In questo articolo presento una breve riflessione spinta dal disagio che ho iniziato a provare dopo la vittoria della coalizione di destra (dal mio punto di vista è di destra anche se si (auto)definisce di centro-destra) alle ultime elezioni politiche italiane, e dopo l’insediamento del governo presieduto da Giorgia Meloni. Un disagio generato non tanto dal dato politico (non è la prima volta che il centro destra vince le elezioni in Italia, ma Silvio Berlusconi generava timori diversi) quanto da quello culturale: dal fatto che subito dopo l’insediamento della nuova compagine governativa (legittimo, indiscutibile, su questo non ho nulla da dire) si sono avute le prime manifestazioni di un qualcosa che non definisco altrimenti se non, in prima battuta, tramite la sua assenza: prima non c’era, o non si percepiva, oppure non dava preoccupazione, e non sollecitava il pensiero quella congerie di atteggiamenti, dichiarazioni, gesti e comportamenti, bandiere e vessilli, indumenti scuri (neri), prossemiche, busti e altri oggetti… Oggi c’è.
Affianco a questa (la congerie) c’è anche un’espressione che circola, che si ascolta, che si pone come (importante?) polo per decenni accantonato e messo al bando (ingiustamente?) che oggi reclama i suoi diritti di posizionamento, di considerazione, di attenzione: la “cultura” di destra.
Un ministro, che ha la responsabilità delle politiche culturali, si sta infatti dando parecchio da fare, nomina direttori di musei, prende parte a commemorazioni e visite (come quella a inizio mandato alla casa di Benedetto Croce); ha richiamato nientemeno che il “sommo poeta” nei ranghi (su questo, si veda Bologna 2023), più banalmente poi sono stati ridefiniti i vertici della televisione pubblica (non solo da quel ministro, certo); molti conduttori di programmi si sono dislocati presso altre testate (erano “di sinistra”?), altre azioni varie sono state avviate al fine di “riequilibrare”, così si dice. Un deputato della maggioranza, di fronte alle proteste dell’opposizione per questo “assalto all’arma bianca” ai centri di produzione culturale, ha dichiarato “se non vi piace, dovete farvene una ragione”.
Del resto, c’è poco di che stupirsi; il valore emerge dalla scelta; anche la memoria collettiva funziona così, dipende dal presente, da chi comanda e controlla oggi la produzione e la rappresentazione del passato e dei ricordi. Il potere, la memoria: c’è un legame indissolubile (Fabietti, Matera, 2018). Anni fa, il neo eletto presidente della Regione Lazio Francesco Storace dichiarò che “era il momento di riscrivere i manuali di storia per la scuola superiore”; in parte si sbagliava: non era ancora il momento; in parte però aveva visto giusto, perché da allora una tendenza si è avviata. Potrei citare molti esempi, ma non è di questo che voglio occuparmi, almeno come argomento primario. Mi preme invece quel “disagio” di cui scrivevo sopra. Da che cosa nasce?
Una prima risposta mi porta a interpretarlo come generato da un disorientamento: per me, nato negli anni sessanta, cresciuto in un ambiente familiare e sociale profondamente antifascista (mia nonna era parlamentare e membro della direzione nazionale del PSI di cui era segretario Pietro Nenni), come del resto è stata l’Italia per molti decenni dal dopoguerra, formato in un liceo milanese e in un’università romana (La Sapienza, Facoltà di lettere e filosofia), il polo di riferimento, la congerie di pratiche, sono sempre state quelle di sinistra.
Aver vissuto le stragi (mafiose e fasciste), i conflitti di classe e le lotte operarie, gli equilibrismi della democrazia cristiana, i giochi dei socialisti e l’opposizione del PCI, nonostante il terrorismo rosso (mai entrato nel mio orizzonte di riferimento, nemmeno immaginario), ha sempre rafforzato il mio orientamento, ancora più solido per gli studi di antropologia culturale, in cui il relativismo – che certo di destra non è – regna(va) sovrano, e per essere diventato un antropologo. Trovarmi di fronte al manifestarsi di pratiche e alle rivendicazioni di una cultura di destra non era nell’ambito del possibile, e nemmeno del pensabile. Disagio, disorientamento. Forse esigenza di ricalibrare la prospettiva sul mondo o, almeno, sulla società italiana?
