La foto di copertina è di Sandro Allegrini
Col suo ultimo libro, Vita mia (Rizzoli, 2024), Dacia Maraini svela il disegno unitario che presiede alla sua produzione narrativa di carattere autobiografico e memoriale, ricomponendo intorno a questo centro finora invisibile un’intera costellazione di opere, di grande suggestione e complessità, che riguardano gli anni della sua infanzia e giovinezza.
Vita mia viene a completare quella che potremmo definire una trilogia della memoria o dell’infanzia. Nel 2004, infatti, Dacia Maraini aveva pubblicato la prima parte del trittico, La nave per Kobe. Diari giapponesi di mia madre, un libro che rievoca gli anni dal 1938 al 1942 sulla base del «quadernino ritrovato» della madre: il viaggio della famiglia Maraini dall’Italia al Giappone, dove il padre Fosco aveva vinto una borsa di studio, e i primi anni felici in Giappone, prima in Hokkaido e poi a Kyoto. Già nel 1994, con Bagheria, Dacia Maraini aveva posto il terzo bellissimo elemento del trittico, raccontando gli anni dal 1946 al 1955 circa, ovvero il ritorno dal Giappone in Italia, la vita nella cittadina siciliana di Bagheria presso la famiglia materna, l’impatto dei Maraini “giapponesi” con la società tradizionalista di Sicilia, e quindi la rieducazione italiana ed europea. Tra La nave per Kobe sull’anteguerra e Bagheria sul dopoguerra, mancava però la parte centrale della trilogia autobiografica e familiare, mancavano gli anni più terribili della guerra mondiale, dal 1943 al 1945, trascorsi in un Giappone divenuto improvvisamente paese nemico per la giovane famiglia italiana (padre, madre e tre figlie piccole, tra cui Dacia, la maggiore, aveva sette anni nel ’43) che non aveva voluto giurare fedeltà alla Repubblica di Salò, nata tragicamente dall’altra parte del mondo tra le macerie ancora fumanti della stessa guerra. Vita mia è dunque un libro centrale, necessario, atteso, lungamente rimandato dalla scrittrice come qualcosa di particolarmente importante e doloroso. La nave per Kobe, nel 2001, si chiudeva infatti con queste parole:
“Ma questa è un’altra storia che esula dai diari amorosi scritti da mia madre e resuscitati per caso dai cassetti fiorentini di mio padre. Ho promesso a mia sorella che l’avrei lasciata raccontare a lei. Quindi chiedo ai miei lettori di pazientare per ascoltare il seguito delle vicende fin qui seguite. Gli anni del campo di concentramento, così intensi e dolorosi, la vita quotidiana del campo. Per tanti anni ho cercato di raccontarla questa storia, ma sul limitare del bosco mi sono sempre fermata, col fiato mozzo, un senso di pudore e di sbigottimento insieme. Davanti a me improvvisamente appare un uomo senza faccia che cammina rapido. E io corro corro finché raggiungo un carretto e racconto al carrettiere il terribile incontro. E lui volge verso di me la sua faccia vuota e dice: Come me?” (La nave per Kobe, pp. 176-177)
Libro dunque annunciato, rimandato più volte, delegato ad altri, Vita mia affronta finalmente – più di vent’anni dopo l’enigmatico e inquietante finale di La nave per Kobe e più di settant’anni dopo gli eventi narrati – un nodo centrale ma oscuro e temuto della propria vita, della propria famiglia e anche, possiamo aggiungere, della storia del Novecento. Memoria personale, familiare e storica si intrecciano infatti in modo sorprendente in questo libro stratificato a più livelli: la bimba di sette anni visse insieme ai suoi familiari quel biennio cruciale della storia contemporanea, 1943-1945, all’interno d’un campo di concentramento giapponese, Nagoya, ed era lì quando, a pochi chilometri di distanza, scoppiò nel ’45 l’atomica su Hiroshima, punto di non ritorno nella storia dell’umanità. Vita mia avvicina insomma da un punto di vista assolutamente eccezionale – quello di una bambina – gli eventi più tragici ed emblematici del Novecento, e al tempo stesso resta un libro quasi fiabesco di memoria autobiografica. Il titolo stesso sembra farne la chiave di accesso privilegiata alla riflessione di Dacia Maraini sulla propria vita. Non è solo un’indicazione tematica, ma un vocativo inquieto e commosso, un sostrato lirico profondo, che la poesia posta in epigrafe dichiara apertamente: «Vita mia che mi sei malandata / […] / che te ne vorresti andare / […] / Ma prima di andare / lasciati capire […] / lasciati raccontare».
