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Salvatore Quasimodo: “Dalla Grecia”

L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni

In La terra impareggiabile, la penultima raccolta poetica di Salvatore Quasimodo, pubblicata nel 1958 per le edizioni Mondadori, è presente una sezione intitolata Dalla Grecia, costituita da un gruppo di sette poesie che si riferiscono ai centri di storia e cultura dell’antica Ellade. I versi sono ispirati a un viaggio che l’autore fece in Grecia nell’ottobre del 1956, visitando l’Acropoli, Micene, Olimpia, Delfi, Maratona, Cnosso ed Eleusi.

In questa raccolta il poeta siciliano, premiato con il Nobel (1959), «non tesse semplicemente le lodi alla Grecia antica», ma riesce a trasformare «in alta poesia» la sua esperienza di visitatore di alcuni dei più rinomati siti archeologici ellenici, andando “oltre” «i confini di un semplice diario di viaggio oppure di un encomio per ciò che la Grecia ha offerto alla civiltà» [Tsolkas Ι., (2016): 84] e alla civilizzazione dei popoli europei. E non solo. Pur immergendosi nei miti greci classici, infatti, li fa rivivere in modo singolare, riallacciandoli al presente. Queste poesie di Quasimodo «raggiungono un livello di assoluta maturità e saggezza di vita» [Ghikopoulos F., (2003): 83].

Ma procediamo con ordine. Innanzitutto occorre ricordare che Quasimodo nasce in Sicilia, in Magna Grecia. Per di più, non va taciuto che sua nonna era greca di Patrasso e si chiamava Rosa Papandreu. Probabilmente questi due fattori furono la prima molla che lo spinsero a desiderare di riscoprire le sue remote origini di siculo-greco. A ben vedere, «riscopre la sua grecità di poeta siculo: la scopre nel sangue e nell’arte, la sente radice e traguardo, attualità e ansia di possesso, coscienza di remota nobiltà […]» [Gigante M., (1970): 17].

Per comprendere più a fondo l’intensità del rapporto che il poeta instaurò con la terra ellenica, tuttavia, occorre senz’altro ricordare che Quasimodo, a vent’anni (1921), benché si fosse diplomato in educazione tecnica, iniziò da autodidatta lo studio del greco sotto la guida di monsignor Mariano Rampolla del Tindaro [Zagarrio G., (1969): 129], diventando un buon conoscitore della lingua e della letteratura di questo Paese.

Tale profondo interesse per la cultura greca si trasformò in autentica passione cosicché si dedicò assiduamente alla traduzione di alcuni passi dell’Odissea (Dall’Odissea, 1946), di alcune famose e antiche tragedie [Eschilo (Coefore, 1949), Sofocle (Edipo re, 1947; Elettra, 1954), Euripide (Ecuba, 1962; Eracle, 1964] e soprattutto dei versi dei grandi lirici greci dell’antichità (Lirici greci, 1939-1940). Così, spinto da questa dedizione al mondo classico e sollecitato dalla tragedia della guerra, fu indotto ad affrancarsi gradualmente dall’ermetismo iniziale e a dare una svolta nella sua poetica.

La scelta di tradurre i versi dei Lirici greci fu senz’altro espressione del suo forte desiderio di ridare voce a coloro che riteneva suoi conterranei, come confessò lo stesso poeta siculo: «Le parole dei cantori che abitarono le isole di fronte alla mia terra ritornarono lentamente nella mia voce, come contenuti eterni, dimenticati dai filologi per amore di un’esattezza che non è mai poetica e qualche volta neppure linguistica» [Quasimodo, (1960): 73].

Nella lettera del 10 luglio 1937, esprimendo con enfasi le sue emozioni alla donna di cui era innamorato, Maria Cumani, il poeta scrisse: «Stanotte sono stato con Saffo. Io pensavo di dire a te quelle parole […] della poesia più alta dell’antichità, e quello che di greco c’è nel mio sangue s’è svegliato […]».  E, in una successiva epistola (13 luglio 1937), le confida addirittura: «Naturalmente è una Saffo veduta e sentita da me, ed ecco che quelle parole suonano come nelle mie migliori liriche […]».

Non desideriamo in questa sede avvalorare le pur interessanti tesi dei critici che si schierarono a favore delle “libere” traduzioni quasimodiane, né confutare l’opinione di quelli che ne sottolinearono il “limite” essendo troppo distanti dall’originale, quanto piuttosto mettere in rilievo come Quasimodo si sentisse così intimamente vicino all’aedo e agli altri lirici da «ritrovare l’incanto delle origini, oltre tutti gli impedimenti che la nostra civiltà era riuscita ad accumulare», stimolandolo «a riscoprire  la sua cifra “personale”, la propria voce poetica» [Torno A., 2004: VII).