A dire il vero, l’orientamento di sinistra non mi ha impedito di amare Il signore degli anelli; l’ho scoperto appena diciottenne, l’ho divorato, e ho continuato a rileggerlo regolarmente negli anni (l’ultima volta credo non più di una decina di anni fa, ormai cinquantenne). La trilogia letteraria mi emoziona, quella cinematografica anche di più. Non mi ha impedito, nemmeno, di avere (avuto) rapporti (anche molto stretti) con alcune persone (amici e amiche) che si dichiaravano di destra. Non ha influenzato in modo pervasivo la mia vita, le mie scelte, i miei gusti. Che cosa concretamente significhi “di sinistra” e “di destra”, allora, mi appare problematico. Il che mi porta a mettere a fuoco la questione su diversi livelli. Quello personale, quello professionale. Che riesco a tenere separati solo fino a un certo punto.
A livello personale, un riferimento è d’obbligo alla nota canzone di Giorgio Gaber, Destra/Sinistra (1994/1995, nell’album E pensare che c’era il pensiero, che contiene anche, sul tema, Qualcuno Era Comunista) nella quale il geniale cantautore passa ironicamente in rassegna una serie di elementi – inframmezzando un ricorrente “ma cos’è la desta / cos’è la sinistra” – e li colloca ai due poli della contrapposizione che appare più volte sfumare in un continuum per arrivare poi a “è evidente che la gente è poco seria / quando parla di sinistra o destra” e concludersi con un sonoro “basta!”.
Del resto, già Pier Paolo Pasolini negli anni Settanta indicava la famosa mutazione antropologica del popolo italiano:
Tale salto qualitativo – la trasformazione radicale e rapida che ha investito il mondo sociale italiano – riguarda dunque sia i fascisti che gli antifascisti: si tratta infatti del passaggio di una cultura, fatta di analfabetismo (il popolo) e di umanesimo cencioso (i ceti medi), da un’organizzazione arcaica, all’organizzazione moderna della “cultura di massa”. La cosa, in realtà, è enorme: è un fenomeno di “mutazione” antropologica. […]. La “cultura di massa” […] è direttamente legata al consumo, che ha delle sue leggi interne e una sua autosufficienza ideologica, tali da creare autonomamente un Potere che non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia [valori – religione civile], e altre ubbie simili (Corriere della sera del 10 giungo 1974, poi in Pasolini 1975).
In realtà quelle che Pasolini chiama “ubbie” non mi pare lo siano poi tanto, dato che lo slogan “Dio, Patria, Famiglia” è stato scandito piuttosto frequentemente negli ultimi tempi in Italia, anzi, sembra che il Potere attuale – di destra, ma non fascista – ne abbia fatto (ne faccia) di quello slogan una bandiera.
Tuttavia, a proposito di relazioni tra cultura di destra e fascismo, in una recente storia della cultura popolare in Italia (Dei, 2018), si afferma che:
La valorizzazione della tradizione regionale è un punto di forza delle politiche fasciste di educazione di massa e costruzione del consenso. Ciò significa da un lato ripresa o invenzione di feste tradizionali, come ad esempio le Feste dell’uva in occasione della vendemmia, intese come riti partecipativi di massa; dall’altro, lo sviluppo di un’ideologia rurale e conservatrice, volta a esaltare i valori chiave del regime come il nazionalismo, la devozione cattolica, la concezione della donna come madre e casalinga (Dei, 2018, p. 19).
Il nazionalismo, la devozione cattolica, la concezione della donna come madre e casalinga. Sono i valori che a un certo punto il regime fascista sceglie di esaltare nelle retoriche ufficiali; sono i valori che a volte vengono esplicitati anche da articoli di studiosi della cultura popolare, folkloristi e demologi di quel periodo. Sono “solo” degenerazioni fasciste di un’ideologia conservatrice? O sono valori di destra? E poi, sono valori compatibili con il mestiere di antropologo culturale? Ma di che cosa stiamo parlando?
Torniamo a Pasolini:
L’omologazione “culturale” che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che genera tutti gli italiani. Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente interscambiabili. Nel comportamento quotidiano, mimico, somatico non c’è niente che distingua […] un fascista da un antifascista (di mezza età o giovane: i vecchi, in tal senso possono ancora esser distinti tra loro) (Corriere della sera del 10 giungo 1974, poi in Pasolini 1975)
La cultura di massa omologa. Siamo diventati tutti, fascisti e antifascisti, di destra e di sinistra, meri consumatori “desideranti”. Che cosa desideriamo? L’ultimo modello di I-phone; le scarpe nike; un bel SUV, possibilmente nero opaco. Sto banalizzando, ovviamente. Ma l’interrogativo si pone. Che cosa desiderano gli italiani? Davvero tutti le stesse “cose”? Potremmo dilungarci su questa strada analizzando per esempio l’ultimo rapporto ISTAT sui beni di consumo preferiti in Italia, e aiutarci nell’analisi con un po’ di letteratura di sociologia dei consumi.