La difficoltà che la scrittrice dichiara in limine nasce soprattutto dal groviglio di narrazioni e di affetti che il ricordo della prigionia giapponese del ’43-’45 inevitabilmente coinvolge. Si tratta infatti di un’esperienza straordinaria in termini storici e oggettivi, ma si tratta anche e soprattutto di un momento fondamentale della storia e direi dell’epos familiare Maraini, coinvolgendo appunto gli affetti più cari – il padre, la madre, le sorelle – e le loro narrazioni:
“Devo ringraziare mia madre, mio padre e mia sorella Toni che hanno scritto sul Giappone e sul campo di concentramento, certo meglio di me. Ho avuto molte difficoltà ad affrontare questo argomento doloroso. Ne ho accennato nei miei libri, ma non mi sono mai soffermata sulle giornate da internata, e su come abbiano segnato la mia vita. Ora sento che devo farlo, vincendo una ritrosia interiore, una timidezza che so di condividere con molti altri ex internati” (p. 9).
Se Vita mia si inserisce al centro della trilogia della scrittrice sulla propria infanzia, si inserisce anche nella costellazione di altre narrazioni familiari che negli ultimi decenni sono state recuperate e pubblicate. Nel 2003 la sorella Toni Maraini aveva raccolto, insieme alla propria, la testimonianza della madre, Topazia Alliata, in Ricordi di prigionia. Le memorie del padre, Fosco Maraini, già in parte consegnate in quel libro straordinario che è Ore giapponesi (1956), tornano anche nel racconto autobiografico Case amori universi (1999), e dopo la di lui morte, avvenuta nel 2004, in quel suggestivo libro a due voci che Dacia ha costruito commentando taccuini, appunti e quaderni del padre e che si intitola Il gioco dell’universo, sottotitolo Dialoghi immaginari tra un padre e una figlia (2011), un libro che per il dialogo indiretto col genitore e per struttura narrativa costituisce a sua volta un dittico con La nave per Kobe, che è un dialogo a distanza con i Diari giapponesi di mia madre. Si tratta dunque di una particolarissima storia familiare, raccontata a più voci, che si è arricchita anche della testimonianza delle nipoti, come il docufilm di Mujah Maraini Melehi, Haiku on a Plum Tree (Haiku sull’Albero del Prugno, 2018).
E anche nel contesto altrettanto significativo e imponente dell’opera intellettuale e letteraria di Dacia Maraini, Vita mia ridisegna ugualmente e connette momenti diversi di un’ispirazione profondamente coerente e tuttavia disposta a non forzare mai i tempi, a dare sempre la precedenza alle provocazioni e alle urgenze del tempo presente. Per esempio – sono infatti soltanto pochi esempi della rete che lega in profondità le opere di Dacia Maraini e che in gran parte ci sfugge – appare con certa ma sfuggente evidenza che la trilogia giapponese-siciliana delle memorie d’infanzia e giovinezza prosegue nel romanzo forse più noto della scrittrice, La lunga vita di Marianna Ucria. Che il romanzo storico sui campi di concentramento tedeschi, Il treno dell’ultima notte (2008), nasceva segretamente dall’esperienza, analoga e tuttavia ben distinta, del campo di concentramento giapponese esperito da bambina nello stesso contesto bellico, e rievocato adesso in Vita mia, dove il parallelo è discusso in pagine rilevanti di taglio critico. Che la memoria è la cifra fondamentale della produzione letteraria più intima e originale di Dacia Maraini negli ultimi decenni, anche se essa non esclude affatto e anzi interagisce in modo assai personale con altri temi, generi, ispirazioni, impegni civili e attuali: si pensi a libri come La grande festa (2011) e Caro Pier Paolo (2022), dove l’atteggiamento “giapponese” verso la morte e in particolare verso la morte dei cari è quello stesso, commosso e affettuoso, che caratterizza Vita mia e gli altri romanzi memoriali, e lenisce appena il dolore della perdita e dell’assenza («Ad una certa età il cuore diventa un cimitero», scrive più volte e quasi suo malgrado in Vita mia, «Il mio cuore ormai è diventato un piccolo cimitero»).
