L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni
Il 9 gennaio di 700 anni fa Marco Polo dettava le sue volontà testamentarie al prete-notaio Giovanni Giustinian. Marco lasciava tutto alla moglie Donata Badoer, sposata intorno al 1300, e alle tre figlie Fantina, Bellela e Moreta (aveva anche un’altra figlia, Agnesina, probabilmente nata al di fuori del matrimonio). Nel testamento, Marco si preoccupava di liberare Pietro, uno schiavo di origine tartara. In un testo tutto sommato smilzo, che dà quasi l’impressione di essere steso sotto l’urgenza delle cattive condizioni di salute del dettatore (che infatti morì in quei giorni), questo dettaglio è uno sprazzo di memoria. Pietro emerge dal passato di Marco, testatore ricco e stabile in laguna, ma poco più di cinquant’anni prima eroe quasi epico di un viaggio incredibile: nel 1271, appena diciassettenne, si era imbarcato da Venezia con il padre Niccolò e lo zio Matteo; passati dalla Terra Santa, proseguirono dall’Anatolia orientale all’Armenia verso l’altopiano iranico per raggiungere la lontanissima Cina. Qui Marco entrò in una corte molto particolare, dominata dalla figura affascinante del khan Kublai. Nipote di Gengiz Khan, egli dominava su un impero che andava dalla Siberia all’intera Cina. I tre Polo rimasero nel paese molti anni; Marco si impratichì velocemente delle lingue parlate nel territorio e svolse importanti missioni in luoghi lontani, fino all’India. Solo nel 1295, dopo 25 anni, la compagnia riguadagnò Venezia.
Non fu un viaggio come gli altri, seppure non fu il primo. Missionari – soprattutto francescani e domenicani – si erano spinti fino ai territori mongoli, talvolta in compagnia di mercanti. Mondi diversi che si avvicinavano perché la Terra Santa cadeva sempre di più sotto il controllo musulmano mamelucco: le vie delle merci, e del Signore, avevano bisogno di sbocchi nuovi, e il dominio mongolo si caratterizzava per un dinamismo commerciale estremo, unito a una varietà di culti che conviveva in maniera inusuale rispetto all’Europa lacerata dai conflitti. Una “frontiera” attraente, che cominciava a essere anche raccontata. Ma mai con la ricchezza di dettagli con cui Marco la raccontò al suo compagno di cella, il pisano Rustichello, nelle carceri di Genova alla fine del Duecento. Il viaggiatore-ambasciatore apriva la fontana dei ricordi a un ghost-writer che fino ad allora aveva scritto romanzi cavallereschi di successo. Ne uscì un libro straordinario, eppure inclassificabile. Il suo titolo, Devisement dou monde, significa “descrizione del mondo”, e già ne esplicita lo scopo: riunire e raccontare tutte le conoscenze accumulate nell’esperienza del viaggio. A chi? A un pubblico nuovo, larghissimo: non più i preti-missionari, a cui si indirizzavano tutti gli scritti di viaggio precedenti in latino, ma ai laici tutti, dai potenti ai semplici.
Il libro è conosciuto anche con il titolo di Milione, che deriva dal nome di famiglia dei Polo, a significare il rapporto strettissimo tra opera e la sorgente delle memorie, Marco il Viaggiatore. Ma è un libro sfuggente, che il lettore non cattura mai: trattato geografico, enciclopedia, storia politica, miniera di dati per mercanti. Alle informazioni precise sui luoghi visitati (posizione, moneta, situazione politica) si affiancano ampie sezioni sull’impero mongolo e le sue guerre e una miniera di racconti dai filoni più ampi e vari: vite di santi in versioni sconosciute agli occidentali, racconti meravigliosi su animali e figure mitizzate e finalmente incontrate (l’unicorno, per esempio, ma anche il mitico sovrano-sacerdote conosciuto con il nome di Prete Gianni).
Il lettore europeo si trovava di fronte un caleidoscopio di usanze totalmente eccentriche rispetto al mondo occidentale, per esempio in campo sessuale, punto sensibile della morale cristiana: pensiamo alla “ospitalità” sessuale a Kamul, dove gli abitanti offrono le proprie donne ai viaggiatori; all’armoniosa poligamia dei mongoli oppure al matrimonio ‘a tempo’ di Pem, o alla valorizzazione dell’esperienza in campo sessuale delle donne a Kollam.