Ma forse ci è più utile di nuovo un brano, di Pino Daniele, emblematico di una tendenza. “Che soddisfazione” è contenuto in un album del 1998 (Yes I know my way): un mercedes bianco [rigorosamente declinato al maschile], lo stereo e il servo sterzo; il televisore gigante, la barca con il motore ed un’amante; con il ritornello “quanto costa la felicità / che soddisfazione / vivere in questa società / compri quello che ti pare”.
Se questa fosse la strada che abbiamo preso, e non mi pare che si sia invertita negli ultimi anni, andremmo verso un esito del genere, all’insegna di quella “fine della storia” che agli inizi degli anni Novanta del Novecento aveva predetto Fukuyama, poi smentita dai fatti, oltre che da molti altri studiosi (su questo, si veda Hannerz 2012), fra i quali Marc Augé:
L’utopia liberale a cui pensava Fukuyama, e a cui aveva dato il nome di «fine della Storia» (Fukuyama 1992), ha già lasciato il posto a un’oligarchia, che domina un pianeta le cui disuguaglianze interne non smettono di aumentare. […]. Siamo al centro di un’utopia che comincia a sgretolarsi nel momento stesso in cui prova a realizzarsi: quella dell’alleanza feconda e definitiva tra democrazia rappresentativa e mercato liberista su scala planetaria. Regimi che non hanno niente di democratico si adattano molto bene al libero mercato; la logica della speculazione finanziaria prevale su quella della produzione e della prosperità sociale. Nell’ambito delle conoscenze come in quello delle risorse economiche non smette di ampliarsi il divario tra i più fortunati e i più poveri, anche nei paesi emergenti. Ci stiamo dirigendo verso un pianeta a tre classi sociali: i potenti, i consumatori e gli esclusi (Augé, 2017).
Effetti di una cultura di massa drogata dal consumo. Gli antropologi dove li mettiamo? Non credo proprio tra i “potenti”; forse tra i “consumatori”, forse tra gli “esclusi”, dipende.
A livello professionale, confesso, sono rimasto a lungo convinto (tuttora) che un antropologo non possa essere di destra per una serie di motivi, il primo fra questi è che l’antropologia culturale ha uno stile intellettuale, per così dire, segnato dall’impossibilità di qualsiasi assoluto, dall’apertura relativista (che non vuol dire accettazione indiscriminata di qualsivoglia valore, pratica o convinzione) e da una continua riflessione critica. L’antropologia è esercizio del pensiero libero, del dubbio, della decostruzione. Così mi hanno insegnato, così ho letto e riletto, così ho praticato e a mia volta insegno. Prima di approfondire questa importante (per me ovviamente) convinzione, e per evitare di espormi alla critica facile di non distinguere nella mia riflessione fra l’essere di destra e l’essere fascista (o nazista, nel caso, che vedremo, della Germania), inizio a argomentarla in relazione alla sua versione più semplice: antropologia e fascismo (che nella versione più complessa diventa antropologia e “cultura di destra”).
Di recente ho partecipato a un convegno dedicato alla figura di Giuseppe Cocchiara, un etnologo e studioso delle tradizioni popolari siciliano della prima metà del Novecento; è stata ricordata la piena adesione dello studioso al regime fascista, e io mi sono domandato in che modo possano convivere prospettiva antropologico culturale e ideologia e pratiche di una dittatura (la versione semplice del mio dubbio).
Giuseppe Cocchiara aderì al regime
[…] con convinzione e slancio, militando sempre nelle sue fazioni più radicali, condividendone fedelmente le scelte più tragiche come la guerra d’Etiopia, sottoscrivendo le leggi razziali, impegnandosi nella Seconda Guerra Mondiale con le armi culturali dell’antisemitismo e della lotta senza tregua contro la democrazia (Blando, Perricone, in Dimpflmeier 2021, p. 308).
