In copertina Palazzeschi con Marinetti, Papini,
Carrà e Boccioni (Ph. Nunes Vais, 1913)
Una scintilla lenitiva, forse anche taumaturgica, scoccò nel gennaio 1914 quando Palazzeschi lanciò sulle pagine di «Lacerba» il manifesto futurista Il controdolore, la cui vena ludica e verbo-inventiva ne fanno una prosa di straordinaria bellezza, al cui centro spicca il messaggio che vale ridere di tutto, di uomini veri e uomini finti, di sciagure e malattie, di funerali e passioni. Ancorché definito “futurista” dallo stesso autore, è documento da cui sprigiona un presagio predadaista. Come già fu, in fondo, il gesto iniziale di darsi uno pseudonimo: Aldo Giurlani era nato a Firenze nel 1885, e per darsi un tono in una biografia che ancora non riluceva, saccheggiò il cognome della nonna materna, signora Palazzeschi. Studiò ragioneria, poi recitazione e nel 1909 aderì di slancio al futurismo e, nel gorgo dell’entusiasmo, confessò a Marinetti: «Voglio, fra tutta la tua combriccola futurista diventare il preferito del capo banda e sarò tanto brigante da meritarmi presto affetto particolare».
Ci riuscì e assurse allo stato maggiore, come testimonia una famosa fotografia scattata nel 1913 da Nunes Vais, in cui Aldo è in bella posa con Marinetti, Papini, Carrà e Boccioni. Ma se pure lega il proprio nome ad alcune gesta futuriste di quegli anni, peculiare fu per lui agire da levatrice all’ilarità, inevitabile in un movimento che intendeva ringiovanire la faccia del mondo. Così, quando nel 1910 pubblicò i versi grotteschi de L’incendiario, consegnò al futurismo la sua prima gemma: E lasciatemi divertire è un canto di gioia, frizzante di onomatopea e melodia, un sonoro proclama alla libertà della licenza e della grulleria, paradossale icona poetica di uno spirito che, in quanto irriverente, diventa iconoclasta: «Il poeta si diverte, / pazzamente, / smisuratamente! / Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire / poveretto, / queste piccole corbellerie / sono il suo diletto».
Di antenne sensibili, il capo banda sentì che quei versi contenevano una sfaccettatura dell’animo futurista e quando nel 1913 lanciò il volantino Il poeta futurista Aldo Palazzeschi sostenne quella poetica e definì il movimento come «incoraggiamento assiduo, organizzato, sistematico dell’originalità creatrice, anche se apparentemente pazza»; Palazzeschi ha insegnato all’Italia «a ridere allegramente dei professori, infischiandosi, meglio e più d’ogni altro, di tutte le regole». È inevitabile allora che quei suoi versi curiosi diventino «il più bel trattato d’arte poetica, e insieme lo schiaffo più poderoso che abbiano mai ricevuto in faccia i passatisti d’Italia».
Il dado è tratto e nel 1911 Palazzeschi pubblica Il codice di Perelà, romanzo impregnato di tetro umorismo, favola di un piccolo e incompreso uomo di fumo. «Facciamo coraggiosamente il “brutto” in letteratura, e uccidiamo dovunque la solennità» è imperativo che s’innalza nel maggio 1912 dal Manifesto tecnico della letteratura futurista, nel quale Marinetti incita anche a «sputare ogni giorno sull’Altare dell’arte». Gli fa subito il verso Papini con Accidenti alla serietà! apparso su «Lacerba» a ferragosto del ’13, quando esorta a scavalcare la tradizione artistica «solenne e sublime».
È allora da un terreno già dissodato che nella mente di Palazzeschi germina, nell’autunno del 1913, uno dei contributi più alti dell’avanguardia italiana, il manifesto Il controdolore. Terminato il 29 dicembre, la pubblicazione fu immediata: apparve a Firenze il 15 gennaio 1914 sul primo numero della nuova annata di «Lacerba». La scena grottesca del manifesto, calcata da scoppiettanti comparse, rese subito chiaro ai lettori che in quel testo si coagulava tutto il motteggio che l’avanguardia aveva disseminato negli anni precedenti.
