L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni
Autentica leggenda, quella di Gigi Riva, scomparso pochi giorni fa (il 22 gennaio). La morte di «rombo di tuono» rende il mondo più povero, non solo l’Italia, perché va via, con lui, un calcio che non esiste più, fatto di passione e di fatica, non di soldi e di sbruffonaggine, non di smargiassate e di razzismo. Gigi Riva, che non era sardo, che non era nato a Cagliari, o a Sassari, o a Nuoro, ma a Leggiuno (in provincia di Varese), scelse di restare in Sardegna, con il «suo» Cagliari, con la «sua» regione, con il «suo» popolo, per amore, per passione, per fedeltà, rifiutando offerte milionarie (che pur giunsero dalle squadre del Nord Italia), sentimenti e parole che, oggi, suonano come vuote e senza senso, alle orecchie di calciatori (e di tifosi) sempre più cafoni e cattivi. Di certo, Riva è stato il più grande attaccante che l’Italia abbia mai avuto, con il record di 208 reti segnate con la maglia del Cagliari, squadra nella quale restò dal 1963 al 1977, contribuendo a conquistare, nella stagione 1969-1970, il primo e unico scudetto della squadra sarda. Con la Nazionale italiana ha disputato 42 partite, realizzando 35 goal, contribuendo a vincere, nel 1968, il Campionato europeo, e, nel 1970, il secondo posto (nella finale disputata contro il Brasile). Di questo IX Campionato mondiale, nel quale, appunto, arrivammo secondi, scriverò fra poco, in merito alla partita di semifinale, disputata il 17 giugno 1970, allo stadio Azteca di Città del Messico, nota, ormai, a livello universale, come la partita del secolo: Italia – Germania ovest, 4 a 3 (nella quale Gigi Riva segnò un goal, e nella quale resta negli occhi e nel cuore di ciascuno di noi l’abbraccio sfinito con Rivera). Dal 1990 al 2013 è stato team manager della Nazionale italiana. Dal 2005, cittadino onorario della città di Cagliari. La società sportiva del Cagliari ha ritirato per sempre la maglia numero 11, consegnata allo stesso Gigi Riva. Il soprannome «rombo di tuono», attribuitogli per la potenza del suo tiro sinistro, è opera di Gianni Brera, il fantasista della parola, perché, come sostengo e scrivo da tempo, lo sport ha, sì, bisogno di campioni, a tutti i livelli, ma ha anche un gran bisogno di campioni della parola, di fantasisti della parola, che sappiano raccontarlo. E Gianni Brera lo è stato, grandissimo campione della penna, della parola, giornalista e scrittore di sport. Sinistro naturale (o mancino che dir si voglia), che mal si adattava all’utilizzo del piede destro, Gigi Riva era rapido nello scatto, e forte nello scontro agonico. Persona proverbialmente schiva e riservata, di poche (ma misurate) parole. Lui che era un autentico mito, una leggenda. Le cronache raccontano che, proprio in quel mondiale del 1970, le due star che i tifosi di tutto il mondo attendevano, erano, appunto, Riva e Pelè. Pier Paolo Pasolini, distinguendo tra calcio poetico sudamericano (caratterizzato dal dribbling e dal goal), e calcio europeo – italiano – di prosa (basato più sulla sintassi, cioè sul gioco collettivo organizzato, o geometrico), con l’evento epifanico del goal che nasce dal contropiede, scriverà (citando Riva) proprio queste riflessioni in un articolo apparso ne «Il Giorno», del 3 gennaio 1971:
Il «goal» in questo schema, è affidato alla «conclusione», possibilmente di un «poeta realistico» come Riva, ma deve derivare da una organizzazione di gioco collettivo, fondato da una serie di passaggi «geometrici»
Desidero segnalare, almeno, due libri, che hanno saputo raccontare quell’epica partita di semifinale dei Mondiali del 1970, nella quale «Rombo di Tuono» fu il perno, il punto di equilibrio:
Nando Dalla Chiesa: La partita del secolo. Storia di una generazione che andò all’attacco e vinse (del 2001, ma parzialmente riscritto e riedito nel 2020), Italia – Germania: 4 a 3. La notte di Città del Messico, quella notte tra il 17 e il 18 giugno 1970, in realtà, non finì mai, continuò (in Italia) nelle strade, nelle piazze, nei bar, nelle spiagge, continuò ovunque, perché doveva servire per dare sfogo alla festa. Alla festa di popolo. In quella notte, il mondo non assistette soltanto allo scontro tra due squadre di calcio, sempre rivali e sempre tra le prime squadre al mondo. No. Fu molto di più. Fu uno scontro che andò ben oltre il calcio, e che Nando Dalla Chiesa, in questo libro, ha saputo ricostruire, e ha saputo raccontare, tra passioni e rivalità nazionali (direi, che si trattò di uno scontro di civiltà: tra quella mediterranea, la nostra civiltà, e quella nordica, la loro civiltà). Gli straccioni, cioè noi, e i signori, cioè loro, i padroni (gli stessi padroni di quelle fabbriche nelle quali trovavano umili lavori i nostri emigrati).