Messo di fronte all’evidenza che, devo ammettere, avevo sostanzialmente rimosso, dell’esistenza di antropologi fascisti, mi sono risposto, in quel contesto, così su due piedi, che probabilmente il nostro mestiere si può intendere in due modi. Uno è quello al quale accennavo sopra, all’insegna del dubbio critico, del pensiero libero, dell’analisi rigorosa dei significati culturali prodotti in un dato contesto sociale e finalizzata a smascherare fondamentalismi, condizionamenti, gerarchie, violenze strutturali, a mostrarne il carattere storico, dunque particolare, dunque relativo ma nel contempo fondante un modo di vivere, una visione del mondo, un’identità.
Questa modalità del pensiero antropologico è incompatibile con le esigenze di una dittatura.
L’altro è all’insegna della scoperta e della conseguente esplicitazione e valorizzazione (o svalutazione, si pensi al sostegno che molti antropologi hanno dato alla tesi principale della rivista La difesa della razza, l’inferiorità razziale degli ebrei) di un popolo, di una lingua, di una tradizione, di una visione del mondo intese tutte come proiezioni del naturale spirito di un genos, una stirpe (quella italica, per esempio) come espressioni della sua essenza (che può anche essere una essenza “marcia”), come intimamente legate in profondità, parti naturali di un’identità etnica specifica, locale, delimitata.
La Nazione, che dalla prima prospettiva appare una “comunità immaginata” (Anderson 1996), quindi costruita, prodotta da particolari processi storici e sostenuta da specifiche strategie politiche, che si possono individuare, studiare, evidenziare e portare alla consapevolezza dei cittadini che ne sono parte (ammesso che lo vogliano), dalla seconda prospettiva è la Patria, anzi la “madre patria”, un territorio appartenente per natura (o per diritto divino) a un popolo (unito da legami di sangue), i cui confini vanno difesi anche a costo della vita.
La lingua, che dalla prima prospettiva appare un prodotto storico sociale, soggetto a trasformazioni, cambiamenti, prestiti, mutuazioni, creolizzazioni, dalla seconda prospettiva è il logos, espressione dello spirito di un popolo, essenza da preservare, difendere nella sua purezza, nella sua forte valenza identitaria.
La tradizione, che dalla prima prospettiva appare come l’esito precario di processi, contatti, contaminazioni, incroci, dalla seconda prospettiva è l’epopea da celebrare, le gesta di eroi, martiri, che hanno dato la vita per la Patria, il prodotto inerte e statico di strategie e narrazioni alimentate e attuate da chi detiene il potere per legittimarsi, per consolidarsi, per rimuovere gli elementi sgraditi o disfunzionali e imporre la limpida purezza da preservare.
Insomma, l’antropologia nella prima prospettiva non ammette (perché smentito dalle evidenze empiriche) che determinazioni genetico biologiche di qualsivoglia natura, diciamo, siano matrice di differenze culturali o linguistiche. Quella nella seconda prospettiva invece mescola (indebitamente, strumentalmente) a piacere e secondo le convenienze (magari in certi casi anche per convinzione) dati storico culturali e dati genetico biologici.
Gli studiosi di tradizioni popolari attivi durante il ventennio, come il Giuseppe Cocchiara che ricordavo sopra,
[…] scelsero di pagare un altro prezzo [oltre alla condizione di marginalità, e forse per superarla], molto elevato, aderendo in modo utilitaristico e non superficiale al regime fascista. Del folklore vennero così poste al centro le accezioni più retrive, conservatrici, funzionali all’ideologia e alla propaganda del potere politico: nazionalismo, ruralismo, localismo, concezione subalterna della donna. L’esibita predilezione del fascismo per il mondo della tradizione contadina […]” (Dei, 2018, p. 65).
Insomma, gli antropologi italiani contribuirono a rafforzare e legittimare sul piano accademico la retorica
[…] dell’aratro e della spada, della battaglia del grano cresciuto a forza di fertilizzanti, di Mussolini che a dorso nudo, miete e lega covoni di grano di spighe inghiottite da imponenti trebbiatrici meccaniche, delle immagini di formose donne contadine madri e spose esemplari circondate da nugoli di figli protetti e baciati dal duce, (…) (Blando, Perricone, 2021, p. 313)
Non solo, perché quando il regime si spostò sempre più nettamente sul versante del razzismo, gli antropologi furono chiamati a legittimare tale posizionamento:
Gli italiani invitati – obbligati – dal Manifesto della razza, apparso sulla stampa il 14 luglio 1938, a dichiararsi “francamente razzisti”, dovevano essere convinti che così come il regime era stato razzista fin dai suoi esordi, presentando quello che la scienza confermava, così il sentire popolare dell’italiano aveva sempre saputo della differenza che correva tra il “noi” e “tutti quei loro”: le altre razze […] (Mugnaini, 2021, p. 207).