E fu l’ultimo grido futurista di Palazzeschi. Di slancio era entrato, di slancio se ne andò in quello stesso 1914: tornato da una vacanza a Parigi dove aveva incontrato Matisse, Picasso e Apollinaire scrisse una lettera aperta che, apparsa su «La Voce» del 28 aprile, esordiva: «Da oggi io non ho più nulla a che fare con il movimento futurista». Infuriando la polemica tra interventisti e neutralisti, scelse di seguire una vocazione che già durante l’estate si concretizzò nei Due imperi…. mancati, raro esempio di intransigente pacifismo tra le opere letterarie dell’epoca, anche se pubblicata da Vallecchi solo nel 1920, prova inequivocabile di come il poeta negasse ogni legittimità a una guerra giudicata come sacrificio dell’Europa.
Percorse la nuova strada da isolato, affermandosi come narratore nel 1934 con le Sorelle Materassi, che Gide definì il più bel romanzo del Novecento italiano. In avanzata età riconobbe che le sue opere giovanili, pur accolte nel terreno editoriale del futurismo, non ne condividevano i caratteri. Aggiunse però un’onesta confessione: «I cinque anni nei quali feci parte del movimento futurista furono quelli della mia vita nei quali conobbi la giovinezza».
Trascorse gli ultimi tempi a Roma in via dei Redentoristi, al sesto piano di un palazzo da cui si godevano perfetti tramonti. Un ascensore tremolante saliva fino a quell’altezza; Palazzeschi non apriva a nessuno, ma chi bussava sentiva dietro la porta il fruscio di colui che – in ascolto – si fingeva assente. Si racconta che teneva gli orologi un’ora avanti e litigava furiosamente con la governante Margherita che si ostinava a non conformare le faccende di casa su quel tempo fittizio. Margherita non capiva che era un affabile trucco per contrastare il dolore: per chi si accinge al grande transito, tenere l’orologio un’ora avanti significa andarsene dopo l’effettivo momento della morte. L’ombra dell’ironia si prolungò insomma sul tempo estremo dell’incendiario; e anche il caso fece il suo gioco: se Aldo abitava al numero 7, nel medesimo edificio, con ingresso al numero 15, era nato quasi due secoli prima Giuseppe Gioachino Belli…
***
La vena ludica e l’invenzione verbale fanno del Controdolore una delle più efficaci prose teoriche futuriste, un testo la cui straordinaria bellezza è moltiplicata dalla grande quiete che sprigiona dalle sue pagine: l’aggressività del movimento ne esce depotenziata a favore di un fermento cripto-dadaista il cui spazio è una regione sperimentale dagli incerti confini, capace di accogliere le ricerche parolibere di Cangiullo, la poetica dell’arte-gioco di Depero, gli assemblaggi ludici di Giacomo Balla, l’adampetonismo di Soffici, l’astrazione orientale-esoterica di De Pisis, la teoria dell’analogia poetica di Francesco Meriano.
Il pensiero vi scivola sopra come goccia d’acqua su carta oleata, ma non per questo è assente: sta come piuma sul piatto della bilancia, ha soltanto perso i chili che l’Occidente assegna alla riflessione. E tuttavia l’idea di fondo è antropocentrica: «Un piccolo e misero topo può farci udire il suo pianto, i suoi lamenti; nessuno animale ci ha ancora fatto udire una calda sonora risata». Affermazione che conferma l’unicità umana: la sofferenza è comune all’intero mondo animale, l’uomo se ne differenzia per la forza della comicità. E la maggiore profondità del riso rispetto al pianto è provata dal fatto «che l’uomo appena nato, quando ancora è incapace di tutto, è però abilissimo d’interminabili piagnistei». Prima di concedersi il lusso d’una bella risata dovrà fare lunga gavetta, perché chi approda all’ironia ha raggiunto una maturità.