Nel libro della memoria di Dacia Maraini il Giappone occupa un posto affatto speciale. È nell’infanzia che si vivono le esperienze decisive, quelle che decidono il modo in cui ci si relaziona al mondo, anche quando vengano poi dimenticate o accantonate come tali, e il Giappone vissuto con la famiglia in quegli anni lontani e in quel modo incredibile, non poteva non segnare il suo rapporto col mondo. Come scrive nelle pagine finali di Vita mia, quel Giappone «è rimasto sempre nel fondo». Certamente, una volta tornata a nove anni in Italia, Dacia Maraini si formerà rapidamente un’identità italiana ed europea, ma «nel fondo» rimane un lontano paese orientale che coincide con esperienze indelebili, quasi un sogno, una fiaba, un nido familiare perduto, e al tempo stesso l’orrore del campo di prigionia, della fame, del freddo e della guerra, quali mai più la scrittrice conoscerà nella sua vita: «I libri mi hanno resto europea per sensibilità e valori e conoscenza, italiana per lingua. Il Giappone è rimasto nel fondo, con le sue prime esperienze felici, e in seguito con gli orrori della guerra e del campo di concentramento» (p. 220).
Ma il Giappone di Dacia Maraini è affettivamente connotato anche in quanto paese amato e studiato dal «padre amatissimo», Fosco Maraini, autore di uno dei più bei libri sull’arcipelago del Sol Levante, Ore giapponesi. Proustianamente, il Giappone per Dacia Maraini sta soprattutto du côté de chez son père, così come Bagheria, tappa successiva del suo itinerario, è soprattutto du côté de chez “mamà”. Fosco Maraini tornò poi più volte in Giappone negli anni Cinquanta, ma anche per lui rimase sempre, nel fondo, «uno strato più remoto, il paleolitico di una prima lunga permanenza nell’arcipelago dal 1938 al 1946». Sono parole sue in Ore giapponesi, dedicato alle figlie Dacia, Yuki, Toni e alla moglie Topazia, «per le quali, poverette, l’Oriente in guerra riserbò più dolori e patimenti che gioie e piaceri», ma senza le quali «quanto sarebbe stato più superficiale l’avvicinamento ad un paese di così difficile comprensione! Attraverso di loro, leggende, miti, le dolci favole della fanciullezza, ci sono penetrati nel sangue come le avessimo respirate, anche noi adulti, sin da piccoli» (Ore giapponesi, pp. 519, 514). Ma vi è poco o nulla del Giappone visitato e descritto dal padre con passione da etnologo, da storico, da studioso nel Giappone della figlia, che è invece il paese, fiabesco e terribile insieme, dell’infanzia perduta. Per anni si è pensata una «piccola giapponese», e parlava meglio nel dialetto di Kyoto che in italiano.
Qualcosa di “giapponese” è nel meccanismo della memoria involontaria, che tanta parte – come abbiamo accennato – ha nella scrittura di Dacia Maraini. In Europa, ella scrive, è stato Proust a scoprire il potere evocativo dei sapori e degli odori (la celebre madeleine), ma in Oriente sapori e odori fanno parte della cultura («In Europa solo Proust ha aperto la strada dei ricordi attraverso un odore che naturalmente era anche un sapore. Noi, piccole sorelle giapponesi, disponevamo di tante parole per distinguere gli odori legati ai fiori, alle piante, alle foglie di tè», p. 27). Il primo ricordo della prigionia è – durante il trasferimento in auto verso il campo – «il profumo che accompagnava mia madre», «tepore di un corpo amico» (p. 13). In realtà, la memoria involontaria nell’esperienza di Dacia Maraini si impone spesso con forza, come un’illuminazione improvvisa e prepotente, come una richiesta di attenzione, come un richiamo fuori dagli impegni dell’attualità, con l’espressione ricorrente dei ricordi che “cascano addosso” (i vecchi ricordi, per esempio in Bagheria: «eccoli lì, mi sono cascati addosso tutti insieme, con un rumore di vecchie ossa», o «tutto questo mi è cascato addosso come una valanga, leggendo il libro di zia Felicita..», o in Vita mia, p. 122, «in quell’occasione mi è cascato addosso il ricordo di quell’odioso terremoto …»). Ma per quel Giappone ormai lontano nel tempo, più che la memoria involontaria, sembra predominare piuttosto la volontà, il desiderio di ricordare, di riportare alla memoria, alla luce, addirittura in vita. Per esempio, tornata col padre a Nagoya in anni recenti sui luoghi in cui un tempo sorgeva il campo di prigionia, «mi sono seduta su uno di questi tronchi e ho chiuso gli occhi per ricordare…» (p. 51). E in modo analogo, sollecita la memoria perduta di quegli anni lontani con la contemplazione di vecchie fotografie, o con la lettura dei vecchi diari di Fosco e di Topazia, chiamati quasi a supplire, a riattivare, a riordinare immagini sbiadite o rimosse: «solo molti anni dopo ho messo in connessione i vari momenti di quella giornata, seguendo i racconti dei miei genitori» (p. 13).