La scienza chiamata in causa era quella dell’antropologia unita alla biologia, a sostegno – non si sa quanto necessario, ma insomma… – dell’esaltazione del razzismo popolare, quanto di peggio possa darsi in materia di ideologia sociale. Il razzismo di Stato, la menzogna della differenza razziale, della gerarchia su base biologica, ottiene negli scritti degli antropologi
[…] il sigillo dell’esperto al lucchetto che chiude insieme l’eredità popolare […] la verità scientifica e l’indirizzo politico […] (Mugnaini, op. cit., p. 212).
Trovo francamente molto difficile considerare gli autori di tali scritti degli studiosi di antropologia. Naturalmente l’Italia non è, purtroppo, l’unico caso di antropologia al servizio di politiche razziste.
L’antropologia, declinata nella seconda modalità individuata sopra, ha dato notevoli contributi anche in Germania. In particolare tramite la solita alleanza con gli antropologi fisici. Eugen Fisher, Egon von Eickstedt e Otto Reche sono i nomi più in vista di quegli anni (Gingrich, 2010).
Scrive Marco Bassi in un recente volume di storia della disciplina:
Nel 1913, sulla base di uno studio condotto nelle colonie, Fisher pubblicò un libro in cui tentava di dimostrare l’effetto ‘degenerativo’ che i matrimoni misti produrrebbero sul patrimonio genetico. Fisher diventerà nel periodo nazista uno dei principali promotori delle leggi razziali, con un coinvolgimento diretto nei crimini contro l’umanità (Bassi, 2022, p. 129).
Si ritiene che quegli studiosi abbiano addirittura influenzato il pensiero di Hitler; certamente hanno contribuito a dare legittimità alle posizioni del Partito Nazional-Socialista (Gingrich, 2010; Bassi, 2022).
In entrambe le tradizioni disciplinari, italiana e tedesca, si verifica una stessa dinamica: a partire da una grande vivacità degli studi etnografici e demologici negli anni a cavallo tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento (si veda Dei 2018 per l’Italia, Bassi 2022 per la Germania), segue un ventennio di stallo e di isolamento. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in entrambi i Paesi si avvia una lenta ripresa degli studi, su basi teoriche nuove. In particolare, in Italia si passa da un’antropologia – e in questo contesto più che mai è importante sottolineare il significato letterale del termine, come “ragionamento sull’uomo”, che è anche matrice di una determinata “visione dell’uomo” – conservatrice, che esalta i valori della guerra, della razza, della superiorità maschile e della sottomissione della donna, chiusa nel ruolo di moglie e madre, a una antropologia di contestazione e potenzialmente sovversiva, socialista e anche marxista. In Germania l’antropologia e l’etnologia, a causa del coinvolgimento con il nazismo, perdono il prestigio che avevano ottenuto negli anni precedenti e nel periodo post bellico faticano a recuperare il terreno perduto sia per la fuga dei cervelli (studiosi rifugiatisi all’estero, come per esempio Franz Boas), sia per la divisione nelle due Germanie, sia per la perdita di terreno della lingua tedesca a scapito dell’inglese (Bassi, 2022).
In Unione Sovietica, negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’ottobre,
[…] la disciplina divenne di fatto molto simile alla Volkskunde, accumulando (analogamente all’etnografia tedesca) un ritardo di almeno mezzo secolo rispetto all’antropologia angloamericana e francese. Il suo compito consistette, per decenni, esclusivamente nell’illustrare con esempi lo schema di sviluppo sociale descritto dal materialismo storico: le piccole società marginali vennero bollate come ‘arretrate’ e considerate sopravvivenze o vestigia del passato (Scarduelli, 2022, p. 233).
Per poi specializzarsi, dagli anni Trenta in avanti, fino alla scomparsa dell’Unione Sovietica, nello studio delle minoranze, che dal punto di vista del regime sovietico erano potenzialmente “sovversive” e andavano tenute sotto controllo, per cui era utile conoscerle in modo dettagliato. Ucraini, lituani, lettoni, estoni, moldavi, georgiani, armeni, abkazi, kazaki, turkmeni, tajiki, kirghizi e molte altre ‘entità’ etniche e linguistiche più piccole furono quindi oggetto di approfonditi studi etnografici.