Secondo Marcello Gigante, «la prova di Quasimodo nel 1940 segnò una data nella storia della poesia italiana contemporanea: nasceva un nuovo “stile da traduzione” […]. Ad antichi poeti […] veniva ridonata una voce profonda […], una voce moderna e rinnovata, libera […]. La traduzione era poesia e il testo si offriva al poeta […] come possibilità di esprimere i sentimenti assidui del cuore dell’uomo immutabile» [Gigante M., (1970): 31-32].

Lo stretto contatto con le voci poetiche dell’antichità ellenica aiutò l’«operaio di sogni», come amava autodefinirsi Quasimodo stesso, a maturare il suo pensiero e a trasformarsi in un poeta civile. «La grecità», infatti, significò per il poeta siculo una fonte dove «attingervi contenuti etici e derivare dalle parole un messaggio di forza, un monito di coerenza» [Gigante M., (1970): 18], ovvero una coscienza civile.

A questo proposito, nel Discorso sulla poesia (1956), rilevante è l’analisi che l’«operaio di sogni» effettua, affermando che la posizione del poeta non può essere passiva nella società perché «egli modifica il mondo[…] Le sue immagini forti, quelle create, battono sul cuore dell’uomo più della filosofia e della storia. La poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza: la sua responsabilità è in diretto rapporto con la sua perfezione. Scrivere versi significa subire un giudizio: quello estetico comprende implicitamente le reazioni sociali che suscita una poesia. Conosciamo le riserve a queste enunciazioni. Ma un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente. E poesia è libertà di quel tempo e non modulazioni astratte del sentimento».

Furono questi, dunque, i motivi che lo condussero a diventare un poeta della «dissonanza», un poeta che ancora guarda agli antichi miti, ma questi ultimi, più che «fughe letteratissime» (Apparati: 558), costituiscono per ossimoro una rappresentazione dei cambiamenti storici della società neocapitalista che omologa tutto e dove la macchina «stritola i sogni» [Quasimodo (2020): 268 (In questa città)].

Alla luce di ciò, ci sembra particolarmente significativa la prima poesia della raccolta Dalla Grecia, intitolata Di notte sull’Acropoli.

La civetta è la protagonista assoluta del carme: essa dapprima ci appare come un animale beato e felice il cui canto risuona lontano, mentre osserva l’Acropoli illuminata dalla bianca luna, caratterizzata da un «mare» di marmo bianco in cui il granito assomiglia a «dura schiuma», e guarda all’ulivo vicino all’Eretteo che, con la sua chioma, di notte, «segnava dei triangoli ondulati» simili a scarabei in movimento.

Numerose le immagini misteriose e le metafore suggestive, in primis quella della stessa civetta che, essendo dotata di particolari occhi capaci di vedere anche al buio, è considerata simbolo di saggezza e, pertanto, compagna inseparabile di Atena, la dea dotata di quella intelligenza razionale che “vede” anche dove altri scorgono solo ombre e s’immergono nelle tenebre dell’ignoranza.

L’ulivo, inoltre, come un orologio, “segna” il tempo, mentre lo scarabeo, considerato un potente amuleto presso gli egizi con funzione magica-apotropaica di eterna rinascita nel divenire, dell’alternarsi del giorno e della notte, del trasformarsi, promette eventi felici insieme ad un costante miglioramento delle facoltà intuitive e spirituali. Perfino l’ombra triangolare dell’albero sembra assumere un significato-simbolo di perfezione, di proporzione pitagorica e di armonia, la cui forma ondulata ci riporta all’iconografia medioevale in cui la regione dell’Eternità veniva demarcata da una particolare linea, appunto ondulata, a rappresentare il rapporto tra divino e umano.

Ma, nel bel mezzo, la poesia cambia di tono, s’incupisce. Lo stesso bianco, finora cantato come colore portatore di luce, si trasforma in male, diventando simbolo di «bestie di sangue bianco», ossia di esseri umani dagli istinti bestiali, mentre le colonne si personificano, sembrano diventare inquiete, s’agitano.