Con il Devisement il mondo conosciuto si allarga: le conoscenze dell’Occidente raddoppiano, e Marco ci accompagna come un antropologo, sfrutta i limiti della nostra conoscenza per raccontare e descrivere il nuovo e il diverso che vede: nella regione di Ghinghintalas, scopre un minerale resistente al fuoco con una fibra simile alla lana. Il viaggiatore crede di essere di fronte alla salamandra, ma afferma con orgoglio che non è un animale, come credeva la cultura comune, ma un minerale appunto: è l’amianto. La scoperta del petrolio, o della vita del Buddha, hanno nel testo la stessa potenza: i bias cognitivi servono a sfidare le conoscenze. In una delle interviste “impossibili” di Giorgio Manganelli andate in onda sulla Rai, il Viaggiatore viene rappresentato continuamente in bilico tra verità e finzione: e non perché ciò che dice Marco è falso, come pure qualcuno ha sostenuto con volontà di scandalo, quanto perché questa sfida alla conoscenza è vinta trasformando l’Oriente con la o maiuscola in uno spazio mentale, che chiede al lettore, al sedentario, di credere al racconto e alla memoria.
Il 2024 sarà un anno dedicato a Marco Polo e al suo libro; un comitato nazionale per le celebrazioni è stato varato dal ministero, e il programma delle iniziative scientifiche, in gran parte realizzate a Venezia, si preannuncia molto ricco: sono previste mostre, laboratori teatrali, letture pubbliche, e un convegno internazionale (11-14 settembre 2024) sull’uomo e l’opera. La sfida maggiore, per gli studiosi, consiste infatti nel focalizzare e spiegare il miracolo di un libro impossibile, che nonostante la sua “costruzione esperantica” (come ebbe a dire Contini), divenne un best-seller internazionale: immediatamente tradotto, riscritto, in gran parte trasmesso nella lingua internazionale dell’epoca (il latino), attraversò il Medioevo uscente con un successo straordinario (quasi 150 manoscritti). Fu questo successo a permettere al Devisement di avere un impatto impressionante sulla cultura successiva: se ne trovano tracce nelle carte geografiche, ed è sempre più evidente il suo ruolo di denotatore per i viaggiatori moderni.
Per un paradosso non tanto sorprendente, il successo ha prodotto una miriade di falsi miti. Mettere per iscritto uno spazio nuovo ha i suoi rischi. Marco lo ha corso, e ne è stato consapevole. Ha probabilmente cercato degli alleati più autorevoli di lui, laico mercante, per diffondere i suoi racconti; li ha trovati presso degli aristocratici francesi, che lo hanno diffuso nelle corti arricchendolo di illustrazioni; li ha cercati presso i frati domenicani della sua città, che come degli editor moderni, hanno riscritto, arricchito, raddrizzato l’opera, garantendogli una circolazione molto più ampia. Dal viaggio al racconto al libro alla sua circolazione: l’Oriente di Marco Polo si testualizza in maniera complessa e tormentata, mai ferma. Per questo motivo, il lavoro sul testo che i filologi e gli storici hanno portato avanti negli ultimi vent’anni permette di comprendere più a fondo l’infinita pluralità del mondo, lo spaesamento del viaggio e il patto di fiducia che ogni racconto richiede.
antonio.montefusco@univ-lorraine.fr
L'autore
- Antonio Montefusco ha studiato Lettere e Storia all'Università di Roma La Sapienza, e ha proseguito gli studi a Parigi. Ha insegnato a Düsseldorf, a Vienna, a Parigi e a Venezia. Attualmente è Professore Ordinario di Letteratura medievale all'Università della Lorena, in Francia. Ha scritto su Iacopone da Todi e su Dante, sulla storia degli intellettuali nel Medioevo e sugli spazi del dissenso religioso. Ha diretto un progetto di ricerca europeo sulla storia sociale della traduzione. Suoi libri recenti sono "Arctissima paupertas. Le Meditationes vitae Christi e la letteratura francescana" (Cisam, Spoleto); "Le lettere di Dante" (con Giuliano Milani, De Gruyter, Berlino); "Contestazione e pietà. Dissenso, memoria e devozione negli Spirituali francescani (xiii-xiv secolo)" (EBF, Milano).
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