Questo diede nuovo smalto ai ricercatori, che, come ricorda Pietro Scarduelli
[…] godevano di uno status e di un prestigio accademico superiori a quelli dei loro colleghi dei paesi occidentali, dove l’antropologia era considerata poco più di un’innocua bizzarria” (Scarduelli, in D’Agostino, Matera, 2022, p. 234).
La fine dell’Unione Sovietica, la caduta del regime, ha provocato conseguenze per l’antropologia sovietica molto diverse da quelle che ha provocato la caduta del fascismo in Italia e del nazismo in Germania. In questi ultimi due paesi, come abbiamo visto, ha consentito una ripresa della ricerca su basi nuove nel tentativo prima di riagganciarsi agli indirizzi dell’Antropologia egemonica, quelle britannica, francese e statunitense, poi di elaborare visioni e prospettive originali, sempre però nel solco dell’Antropologia mainstream. In Russia, invece, tra gli antropologi prevale un senso di inutilità, esacerbato dall’essere marginalizzati anche rispetto ai nuovi campi di ricerca finanziati dal mercato perché i soggetti privati preferiscono sfruttare le competenze di altre scienze sociali, in particolare di sociologi e politologi (Scarduelli, 2022).
In particolare,
L’antropologia russa oscilla fra nostalgia del passato e apertura all’Occidente; molti studiosi difendono caparbiamente il retaggio dell’etnografia sovietica e non mostrano capacità di revisione autocritica, altri invece si aprono agli influssi occidentali ma in modo acritico e subalterno. Non sembra emergere una terza via, che potrebbe basarsi sul ripensamento e il rinnovamento dell’approccio marxista. Ad ostacolare questo sviluppo vi è il fatto che durante l’epoca sovietica l’applicazione del marxismo alla ricerca antropologica è stata rigida e meccanica; agli antropologi russi non mancava certo la qualità ma erano bloccati dalla necessità di adeguarsi alla versione ‘scolastica’ imposta dall’ideologia di Stato, mentre sono stati gli antropologi occidentali, soprattutto quelli francesi (Meillassoux, Godelier, Bourdieu), ad applicare in modo creativo le categorie marxiane alla ricerca antropologica (Scarduelli, 2022, p. 239).
La crisi degli anni Novanta – conclude Scarduelli – ha lasciato un vuoto irrimediabile. Dopo il crollo dei regimi fascista e nazista, dunque, l’antropologia è rifiorita; dopo il crollo del regime comunista, invece, l’antropologia si è persa.
Di recente è stato tradotto in italiano un libro di James Clifford, Ritorni, uscito in edizione originale nel 2013. Non proprio l’altro ieri perché non c’erano ancora state la pandemia, la guerra, anzi, le guerre, ma nemmeno la presidenza Trump e tantomeno il governo Meloni (da noi). Il volume riprende una riflessione storica sulla cultura e mette in evidenza la capacità che molti popoli locali hanno mostrato di resistere, reinventarsi, nonostante tutto, e di svolgere oggi una parte attiva e propositiva nonché interlocutoria a livello internazionale su molte tematiche di portata globale (l’ambiente, la sostenibilità, il patrimonio culturale, l’identità e i diritti). Ecco i “ritorni” dunque. Clifford definisce il “decentramento dell’Occidente”, un cambiamento in corso nelle relazioni di potere. Il libro riprende il punto centrale de I frutti puri impazziscono, quella “creolizzazione” che da quel momento in avanti è stata al centro di tutta l’antropologia decostruttiva e critica, quella tendente a mettere in discussione “canoni stabiliti” e “strutture istituzionali”, a sovvertire norme sociali e autorità culturali: “in tutto il mondo le popolazioni indigene hanno dovuto confrontarsi con le forze del progresso e dell’unificazione nazionale”, scriveva Clifford alla fine degli anni ’80 del Novecento, evidenziando che in molti casi quel confronto / scontro era stato foriero di creatività e innovazione, di “nuovi ordini di diversità”, e non solo di devastazioni. Dopo 25 anni quelle popolazioni non solo hanno resistito e si sono reiventate, afferma Clifford, ma si presentano al mondo come alternative credibili (e anzi necessarie). Può darsi.