L’uccello rotea il suo becco triangolare perfetto, emettendo suoni simili a una melodia e descrivendo un’ellisse. Ed ecco che la ruota della fortuna del Partenone gira. La guida racconta ai visitatori quale fu la sorte tragica e sventurata che toccò al tempio: venne trasformato in una polveriera e venne distrutto da un colpo di mortaio veneziano (1687) che ne guastò l’«armonia dei volumi» e, in seguito alla caduta della dea Pallade o Partena-Vergine, diventò una chiesa dedicata a Maria-Vergine (V secolo d.C.).

Appare evidente come il succedersi degli eventi della storia sia più forte dell’estetica o dei miti, anzi «il mito acquista in questa frangente una funzione di controcanto, che favorisce lo straniamento, non di evasione neoclassica o arcadica. Dopo il conflitto mondiale e la guerra civile, la Grecia si presenta al poeta visitatore nella sua complessa e contraddittoria realtà» [Apparati, p. 558], una realtà sempre più inquietante e tragica.

La stessa sorte beffarda e infausta, decretata per il Partenone e l’Acropoli, toccò a Micene dove non si fanno più banchetti omerici, ma esiste un’osteria con l’epigrafe, «La bella Elena di Menelao» in cui il turista può trovare formaggio di pecora e vino resinato che «svia» il pensiero dalle vicende degli Atridi, mentre la reggia di Agamennone è diventata «un covo di briganti». Tutto ciò che resta dell’«invenzione del delitto», del furore di Elettra, del matricidio d’Oreste sono i mitici leoni istoriati sulla porta della città.

Anche l’Olimpia di Zeus e della dea Εra appare come un luogo per «villeggianti» dove non ci sono altro che «relitti di negazioni, difese come vita». Il fiume Alfeo continua a scorrere tranquillo verso l’Elide sotto il sole, dirigendosi lontano in Sicilia, per unirsi, secondo il mito, alla dea Arethusa. Quasimodo confessa che qui non cerca un luogo dell’infanzia, né vuole riannodare il filo spezzato dell’arrivo, quanto «dissonanze che vanno oltre la perfezione». A nient’altro mira che a ritrovare «quella musica discordante, particolarmente aspra nelle poesie del dopoguerra e quella dialettica dei contrari che sono alla base della sua elegia» [Apparati: 508].

Per l’«operaio di sogni» il mito diventa perfino uno spunto per riportare una sua banale disavventura, in cui incorse a Delfi, quando, salendo la scalinata del tempio, si strappò il tendine. Ironicamente l’autore dice che Febo, riconoscendoti, «alza l’arco e scocca dritto al tendine», nascosto sotto l’alveo delle pietre dove le serpi sacre partoriscono. In questo famoso luogo dell’oracolo di Apollo, una volta ombelico del mondo, il visitatore non bagna le labbra alla fonte Castalia, ma acquista «acqua frizzante» dal venditore che ride «vicino alla fonte con due statuette votive umide di muffa». Qui la statua dell’«auriga plebeo, dalla fronte bassa» e dall’ «occhio di cavalletta smaltato» continua la sua fuga eterna, emergendo dalle crepe e dalle rovine del terremoto. «Oltre lo scardinarsi dell’omphalos del santuario di Delfi, rimangono sparsi frammenti di bellezza […]. L’auriga plebeo è lì, davanti al visitatore del museo […]: la statua sembra protesa “in eterno” verso la meta, reliquia strappata alla distruzione» [Apparati: 558].

«Il verme della storia» non risparmia neppure Maratona dove «il lamento delle madri», che piangevano i figli persi in battaglia in nome della libertà della Patria, non fu udito da nessuno. Del glorioso passato non rimane altro che una stele e alcuni elmi e spade per terra, mentre gli abitanti di Argo vivono fra mura simili a «garitte di guardia».

E che dire di Cnosso? Un tempo ci vivevano giovani con fianchi sottili e rotondi cosicché «il Minotauro mugghiava nel labirinto anche per loro». Oggi de «il mostro di Cnosso», nel mercato orientale di Hiraklion «confuso e sporco», non è rimasto nulla «che assomigli alla Grecia di prima della Grecia».

Concludendo il suo viaggio, Quasimodo giunge ad Eleusi. In questa terra, in cui si celebravano i riti sacri in onore della dea Demetra, un generale, calpestando «canestri di vimini pieni di simboli» relativi ai misteri eleusini, ha fatto costruire sulla pietra, laddove un tempo c’era l’entrata dell’Ade, una torre di cemento con un orologio che batte a ritmi cadenzati le ore e descrive un vortice «volgare» e «grigio», ripetitivo e monotono.