e il libro:
Roberto Brambilla – Alberto Facchinetti: Quattro a tre (2020). Ancora lei, ancora una narrazione della partita del secolo, Città del Messico, 17 giugno 1970, semifinale del IX Campionato Mondiale di Calcio. È la partita che vanta decine e decine di riscritture (tra canzoni, film, atti teatrali, romanzi, graphic novel, finanche un albo della Walt Disney, «Topolino e il collezionista di stelle», n. 3082 / del 2014). La partita entrata immediatamente nell’immaginario collettivo italiano (e mondiale), nei minuti durante i quali la si stava ancora disputando, tra tempi regolamentari e tempi supplementari, la partita dei repentini capovolgimenti di fronte, e delle emozioni. La partita vissuta attraverso la voce di Nando Martellini, per quanti la seguirono attraverso le riprese televisive, e attraverso quella di Enrico Ameri, per quanti, invece, ne seguirono la radiocronaca. Quella notte (e quella partita) segnano un «di qua» e un «di là», nella vita del nostro Paese (ma anche nella vita della nazione tedesca), non soltanto nella storia del calcio mondiale. Un prima e un dopo.
Nel suo libro, precisa Nando Dalla Chiesa che:
ogni popolo stabilisce silenziosamente e senza intenzione quali giorni resteranno nella sua memoria. Quali saranno simbolo di dolore o evocheranno la paura, quali restituiranno senso alla speranza o regaleranno sempre e comunque un sorriso.
Annota Massimo Castellani, giornalista e scrittore, nella Prefazione al libro di Brambilla e Facchinetti, che in quella squadra del 17 giugno 1970, tre calciatori (del Cagliari):
il portiere Ricky Albertosi, il libero con licenza di avanzare Pierluigi Cera e il bomber “Rombo di Tuono” Gigi Riva, furono protagonisti assoluti di quella che ormai è passata alla storia come la partita del secolo.
E qualche pagina dopo, a libro iniziato, si legge, appunto, di Riva che giunse a quel mondiale dopo aver trascinato il suo Cagliari a conquistare lo scudetto:
Negli ultimi mesi le copertine dei giornali non solo sportivi sono state tutte per lui. Ok, c’è Pelè al quarto mondiale col Brasile. “Ma noi abbiamo Riva”, si dice in Italia.
Scrivono Brambilla e Facchinetti che quella italiana fu una «stanca felicità»:
I ragazzi sono stremati, quasi non riescono ad essere felici. Ma sanno di aver fatto qualcosa di irripetibile. “Questa partita la racconteremo a figli e nipoti”, dice Gigi Riva. Steso sul letto dei massaggi, non vuole per il momento pensare alla finale e a Pelè.
Nel 2022, il regista e sceneggiatore Riccardo Milani ha dedicato a Gigi Riva il film documentario Nel nostro cielo un rombo di tuono, si tratta di un apprezzatissimo docu-film, omaggio alla carriera e alla vita del grande campione.