Nella prefazione all’edizione italiana Adriano Favole scrive:
Ho incontrato James Clifford nel maggio del 2022 in occasione del Festival “Dialoghi di Pistoia”. Lo avevo conosciuto molti anni prima leggendo i suoi libri. The Predicament of Culture e Routes, che sono stati per me, insieme a tutta la sua produzione scientifica sulle società del Pacifico, un costante punto di riferimento (Clifford 2023, p. 7).
Anche per me James Clifford è stato un punto di riferimento. Io non l’ho mai incontrato ma ci siamo scritti. Fin dai tempi di Writing Culture (1986, trad. it. Scrivere le culture), un libro importante per la disciplina e anche per me, che scrivevo una tesi sullo stesso argomento. La mia tesi, La scrittura etnografica, la discussi proprio nel dicembre del 1986, pochi mesi dopo l’uscita negli Stati Uniti del libro di Clifford (e George Marcus). Credo di essere stato il primo a far arrivare il volume in Italia, allora non c’era ancora amazon, e a Roma una piccola libreria di via del Corso faceva arrivare in alcune settimane i libri anglosassoni. Ormai la mia tesi era pressoché finita; feci in tempo solo a aggiungere il testo in bibliografia. Una tesi fortemente critica, appunto decostruttiva (che non vuol dire distruttiva): affrontavo i fondamenti epistemologici della disciplina, mi interrogavo sul diritto degli antropologi di “rubare” conoscenze ai nativi, in certe condizioni politiche e storiche (per esempio in pieno colonialismo), e metteva in serio dubbio le possibilità della disciplina di sopravvivere qualora fosse rimasta alle stesse condizioni che avevano avallato i progetti di Franz Boas e di Bronislaw Malinowski. Partivo da lì; dagli antropologi del “mondo libero”, Inghilterra, Francia, Stati Uniti. Gli altri – quelli che avevano lavorato sotto un regime, Italia, Germania, Unione sovietica, come abbiamo visto, ma anche Spagna, Portogallo – per me non esistevano.
Davo il mio contributo alla svolta postmoderna e decostruttivista, dentro la quale mi riconoscevo pienamente. In quegli anni matura il riconoscimento che non esistono le società fredde, che aveva invece individuato Claude Lévi-Strauss, quelle comunità senza storia, immerse in un eterno presente su cui tanto si erano concentrati gli antropologi; l’emblema di questo riconoscimento e in generale del decostruttivismo postmoderno era (è) appunto I frutti puri impazziscono (del 1988, tradotto nel 1993), di James Clifford. Tutte le società sono immerse nella storia, e si trasformano. Perché la dimensione culturale, essenziale per l’uomo come l’aria che respira, è profondamente storica; le tradizioni, anche: si trasformano, prendono elementi estranei e li inglobano riformulati, copiano, intrecciano, sono ibride, meticce, creole, mescolate. La cultura, dunque, è “bastarda”, non è pura. Gli antropologi hanno faticato a capirlo, ma alla fine le evidenze etnografiche, empiriche, raccolte in tutto il mondo, sono state troppe e troppo eclatanti. È così che funzionano le culture, le tradizioni. Con buona pace dei fascismi, dei nazismi, dei comunismi, dei fondamentalismi, degli assolutismi.
Sono gli esiti inconfutabili di una lunga ricerca antropologica libera da imposizioni. Per quanto, ovvio, possa essere libero uno studioso che è comunque un essere umano che sta dentro un contesto, dentro una cornice ideologica, politica, economica, storica. Questo per evitare che qualcuno sollevi la questione dell’antropologia “figlia del colonialismo”.