Sarebbe sbagliato però considerare Vita mia, e più in generale la narrativa autobiografica di Dacia Maraini, esclusivamente come narrazione memoriale, evocativa, lirica, proustiana. La sua peculiarità consiste anzi, come diremo, in un discorso interiore che passa quasi senza soluzione di continuità dal racconto memoriale emotivamente coinvolto alla riflessione, all’interrogazione critica, a un distacco che consenta un giudizio per quanto possibile oggettivo, secondo quella determinazione illuministica, europea, intellettuale che distingue l’impegno civile della scrittrice. Dacia Maraini non evoca il passato per riviverlo ma per interrogarlo, capirlo e capirsi, metterlo in prospettiva col presente e viceversa. E tuttavia non c’è dubbio, a nostro avviso, che il fascino maggiore del libro consista nel recupero memoriale del punto di vista della bambina sui fatti atroci di un mondo in guerra: un punto di vista capace di trasformare e illuminare persino i campi di concentramento, un po’ come il Pin del Sentiero dei nidi di ragno o il Carlino delle Confessioni nieviane o, per restare più in tema, La vita è bella di Cerami e Benigni, con la differenza che Vita mia non è un libro di finzione ma di esperienza vissuta. Avviene così qualcosa di paradossale. Nonostante il campo di concentramento, nonostante la miseria, la fame, il freddo, la violenza, la crudeltà e il sadismo delle guardie, i bombardamenti, i pericoli e la morte circostante, nonostante gli orrori di Hiroshima, la paura, le malattie per denutrizione, i pidocchi e le pulci, e la necessità di cibarsi persino di serpenti, di topi, addirittura di formiche, Vita mia racconta un periodo paradossalmente felice, non tanto in sé quanto nel ricordo. Che cosa poteva essere infatti un campo di concentramento, di fronte a un’unità familiare fuori discussione, anzi costretta dalle condizioni della prigionia a una prossimità addirittura fisica, quotidiana, per due anni ininterrotti, ancor più stretta di quanto mai fosse stato prima e sarà poi in futuro, nonostante gli spazi angusti e la miseria condivisa con altre diciannove persone? La famiglia era unita, forte negli affetti, e ancor più fortificata per l’isolamento e la persecuzione in un paese lontano, divenuto improvvisamente nemico, per la condizione di estrema privazione e pericolo. «C’è un momento nella storia di ogni famiglia in cui si appare felici a se stessi», ha scritto Dacia Maraini in Bagheria, e lo stesso vale per Vita mia che pure parla del periodo più terribile. Poi, più tardi, negli anni ormai di Bagheria, «poi, tutto si è guastato, non so come, non so perché. Lui è sparito, lasciandosi dietro un cuore di bambina innamorato e molti pensieri gravi. E mia madre da sola …» (Bagheria). Ma gli anni del Giappone erano a prova di atomica. Una delle immagini fiabesche più ricorrenti nella narrativa memoriale e anzi nei sogni di Dacia Maraini, soprattutto in rapporto alla figura paterna, è il ventre della balena di Pinocchio. Cito ancora da Bagheria (p. 55), ma l’immagine torna spesso anche altrove: «Sognavo che mio padre, le rare volte che tornava a Bagheria, mi portava con lui dentro la bocca della balena di Pinocchio dove avremmo letto insieme dei libri e bevuto del vino seduti a un tavolo che traballava …». Ecco, l’angusto campo di concentramento di Nagoya per Dacia bambina è come il ventre della balena di Pinocchio, un posto terribile che trasformato dal ricordo degli affetti in luogo caldo e accogliente. Non si vuol dire, con questo, che vi sia mistificazione: il racconto anzi vuol essere veritiero e realistico fino alla crudezza nella descrizione degli eventi e della condizione di vita, e come tale rappresenta un documento storico di grande interesse. Ma i fatti filtrano attraverso lo sguardo “di allora”, che è anch’esso un fatto, filtrato a sua volta dal ricordo e dal giudizio “di ora”.