La leggenda di quel «10 targato 11»: Mariolino Corso
Mariolino Corso meritatamente avrebbe potuto pronunciare la frase «io sono leggenda», se solo non fosse stato uomo e calciatore atipico, nel senso di schivo. E questo era ed è una rarità, in quel mondo perlopiù popolato da sbruffoni e da esibizionisti, pronti a mettersi sotto i riflettori, per un supplemento di visibilità e di gloria. Mariolino Corso invece è stato un grandissimo campione e un grandissimo uomo, senza mettersi sotto i fari. L’intero mondo dello sport, non solo quello interista, deve mantenere sempre vivo il ricordo di quest’autentica leggenda del calcio, che fu il «piede sinistro di Dio», scomparso il 20 giugno del 2020. Comunque, per il titolo di questo paragrafo, La leggenda di quel «10 targato 11», ho utilizzato un’espressione di Gianni Mura, alludendo al fatto che, in campo, il ruolo di gioco di Mariolino Corso non fu quello del numero 11, che portava stampigliato sulla maglia, il ruolo di un’ala sinistra, bensì quello che oggi definiremmo come trequartista. Ma questa non fu l’unica espressione coniata per Mariolino Corso. Basterà ricordare, per esempio, la definizione di «participio passato del verbo correre», uscita dalla penna di Gianni Brera, che giocò sul cognome di Mariolino, con un po’ di malizia in più, da parte di Brera, altro gigante del giornalismo e della letteratura sportiva tout-court (e maestro di Gianni Mura), che, così scrivendo, rimproverava a Mariolino Corso di non sprecarsi tanto in campo, di risparmiare energie, di starsene sornione al riparo, all’ombra, e di fare la sua parte solo al momento opportuno. Mariolino, di rimando, rispondeva al grande Brera, che in una squadra come l’Inter non si resta per tanti anni (e Corso restò all’Inter dal 1957 al 1973, per quasi vent’anni) senza correre (e senza correre tanto). Il mago Herrera, per esempio, visto che tra i due non correva buon sangue, ogni anno, metteva proprio il nome di Mariolino Corso al primo posto, nella lista dei calciatori da cedere, ricevendone, sistematicamente, il rifiuto, da parte di Angelo Moratti, il patron di quella squadra magica. Velocità, certo, ma anche millimetrica precisione dei lanci lunghi, e poi quei calzettoni eternamente abbassati, nella mente e nei ricordi di tutti i nerazzurri d’Italia, a caratterizzare lo spirito indomito e ribelle di questo fuoriclasse (e dell’uomo), che avrebbe potuto dare molto di più anche alla Nazionale italiana, se solo lo avessero convocato qualche volta in più (Corso, infatti, giocò con la maglia azzurra solo 23 partite, segnando 4 goal). Con la sua Inter, Mariolino Corso vinse tutto (in 507 presenze in nerazzurro, segnò ben 95 reti, e contribuì alla vittoria di quattro campionati italiani, di due Coppe Campioni e di due Coppe intercontinentali). Fu proprio l’allenatore della Nazionale di Israele, nel 1961, l’ungherese Gyula Mándi, secondo la vulgata accolta universalmente, a definirlo «piede sinistro di Dio», visto che in quell’occasione Mariolino segnò la doppietta che eliminò la rappresentativa israeliana, facendo qualificare quella italiana: «Siamo stati bravi ma ci ha battuti il piede sinistro di Dio». Avrei potuto utilizzare un altro titolo, per questi miei commossi ricordi, e cioè Mariolino Corso, il «più mancino dei tiri», che, in realtà, è il titolo di un gran libro, firmato da Edmondo Berselli, uscito da Mondadori nel 1995, e che non è (solo) un bel libro sul calcio (e su alcuni campioni come Corso, Mazzola, Rivera, Riva), ma un libro serio e acuto sull’Italia, di ieri e di oggi. Libro del quale, ovviamente, caldeggio la lettura:
[Corso] ha ricevuto in dono da Dio un piede solo, il sinistro. Il destro gli serve per bellezza. [Corso] l’estraneo, l’indefinibile, l’alieno. […] vocetta smorta, occhio assonnato. Mai l’apparenza è stata così ingannatrice: dal suo stato di pigro dormiveglia, Corso è in grado di estrarre guizzi serpigni, invenzioni capaci in incubi per qualsiasi difesa. […] È un individuo che lotta contro l’omologazione, un allevatore di lucciole. Infatti, per sfuggire all’omologazione con un personale e individualistico sberleffo, Mario Corso ha portato a una perfezione ultraterrena il calcio di punizione a palombella. Quattro passi di rincorsa, sinistro liftato, palla che sorvola con inesorabile lentezza la barriera, portiere avversario annichilito mentre la palla si adagia beffarda in rete. La chiamano «foglia morta»…