Ora, torno al punto: affermare il primato dell’ibridazione culturale, della creolizzazione linguistica, musicale, artistica, religiosa, ecc. è compatibile con una cultura “di destra”? È compatibile con una cultura che pone assoluti, o almeno li dichiara come tali: la “famiglia naturale”; la tradizione (italiana nel nostro caso) e il Made in Italy; i confini della Patria; il popolo (che ha sempre ragione); l’essere cristiani (come dichiarato con orgoglio dalla premier), il “Santo Natale” (slogan inserito in migliaia di locandine con la faccia di Matteo Salvini che augura “buon Santo Natale”). È compatibile con una cultura che si rende paladina di identità forti, solide che quasi sconfinano nella idea di “razza”? Per inciso, è questo il motivo per il quale J. R. R. Tolkien è stato arruolato dalla destra, senza considerare, però, che si tratta di un mito, una narrazione fantastica, e che la realtà è profondamente diversa. Afferma Marcello Veneziani in un’intervista di qualche anno fa:
La cultura di destra (…) riportava in luce il filone sommerso della tradizione e la linea della cultura nazionale, riproponeva il pensiero reazionario e cattolico antiprogressista, conservatore e nazionale (…) la cultura di destra vive a disagio nell’epoca dell’individualismo cinico di massa, non sopporta né il primo né la seconda; non ha una vocazione politica, anzi è tendenzialmente impolitica, e i suoi temi spirituali, le sue opere, hanno poca udienza nel tempo del primato globale della tecnica e della finanza. Può avere invece un vivace ruolo antagonistico rispetto al politically correct nel quadro di una battaglia delle idee […]. E poi le vecchie carcasse, destra e sinistra, sono sempre più fragili, anche quando sono rievocate così spesso nel linguaggio corrente. Però nel tempo della deperibilità veloce di tutti i messaggi e i soggetti, una cultura fondata sull’essere nel tempo labile del divenire, potrebbe avere per contrasto un suo fascino potente […] (Panorama n. 6, febbraio 2020)
Una cultura fondata sull’essere, nel tempo labile del divenire. Per evitare il rischio concreto di essere travolti e annientati da una “mezza” globalizzazione senza controllo – i cui segnali sono già più che presenti –, che provoca perdita di sovranità nazionale, invasioni di stranieri, annacquamento delle specificità e delle identità che si fanno “liquide” e effimere, l’unica sarebbe fare marcia indietro e tornare verso un mondo fatto di una molteplicità di poli culturali, linguistici e politici diversi, ben definiti e confinati, che si oppongono tenendosi a distanza e sempre a distanza a volte comunicano e si scambiano elementi, senza tuttavia eccedere e mantenendo ciascuno le proprie specificità.
E quindi, l’altra strada (che deriva da una “cultura di destra”…): ammettere che la condizione cosmopolita in senso kantiano – la terra appartiene a tutti allo stesso modo, ognuno è libero di vivere dove meglio gli aggradi, ecc. – è solo una bella costruzione filosofica, ma non può trovare in alcun modo applicazione, perché gli umani non possono liberarsi dai particolarismi, dalle appartenenze, dagli attaccamenti e dal dominio delle verità relative e dalle gerarchie che tali tratti inevitabilmente generano.
Scriveva Claude Lévi-Strauss alcuni anni fa: “… le grandi epoche creatrici furono quelle in cui la comunicazione era diventata sufficiente perché corrispondenti lontani fra loro si stimolassero, senza tuttavia essere così frequente e rapida da far sì che gli ostacoli, indispensabili fra gli individui come fra i gruppi, si riducessero fino al punto che gli scambi troppo facili livellassero e confondessero la loro diversità” (1984, pp. 29-30).
Può darsi che il grande antropologo francese – tra l’altro un conservatore – avesse colto nel segno. Gli ostacoli, fra gli individui come fra i gruppi, potrebbero esserci indispensabili. Vivere in un mondo senza confini, quindi indefinito, in cui aumenta la percezione di uniformità culturale (e linguistica) perché le diversità stanno a distanza ravvicinata, si mescolano e finiscono con l’annullarsi, potrebbe non essere quello che fa per noi (umani), destinati (o condannati, a seconda dei punti di vista), per antico volere di una qualche divinità, a trovare il senso solo “nell’ordine, nella direzione, nella stabilità”.
Riferimenti bibliografici
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L'autore
- Vincenzo Matera è professore ordinario di antropologia culturale e di antropologia linguistica nell’Università di Milano, Dipartimento di Lingue, Letterature, Culture Mediazioni. È docente di storia sociale della cultura nell'USI (Università della Svizzera Italiana), Facoltà di Comunicazione, Cultura e Società. Si occupa di teoria antropologica, di scrittura e di politiche della rappresentazione, nel quadro di una più ampia riflessione sulle pratiche comunicative. Tra le sue ultime pubblicazioni: Pensare, parlare, scrivere, videoscrivere, digitare, in L’antropologia linguistica di G. R. Cardona, a cura di C. Bologna e V. Matera, La ricerca folklorica, Grafo edizioni, n. 78, anno 2023, pp. 241-252; Storie dell’antropologia (a cura di G. D’Agostino e V. Matera, Utet università, 2022, trad. inglese Histories of Anhtropology, Palgrave, 2023).
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