Del resto, l’elemento fiabesco fa parte del mondo e dello sguardo infantile, e il Giappone dei Maraini, soprattutto negli anni anteriori alla carcerazione, lo era in sommo grado. In Vita mia sono rievocate, per quanto possibile, le favole che alle bambine narravano la madre, il padre, e soprattutto l’adorata balia giapponese Okachan, ed è la scorta fantastica con cui furono affrontati i due anni di detenzione. Nel campo, la fame non è certo appagata ma giocata, immaginando per gioco che sassi e calcinacci fossero cibo. Il sadismo e l’arbitrio delle guardie giapponesi non sono certo sconfitti ma quando la madre li ribattezza “angiolini” strappa comunque un sorriso alle loro spalle. E gli animali che popolano le fiabe non mancano neppure nella dura vita del campo, come il serpente sotto il coperchio vicino alla bimba addormentata, o la capretta barbuta degli ultimi giorni, o il ranocchio che la bambina ha salvato e che giorni dopo, mezzo immerso nell’acqua, sembra guardarla: «l’ho fissato a lungo e mi è sembrato di riconoscerlo. Non sei il ranocchio che ho salvato quel giorno che abbiamo avuto l’invasione dei tuoi simili nel campo?» (p. 180). Ancora, la scena terribile dello yubigiri del padre – che in un momento di grande tensione si taglia teatralmente un dito per riscattare davanti ai militari giapponesi l’onore italiano e imporre loro rispetto secondo il codice samurai, non è soltanto un atto di prontezza e di eroismo (come fu in effetti), ma trasforma la detenzione in una storia cavalleresca. E quando nel dicembre ’44 un terribile bombardamento coincide con un terremoto ancor più terribile («morirono a Nagoya moltissime persone», sembrava veramente «la fine del mondo»), il lettore si incanta quando i due giovani coniugi Maraini, vincendo la disperazione e l’assurdo, si mettono a ridere, sciogliendo la tensione, cogliendo il lato grottesco della situazione tragica. Dacia lascia qui la parola alla testimonianza della madre Topazia:
“C’era un gran vento e la casa vacillava, sembrava crollare. I vetri andavano in frantumi. Ci precipitammo fuori. Si udiva un gran boato, si vedevano degli incendi nelle vicinanze. Poi, suonarono le sirene per annunciare il bombardamento. Era il colmo. Allora Fosco mi guarda. Io stavo lì, impalata, con la valigetta in mano. Non c’era proprio dove ripararsi. Era la fine del mondo e io, paralizzata, stavo in piedi con la mia valigetta. Lui mi guarda, io guardo lui. E d’un tratto ci mettiamo a ridere, a ridere, non riuscivamo più a smettere” (p. 121).