Libro prisma, capace cioè di passare dal campo di gioco, a riflessioni di metodologia della ricerca (storica) e di divulgazione della ricerca, senza alcun intoppo o imbarazzo (per il lettore). Così, infatti, Berselli, scrivendo di Mariolino Corso, fa riferimento a un libro dello storico francese Fernand Braudel, tra i massimi esponenti della École des Annales, la rivoluzionaria scuola storiografica che avviò l’approccio comparatistico nello studio delle civiltà, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. Libro che Braudel scrisse non alla scrivania del suo comodo studio, con la possibilità cioè di consultare (e di citare) a piacimento documenti e fonti, che un simile saggio esige, ma scritto in una baracca di prigionia, durante la seconda guerra mondiale; scritto a memoria, senza il ricorso alle fonti o ai documenti. Ecco, questo è il prisma Berselli, concedere ai lettori la possibilità di leggere del piede sinistro di Dio, ma di ricevere, anche, contemporaneamente, una lezione di metodologia della ricerca (non solo di quella storica):
In buona sostanza: va bene nutrire una devota reverenza per l’insigne accademico che spulcia tutta la letteratura, interroga finemente i classici, si misura alla pari con i contemporanei, postula lo sviluppo del dibattito e infine consegna gli esiti della sua scienza a capitoli ben ponderati e redatti con sapiente acribia e misurato rigore: ma si dà il caso che noi non viviamo nella quiete ombreggiata dell’accademia […]. Qualcuno ricorderà un saggio di Robert K. Merton, intitolato Sulle spalle dei giganti, che chiosava fino alla vertigine l’assunto di Bernardo di Chartres secondo cui i moderni riescono a vedere più lontano, in lungo e in largo, di qua e di là, perché sono comodamente sistemati sulle spalle dei grandi, i classici. Noi, invece, altro che moderni, siamo contemporanei: viviamo nei bar, sui treni, in auto, a cena, in salotto. In pratica, sulle spalle dei nani.
In questo passaggio del libro prisma di Berselli, personalmente ho ritrovato il senso più autentico del mio «pop», della mia idea di letteratura pop, che nasce, e che si fa comunicazione proprio nei bar, nei lidi, nei festival, nelle piazze, nelle scuole, negli studi televisivi, tra la gente, in una grande contaminazione di stili, di luoghi e di linguaggi. Per le sue estrose qualità di genio (e, dunque, dalle prestazioni incostanti), Mariolino Corso fu anche soprannominato Mandrake (personaggio dei fumetti, nato negli anni Trenta del secolo scorso, e noto per le sue magie, per le sue così dette mandrakate, di grande popolarità anche in Italia, fino a determinare la nascita di una espressione proverbiale, «non sono mica Mandrake», a indicare proprio un’azione impossibile da fare). Mariolino Corso, dunque, fu una delle colonne portanti di quella grande Inter delle meraviglie, che vinse tutto, agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, guidata dai Moratti, e allenata da Helenio Herrera, un altro mago, appunto, un altro Mandrake. Pier Paolo Pasolini, gran tifoso del Bologna (proprio quel Bologna dello spareggio vinto, nel 1964, contro l’Inter, per lo scudetto), che di calcio se ne intendeva, lo praticava, e ne scriveva (suo, per esempio, il neologismo «podema», a indicare, in analogia con «fonema» e con «grafema», i passaggi di palla tra un calciatore e l’altro, per dar vita a un discorso, cioè, a un’azione di calcio), scrisse di Mariolino Corso queste parole:
Corso gioca un calcio in poesia, ma non è un “poeta realista”: è un poeta un po’ maudit, extravagante.
Pasolini, come ho scritto nel primo paragrafo di questo mio articolo, la definizione di «poeta realista» (del calcio) l’aveva attribuita a Gigi Riva (l’altro sinistro del calcio italiano che, da oggi, ci manca terribilmente). Mariolino Corso finì la carriera calcistica con il Genoa, ed ebbe pure qualche esperienza come allenatore, come talent scout, e come commentatore televisivo.
L'autore
- Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura». Ha insegnato «Linguistica italiana» al Corso di Laurea Magistrale in «Scienze della Mediazione Linguistica», e «Didattica della lingua italiana» per l’Università degli Studi di Foggia, e «Storia della lingua italiana» in Polonia (Università di Stettino). È autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani, con il quotidiano «Corriere del Mezzogiorno» («Corriere della sera»), e con diversi blog letterari. Realizza lezioni-spettacolo sui Classici della Letteratura italiana, ed è commentatore televisivo e radiofonico.
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