Ma se il riso distingue l’uomo dalle altre creature, il tempo gli ha tolto anche questa prerogativa: pochi ridono e chi conserva la forza dell’ironia ha un’opportunità in più di sopravvivenza. C’è allora un gesto dandystico nel manifesto ed è l’autoimposizione del ridere, perché ridendo l’uomo «si distingue dalle folle fanatiche che sanno solo urlare e piangere». Affermazione acuminata, se solo pensiamo che l’inclinazione urlante e piagnona non si manifesta solo nelle fanatiche folle religiose, ma sempre più nelle masse da stadio e nelle file della soggezione burocratica: un intero mondo che ha perso il gusto dell’ironia, in ciò battuto e vinto.
L’ironia si erge insomma come solo modo per assumere la realtà come qualcosa di discutibile, mezzo primario per contrastare intolleranze e fanatismi, ottica da cui osservare le convinzioni come oggetti contingenti, negando l’esistenza di norme universali e riconoscendo il peso del transitorio. In tal senso, Palazzeschi lanciò un manifesto di terapeutico disincanto e come tale sembra appartenere a quella benefica edera che dai Caratteri di Teofrasto si abbarbica su Luciano, sale verso le Facezie di Poggio Bracciolini, getta radicole nelle disilluse Operette morali di Leopardi e giunge alle tegole di Savinio e Picabia.
La più efficace molecola terapeutica è l’immagine di Dio che dal testo affiora, un ometto di media statura e mezza età che ride a crepapelle. Una faccetta rotonda che s’illumina, «come incendiata da una risata infinita ed eterna, e la sua pancina tremola, tremola in quella gioia». Nulla della fosca divinità monoteista che col dito spianato ordina e punisce; solo un demiurgo che crea perché ciò lo diverte: «Egli non à creato, no, rassicuratevi, per un tragico, o malinconico, o nostalgico fine; à creato perché ciò lo divertiva». Nulla di sublime in Lui, cade ogni retorica dei buoni sentimenti per fare di Dio qualcosa di radicalmente umanizzato, e solo un Dio del genere può persuadere della necessità di provare il dolore, di non escluderlo dall’orizzonte delle umane esperienze, ma sottometterlo al senso della gioia.
E alla fine, da tutto ciò Palazzeschi emerge come presenza capace di compensare il gravame dell’epoca dalla parte della grazia, della levità e dell’indulgenza. La sua fantasia è diventata sapiente gesto da chiroterapeuta: dalle sue pagine si esce con la capacità di contrastare il dolore col sorriso, con la quiete del piacere.
Nota bibliografica
Il controdolore apparve su «Lacerba» il 15 gennaio 1914 (a. II, n. 2, pp. 17-21) e in contemporanea lanciato come volantino delle Edizioni Futuriste di “Poesia” e poi raccolto ne I manifesti del Futurismo (Edizioni di «Lacerba», 1914). Con testo lievemente difforme e titolo L’antidolore fu da Palazzeschi accolto nel 1956 tra gli Scherzi di gioventù (Ricciardi, pp. 79-106) e nel 1958 nel volume delle Opere giovanili («I classici contemporanei italiani. Tutte le opere di Aldo Palazzeschi, II», Mondadori, pp. 927-950). Ripreso anche dall’autore di queste righe come “Millelire” di Stampa Alternativa nel 2000, oggi il manifesto è raccolto in Tutti i romanzi (Mondadori Meridiani, 2004, vol. I, pp. 1221-1232). Tra le cose dedicate a Palazzeschi, spicca per bellezza il catalogo della mostra del 2001 Scherzi di gioventù e d’altre età (Firenze, Museo Alberto Della Ragione).
L'autore
- Antonio Castronuovo è saggista, traduttore e bibliofilo. È nelle redazioni delle principali riviste italiane di bibliofilia e scrive per il domenicale della «Gazzetta di Parma». Ha fondato l’opificio di plaquette d’autore “Babbomorto Editore”, dirige le “Settime diminuite” per l’editore Pendragon e le “Edizioni Libreria Galliera”. I suoi ultimi lavori: Dizionario del bibliomane (Sellerio), I luoghi di Pinocchio (in Pinocchio: un bugiardo di successo, La Nave di Teseo), Il male dei fiori: Baudelaire a processo (Rubbettino).
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