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Lingua italiana e cinema. Dialogo con Fabio Rossi

Fabio Rossi, professore di Linguistica italiana presso il Dipartimento di Civiltà antiche e moderne dell’Università degli Studi di Messina, è un esperto di lingua dei media, didattica della grammatica e della scrittura e insegnamento dell’italiano a stranieri. Si è distinto nello studio della storia della lingua italiana (“Manuale di linguistica italiana”, 2023) e più specificatamente nel linguaggio del cinema italiano (“L’italiano al cinema, l’italiano nel cinema”, 2017). Membro di associazioni prestigiose come ASLI e SILFI, ha diretto programmi internazionali come il curriculum Transatlantic Degree Cinema and Language, ed è stato coinvolto in progetti per la promozione dell’italiano tra cittadini extracomunitari. Autore di numerosi articoli e libri, ha recentemente pubblicato la nuova edizione del volume “Lingua italiana e cinema” per la collana ‘Le Bussole’ di Carocci.

Innanzitutto, carissimo Professor Rossi, la ringrazio per aver accettato di parlare della nuova edizione del suo libro “Lingua italiana e cinema” per Insula europea. Per iniziare, ci può spiegare il motivo di una nuova edizione dal 2007 ad oggi?

In primo luogo, sia io sia l’editore abbiamo sentito l’esigenza di aggiornare i riferimenti bibliografici e l’esemplificazione filmografica. La lingua del cinema italiano dell’ultimo quindicennio ha presentato, infatti, numerose novità interessanti che meritavano di essere messe in evidenza, dal ritorno a una produzione dal forte impianto realistico, all’attenzione alle realtà marginali e migratorie, al progressivo abbattimento delle paratie tra film per la sala, film per le piattaforme, film per la TV e anche tra film e serialità, tanto che gli stessi concetti di film e cinema acquistano ormai una fisionomia meno netta, più liquida, ma proprio per questo più interessante, dai punti di vista sociosemiotico, produttivo e distributivo, oltreché linguistico. Proprio per questi ultimi motivi, oltre alle integrazioni bibliografiche e filmografiche, abbiamo pensato di aggiungere un intero nuovo capitolo, il primo, intitolato Lingue e linguaggi del film, dedicato a questi temi, anche con l’ausilio di schemi. Inoltre, in generale, in tutto il libro si è cercato di arricchire il discorso con considerazioni sulla multimodalità, l’intermedialità, insomma la complessità dell’intero sistema mediatico oggi, pur senza perdere, almeno negli intenti, il focus dedicato alla lingua filmica e senza rinunciare alla destinazione eminentemente didattica del libro.

All’inizio del libro, Lei menziona la “riscrittura” di titoli di film stranieri nel cinema muto italiano. Ad esempio, Saturday Night (1922) diventa “Coppia ideale”, e I’ll Show You the Town (1925) si trasforma in “Siete solo stasera?” e There You Are (1926) viene tradotto in “Il segretario di papà”. Qual è l’impatto di queste riscritture sulla percezione e sull’accoglienza dei film stranieri in Italia?

Oggi, rispetto a decenni fa, per fortuna, si tende a stravolgere sempre meno i titoli originali dei film. È importante, ovviamente, tradurre il titolo in italiano: non si può, neppure oggi, dare per scontato che tutti conoscano bene l’inglese, figuriamoci le altre lingue, e dunque il titolo, che è il primo biglietto da visita di un film, non può rimanere non tradotto. Al massimo, come pure spesso avviene, si può lasciare il titolo originale tra parentesi, dopo il titolo tradotto. E dunque è inevitabile, talora anche auspicabile, una certa libertà traduttiva, specialmente nelle espressioni idiomatiche. Quello che però andrebbe evitato è lo stravolgimento del titolo tanto da indurre il pubblico è farsi aspettative sbagliate sul film, come è avvenuto, tra i tanti casi famosi, in Alla bella Serafina piaceva far l’amore sera e mattina, adattamento decisamente troppo libero (e tendenzioso) del film La fiancée du pirate, di Nelly Kaplan, del 1970, oppure in Se mi lasci ti cancello, versione italiana di Eternal Sunshine of the Spotless Mind, di Michel Gondry, del 2004.

Nel suo libro, Lei cita un dialogo da “La canzone dell’amore” (1930), il primo film sonoro italiano: “Un altro amore che occupa tutta la mia vita. Tu non puoi comprendere. E questo amore sarebbe stato un grande ostacolo tra noi. Tu sei un artista” (battuta di Lucia). Come riflette questo passaggio il cambiamento nel linguaggio cinematografico con l’avvento del sonoro?

La transizione dal muto al sono è stata faticosa, sia per ragioni tecniche sia per forti pregiudizi estetici: per molti intellettuali (basti pensare a Pirandello), anche registi (Chaplin), il sonoro avrebbe immeschinito l’arte filmica, condannandola da arte visiva a mero scimmiottamento del teatro. I dialoghi dei primi film sonori dovevano tentare di conciliare certa verisimiglianza da un lato (sempre attesa dal pubblico cinematografico), con gli scrupoli puristici della cultura italiana; pertanto, oltre al dialetto (tranne casi eccezionali), era bandito, in questi primi film, anche il ricorso a tratti dell’italiano colloquiale, dell’uso medio, vicino al parlato spontaneo, con tutte le sue spezzature, inversioni, messe in rilievo ecc. Ne consegue quel buffo compromesso tra lingua letteraria, lingua del teatro borghese e timide aperture (men che manzoniane, direi) al parlato di tanti film come La canzone dell’amore.