Niente riporta alla memoria che lì il grande tragico Eschilo, rivolgendosi ad Ecate, la Luna che splendeva nel cielo, l’interrogò sull’eterno dissidio del bene e del male con accorati accenti chiedendole: “Che c’è di bene, che c’è privo di male?”

Fu ad Eleusi che «Quasimodo riscopriva il nesso tra la sua terra natale e la poesia di Eschilo» [Gigante (1970): 16]. Ed è proprio ad Eschilo che il poeta siciliano riconosce la grandezza di aver attribuito all’uomo la capacità di opporsi al fato con la ragione e il suo sentimento. Egli,  in seguito alla lettura nelle Coefore, percepì la nascita di un uomo “nuovo” che, davanti ai disegni inesplorabili della Dike, per i quali, secondo Eschilo, «i morti uccidono i vivi» [Eschilo, Coefore, verso 886], riafferma il diritto «di una giustizia invincibile, ma senza una strage che stringa in una sola catena il fiore di un’intera stirpe» [Gigante M., (1970): ibidem].

Sicuramente tale affermazione del grande tragico, posta a mo’ d’epigrafe su La terra impareggiabile, gli ispirò il discorso che tenne a Stoccolma durante la cerimonia di consegna del Premio Nobel per la Letteratura, un discorso stringato, ma denso di concetti, reso avvincente dalla limpidezza del linguaggio e dalla felicità delle immagini, nel corso del quale argomentò una questione spinosa, dai risvolti autobiografici: il poeta e il politico rappresentano l’espressione di un costante antagonismo. Mentre il poeta, infatti, è espressione dell’aspirazione alla «libertà», il politico è costantemente occupato «a sopprimere tre o quattro libertà fondamentali». Quest’ultimo, anzi, ritiene il poeta «un pericolo», «un elemento di disordine» che minaccia l’esercizio del suo potere sul popolo. L’unica arma del politico è, dunque, costituita «dalla degradazione del concetto di cultura operata sulle masse» e da un «formalismo che preferisce alcuni contenuti e ne allontana altri con violenza». Pur dichiarandosi protettore della cultura, pertanto, il politico apre la sua porta solo a quei letterati, disposti sempre a «servire» e a collaborare ai suoi disegni. «L’intelligenza creativa è stata sempre ritenuta un contagio mortale» e questo appare evidente già nel mecenatismo delle corti medioevali che «si è trascinato fino alle soglie del nostro secolo». Ed è proprio per questo che, per evitare che un cittadino acquisti coscienza di sé, favorisce una pseudocultura grazie a tutte quelle forme d’intrattenimento, «i mezzi-scientifici, radio e televisione» che zittiscono la ragione e incoraggia «le poetiche che non disturbano neanche le ombre. Di queste poetiche le preferite sono sempre quelle che si legano ai richiami delle Arcadie, per disprezzare il nostro tempo. In questo senso va inteso il significato del verso di Eschilo “Dico che i morti uccidono i vivi” messo come epigrafe nel mio ultimo libro La terra impareggiabile».

Se il poeta si rifiuta di seguire il cammino indicatogli dal potere, viene combattuto, perseguitato, bandito e costretto alla solitudine. Davanti a questa sottile guerra, tuttavia, egli non s’arrende e, ignorando gli ostacoli non solo del politico, ma anche dalle «milizie dei letterati» che gli si sono asservite, lascia che la sua voce giunga all’anima del popolo, di cui egli è l’unico autentico interprete, affinché non accetti passivamente ciò che gli viene imposto dalla logica del potere.

Senza dubbio, pertanto, come ci ha confessato lo stesso Quasimodo nel suo discorso, è in tale ottica che si inseriscono i suoi versi presi in esame.  Parafrasando quanto osservato da Garantoudis [Γαραντούδης E. (1999): 31-32], le poesie Dalla Grecia sarebbero sicuramente apprezzate dal lettore amante della Grecia, della “grecità” e dei miti di cui è portatrice.  Tuttavia, ciò che suscita il suo interesse sono i riferimenti all’Ellade del ’56, ovvero lo sguardo del poeta al presente del Paese, alle sue esperienze che vive e, in particolar modo, alle sue riflessioni.