Ma Vita mia, come abbiamo detto, è anche un documento, un saggio storico che invita a considerare la più grande tragedia del Novecento da una prospettiva affatto inconsueta in Europa. Per esempio, una testimonianza così autorevole e significativa sui campi di concentramento in Giappone durante la seconda guerra mondiale pone inevitabilmente una serie di interrogativi: anzitutto, sulla natura di questi campi di concentramento rispetto a quelli coevi dell’alleato tedesco in Europa (naturalmente, niente di paragonabile al disegno hitleriano e alla Shoah), o sulla natura fascista del regime militare giapponese in rapporto ai fascismi europei, coi quali costituì l’Asse e scatenò la più grande tragedia – almeno finora – della storia moderna. E più in generale, pone la grande questione su come sia stato possibile che paesi di grande civiltà come il Giappone (come la Germania e l’Italia) siano stati l’origine di un odio razziale, di una violenza imperialista e di crimini di guerra senza paragoni. Altri forse avrebbe eluso tali domande, limitando il proprio racconto nei confini rassicuranti delle memorie private e familiari o di un contesto esotico, evitando le ferite mai rimarginate della memoria collettiva. Ma da grande intellettuale, Dacia Maraini non si sottrae agli interrogativi che il racconto stesso propone, e dedica pagine centrali di Vita mia alle questioni storiche e culturali. Il libro di memorie – come già gli altri suoi libri autobiografici – si trasforma allora in inchiesta, chiedendo lumi o risposte agli esperti (come Ruth Benedict sulla cultura giapponese, come Giorgio Tosi sul fascismo giapponese). Da sempre ella interpreta il compito intellettuale dello scrittore come una responsabilità verso le questioni del nostro tempo, come tensione a legare le storie individuali alla storia di tutti, e da sempre la sua opera si distingue per le domande che continuamente, instancabilmente pone a sé e ai suoi lettori. «Solo dopo la guerra abbiamo saputo» che «c’erano altri campi dove i prigionieri, appena entrati, venivano uccisi. Ma dove? Possibile che le guardie giapponesi sapessero …?». Con le dovute distinzioni, Vita mia rientra nella cosiddetta letteratura concentrazionaria, in quanto l’analogia sussiste, tanto nei fatti, quanto nella coscienza dei reduci («il mio rapporto di testa e di cuore coi capi di concentramento è rimasto per anni e ancora resiste»). Ma l’esperienza della guerra, della prigionia, della violenza invita a porsi anche altre e più generali questioni, che coinvolgono anche altre esperienze, senza risposte certe, ma con fiducia nella possibilità di una civiltà più umana: «E qui viene fuori la grande domanda: chi ha compiuto dei delitti orrendi può … recuperare la sua umanità e diventare un altro da sé grazie a educazione, consapevolezza e cultura? Non lo so. Ma la più moderna conquista legale parte proprio dal presupposto che sia possibile …» (p. 193).
Libro di memorie stratificate, autobiografia, confessione, saggio storico, romanzo saggistico, Vita mia ci appare anche – per il tema giapponese, per il sottinteso lirismo, e per la delicatezza con cui affronta temi spesso scabrosi – come un haiku in prosa, che avvicina e conquista i suoi lettori per il tono immediato, refrattario alle pose e ai vezzi espressivi, unicamente attento a un discorso interiore logico e narrativo. Come in un haiku il disegno delle cose quotidiane si esalta, senza caricarsi di simbolismi, e le cose lontane sembrano vicine (mai un ricorso al passato remoto, anche gli eventi lontani sono al passato prossimo, quasi fossero avvenuti da poco). La scrittura di Dacia Maraini, forse ancor più in questi libri recenti, si fa essenziale, rapida, recuperando alla letteratura la dimensione umana e familiare del racconto e della voce. Anche questa è una bella lezione, di sapienza orientale e di umiltà, in un’epoca di comunicazione troppo spesso rumorosa e artificiosa.
L'autore
- Simone Casini è professore ordinario di Letteratura Italiana all’Università degli Studi di Perugia. È membro della commissione per l’Edizione Nazionale delle Opere di Nievo, e dal 2000 su incarico di Enzo Siciliano cura per Bompiani la nuova edizione delle Opere di Alberto Moravia, del quale ha pubblicato vari volumi e testi inediti. È autore di monografie e saggi sulla letteratura del Sette, dell’Otto e del Novecento e di alcune edizioni critiche (tra cui Le Confessioni d’un Italiano, Classici della Fondazione Bembo, 1999). Si interessa in particolare di narrativa, con un’attenzione specifica ai rapporti tra storia e letteratura, sotto vari aspetti. Ultimamente ha pubblicato Pascoli georgico. Un percorso dai poemetti latini ai poemetti italiani (Patron 2018), la nuova edizione dell’Uomo come fine di Alberto Moravia (Bompiani) e il volume della narrativa di Moravia degli anni Settanta (Bompiani 2021).