Guicciardini a Foscolo Leopardi Manzoni. Fino agli autori del Novecento e del Duemila. In edizioni aggiornate, filologicamente fondate, ben presentate e commentate.

La tua attività didattica e di studio è stata particolarmente intensa: quale è il tuo approccio metodologico preferito nel lavoro di ricerca e perché lo ritieni efficace?

La prima cosa è la curiosità. Perché il primo passo di ogni ricerca è la curiosità, il desiderio di scoprire, di vedere e trovare qualcosa che non c’era prima. Questo genera passione, voglia di fare, di leggere studiare e scrivere. E confrontarsi con gli altri.  Confrontarsi con gli altri è stato ed è determinante. La cultura e l’università sono la messa in atto di questo scambio continuo di conoscenze e di ideali. Uno sguardo coinvolgente, partecipe e universale. Questi sono stati e sono tuttora i fondamenti della mia ricerca.

Sei molto presente in iniziative pubbliche e fai parte di giurie di diversi premi, soprattutto di poesia. Hai rubriche importanti sui massimi giornali culturali.  Come sei riuscito a mantenere alta la guardia di docente, insieme agli altri compiti di giudice in concorsi e in percorsi quasi estranei all’Accademia?

Per me è sempre stato molto naturale. Non ho mai vissuto per compartimenti stagni. Si lega tutto. Il piacere della letteratura mi ha accompagnato in ogni momento del mio lavoro. La fortuna è stata quella di fare della mia passione per la letteratura anche il mio lavoro. È una fortuna meravigliosa.  

Prima di accedere all’ Università, hai insegnato per diversi anni nella scuola secondaria. Come è stato il tuo passaggio all’Accademia e quali esperienze ti hanno giovato fra quelle maturate nel precedente cammino scolastico? 

Ho insegnato sedici anni a scuola, prima alle medie e poi alle superiori. È stata un’esperienza fondamentale. In primo luogo per l’incontro con gli studenti. Questo sempre, sia a scuola sia in università: sono loro il senso di tutto, sono loro che ti tengono sempre vivo, aggiornato con la vita e con le generazioni. È lì che ho imparato a insegnare, che è la qualità principale del nostro lavoro. Secondo me tutti i docenti universitari dovrebbero fare alcuni anni di insegnamento a scuola, è una formazione decisiva. Anche per questo poi quando dal 2001 sono entrato in università ho sempre seguito e insegnato nei corsi di formazione per gli insegnanti, a cominciare dalla SSIS. Come docenti universitari seguiamo la crescita dei futuri docenti dalla laurea alla specializzazione per l’insegnamento. È un compito istituzionale, civile e culturale di determinante rilievo sociale.

Qual è l’importanza dell’insegnamento e dello studio della storia degli aforismi come disciplina accademica, e in che modo lo studio di questa forma letteraria può arricchire la comprensione della cultura e della comunicazione?

Gli aforismi hanno caratterizzato il mio percorso e la mia identità di studioso. Ho iniziato a conoscerli ed apprezzarli come studioso con l’università, grazie appunto a Fiorenzo Forti. Mi sono laureato sui Pensieri diversi di Francesco Algarotti e ne ho poi curato l’edizione nel 1987. In quello stesso anno è uscito da Bompiani Il malpensante di Gesualdo Bufalino, una splendida e originale raccolta di aforismi. È grazie a Bufalino, che aveva esordito sessantenne in modo esplosivo con il romanzo Diceria dell’untore (1981), che ho fatto il salto nella passione per gli aforismi. Con Bufalino sono poi entrato in contatto e il suo contributo personale è stato ulteriormente determinante. A questa coincidenza decisiva si è aggiunto anche il fatto che Pasquini stava lavorando sui Ricordi di Guicciardini, nella scia della celebre edizione di Spongano. Le cose si sono perciò coniugate nel modo più fruttuoso possibile. Da lì le cose si sono evolute e grazie poi alla conoscenza e al rapporto con Giuseppe Pontiggia ed Ernesto Ferrero sul piano creativo ed editoriale e a Corrado Rosso, Giulia Cantarutti e Maria Teresa Biason su quello universitario è cominciato un percorso sulla letteratura aforistica che dura tuttora. Le pubblicazioni basilari sono state il saggio Forme brevi. Pensieri, massime e aforismi nel Novecento italiano (1992) e i due volumi di Scrittori italiani di aforismi nei Meridiani Mondadori (1994 e 1996). Gli aforismi sono fondamentali per comprendere le straordinarie potenzialità espressive della lingua. Quando Leo Longanesi scrive “Sono un carciofino sott’odio” gli basta cambiare una sola lettera, in questo caso una consonante, per modificare totalmente l’orizzonte di significato. Gli aforismi ci insegnano soprattutto questo, ad essere attenti alle minime sfumature della lingua e pertanto alle nostre eccezionali possibilità espressive. E quindi a creare sempre nuove vie di senso nella letteratura e nella vita.

Le forme brevi sono un argomento interessante della lingua. Pensi di poter estendere la ricerca alle altre forme brevi oltre l’aforisma? Ad esempio gli haiku? Quanto agli haiku e alla loro capacità di trasmettere significati profondi in modo conciso pensi possano essere avvicinati in qualche modo all’aforisma? Si può parlare di tradizione haiku occidentale?

La ricerca sulle “forme brevi” ha incluso gli aforismi e altri generi letterari. In particolare ho lavorato sulla tradizione degli epigrammi, degli apologhi e delle favole esopiche. Questa ricerca è durata 25 anni e in realtà prosegue tuttora. Oltre a numerosi saggi in libri e riviste i volumi di riferimento sono stati Epigrammi italiani (Einaudi 2001) e Favole, apologhi e bestiari (Rizzoli 2007). Nel volume di epigrammi sono rientrati anche gli haiku, per esempio quelli di Umberto Saba e di Edoardo Sanguineti.

L’universo delle forme brevi è vastissimo e in continua evoluzione, sia nelle forme tradizionali a stampa sia in quelle elettroniche e online. Per le prime mi piace salutarci citando il comune amico Alberto Casiraghi, che con le edizioni Pulcinoelefante ha dato un notevolissimo apporto allo sviluppo del genere e dell’editoria aforistica; oltre ad essere egli stesso un raffinatissimo scrittore di aforismi.

 

 

L'autore

Maria Gioia Tavoni
Maria Gioia Tavoni
M. G. Tavoni, già professore ordinario di Bibliografia e Storia del libro, è studiosa con molti titoli al suo attivo. Oltre a studi che hanno privilegiato il Settecento ha intrapreso nuove ricerche su incunaboli e loro paratesto per poi approdare al Novecento, di cui analizza in particolare il libro d’artista nella sua dimensione storico-critica. Diverse sono le sue monografie e oltre 300 i suoi scritti come si evince dal suo sito www.mariagioiatavoni.it