Sotto forma d’ironia, se non anche di sarcasmo, appare predominante nei versi quasimodiani, oggetto del nostro studio, una forma di tristezza e delusione che rasenta il pessimismo, una forma di nostalgia amara, espressa quasi sottovoce, causata dai cambiamenti della società che rinnega o guarda con indifferenza ai valori del passato, condannata ai diktat del capitalismo e dell’omologazione, alla manipolazione, all’alienazione e alla solitudine. Così, «Dietro all’ostilità e alle acrobazie sintattiche […] si ritrova un sentimento analogo a quello di un grande poeta greco, Giorgio Seferis: i ruderi antichi coesistono, ma si corrodono anche, con la tristezza in un luogo dove cerchiamo se “c’è nulla che assomigli alla Grecia di prima della Grecia”» [Ghikopoulos F., (2003):80]

A dirla tutta, infine, Quasimodo non fu l’unico a comprendere che bisogna prestare attenzione al «verme della storia». Un altro grande poeta, Eugenio Montale, infatti, in un famoso testo dedicato all’Ellade, dal titolo Sulla via sacra, contenuto nella raccolta di racconti di viaggio Fuori di casa [Montale E., (1969): cap. IX] sostenne: «è un errore venire qui [in Grecia] con l’animo di chi entra in un museo. Bisognerebbe diradare la cortina affascinante, e talvolta paurosa, delle immagini che si vedono, delle forme che si toccano, per entrare nel vivo di questa Grecia d’oggi, per conoscere gli uomini, per apprendere com’essi vivano, che cosa possano ancora darci e che cosa possiamo apprendere da loro. Per conoscere, insomma, se c’è una Grecia viva accanto alla terra dei morti che si può studiare e amare stando chiusi in una biblioteca».

In chiusura, vale senz’altro la pena ritornare al discorso che l’«operaio di sogni» tenne alla consegna del Nobel e riflettere sulle parole che pronunciò congedandosi dal pubblico: «Non è retorica questa: in ogni nazione l’assedio silenzioso al poeta è coerente nella cronaca umana. Ma i letterati appartenenti al politico non rappresentano tutta la nazione, servono soltanto, dico “servono” a ritardare di qualche minuto la voce del poeta dentro il mondo. Col tempo, secondo Leonardo, “ogni torto si dirizza”».

mariellacerni@gmail.com

Bibliografia

Salvatore Quasimodo, Tutte le poesie, a cura di Armando Torno, Mondadori, Milano 2004

Salvatore Quasimodo, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2020

Salvatore Quasimodo, Il poeta e il politico e altri saggi, Schwarz, Milano, 1960

Salvatore Quasimodo, Lettere d’amore a Maria Cumani (1936-1959), Mondadori, Milano, 1973

Salvatore Quasimodo, Lettura Nobel, Dicembre 11, 1959

Attraversare la poesia di Salvatore Quasimodo: percorsi di lettura a cura di Carlangelo Mauro, in Salvatore Quasimodo, Tutte le poesie:«Apparati», Mondadori, Milano, 2020

GarantudisEuripide (Γαραντούδης Ευριπίδης), Salvatore Quasimodo Ed è subito sera (ΣαλβατόρεΚουαζίμοντο. Κι αμέσως βραδιάζει). Traduzione. Introduzione a cura di Euripide Garantudis, Patakis, Atene, 1999

Gigante Marcello, L’ultimo Quasimodo e la poesia greca, Guida Editori, Napoli, 1970

Ghikopoulos Febo, Quasimodo colpito dal dardo di Apollo in Rivista di letteratura italiana 2003 –XXI, 1-2 Nell’antico linguaggio altri segni Salvatore Quasimodo poeta e critico a cura di Giorgio Baroni, Istituto Editoriale E. Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma, pp. 79-83

Montale Eugenio, Fuori di casa, Mondadori, Milano, 1969

Tsolkas Ioannis, Ecchioltramare: I due viaggi in Grecia del “Siculo-Greco” Salvatore Quasimodo. Σύγκριση, 25, Atene, 2016 pp. 83-98, https://doi.org/10.12681/comparison.10000

G. Zagarrio –Quasimodo, La Nuova Italia, Firenze, 1969

L'autore

Maria Angela Cernigliaro
Maria Angela Cernigliaro, nata a Napoli, si è laureata in Lettere classiche e in Storia e Filosofia presso l'Università Federico II. In possesso di Master in Didattica della Lingua italiana a stranieri (LS e L2) e del Dottorato in Letteratura italiana, attualmente insegna ad Atene presso l'Istituto Italiano di Cultura. E' autrice di vari manuali sull'insegnamento/apprendimento della lingua italiana e neogreca, di articoli letterari e di didattica, di saggi e romanzi.