Nel contesto dei film di Alessandro Blasetti e Mario Camerini, Lei osserva l’apertura del cinema italiano ai modi di espressione più colloquiali. Come si manifesta questo cambiamento nel linguaggio filmico e quali sono gli effetti sulla comunicazione e sull’identità culturale italiana?

Ormai è assodata l’importanza dei film cosiddetti dei Telefoni bianchi e di registi geniali come Camerini e Blasetti, che in certo qual modo hanno aperto la strada al Neorealismo. E l’hanno fatto non soltanto per l’attenzione ad ambientazioni non soltanto borghesi (o altoborghesi) ma anche popolari, ma soprattutto dal punto di vista linguistico, esibendo un parlato finalmente più vicino a quello spontaneo, con le incertezze, le interruzioni, le ridondanze, i regionalismi ecc. Del resto, la transizione dai Telefoni bianchi al Neorealismo è sancita da un nome su tutti (tra i numerosissimi attori e attrici): Vittorio De Sica, che da protagonista dei film cameriniani sarebbe diventato il regista neorealistico per antonomasia. Per non parlare, poi, della felicissima penna di Cesare Zavattini, anche lui tra Camerini e il Neorealismo.

Nel suo esame delle battute colloquiali e gergali nei film italiani, Lei menziona la battuta dal film “Gli uomini che mascalzoni…”: “Che domani d’Egitto?” Come queste espressioni colloquiali hanno influenzato la lingua italiana parlata e la sua evoluzione?

Come al solito il cinema è legato alla lingua comune a doppio nodo: da un lato ne intercetta le novità, riproducendole, stilizzandole e propagandole; dall’altro ne influenza gli usi, o meglio li influenzava, in decenni in cui le sale erano gremite di pubblico. Quindi questa e moltissime altre espressioni di autori e soprattutto attori di altissimo gradimento presso il pubblico più diversificato (penso soprattutto a casi come Totò, poi ad Alberto Sordi) si sono presto imposte in italiano diventando proverbiali.

Lei evidenzia l’uso di espressioni dialettali come “Te chi se ve! Cosa te fe?”. In che modo la presenza del dialetto nei film ha contribuito alla rappresentazione e alla preservazione delle varietà linguistiche regionali italiane?

Com’è noto, il dialetto ha da sempre caratterizzato una fetta cospicua della nostra produzione filmica, fin dall’epoca del muto, con tutte le produzioni per pubblici particolari, come per esempio le sceneggiate napoletane filmate da Elvira Notari e figli, graditissime finanche agli emigrati italiani in America. Il sonoro dapprima tenterà di arginare l’impiego del dialetto, dato che l’interesse di ogni produzione filmica è quello di rivolgersi al pubblico più ampio e diversificato possibile (donde certa tendenza alla normalizzazione e all’attenuazione delle varietà negli usi filmici italiani). Non va poi dimenticata la lotta del fascismo contro le produzioni dialettali. Successivamente, col Neorealismo ma già con gli anni Trenta e i Telefoni bianchi, come già detto, i dialetti (ma sarebbe meglio, in molti casi, parlare di italiani regionali, piuttosto che di veri e propri dialetti) costituiranno il fulcro vitale del nostro cinema. Ancora una volta va rilevata la doppia natura del cinema: da un lato esso ha contribuito all’estinzione dei dialetti, per via della forte carica normalizzatrice, livellatrice, standardizzante dell’italiano del cinema medio, che magari si limita a “mettere in cornice” certi usi dialettali a mera finalità ludica: la battuta in dialetto fa sempre ridere. Dall’altro, però, in alcune produzioni, soprattutto le più recenti, il cinema ha senza dubbio contribuito a diffondere l’idea di un’Italia variegata dal punto di vista linguistico. Va però ribadito con vigore il fatto che, prima della rivitalizzazione dei dialetti nella produzione cinetelevisiva italiana dell’ultimo ventennio (da Gomorra a Suburra ecc.), il cinema italiano ha riprodotto sugli schermi non tanto i dialetti (i pochissimi film del Neorealismo sono comunque una felice eccezione, e anche lì, La terra trema a parte, si tratta quasi sempre di dialetti o italiani regionali molto attenuati) quanto o gli italiani regionali, o addirittura varietà ibride, a metà tra l’italiano regionale e l’italiano “colorito” più o meno inverosimilmente. Basterebbe pensare, per dimostrare quest’ultimo aspetto, a casi come Poveri, ma belli di Dino Risi (e film simili), con quella lingua che è tutta inventata nelle sale di doppiaggio, con battute pseudoromanesche pronunciate con accento iperstandard. Comunque, non bisogna mai dimenticare che il cinema è finzione, anche dal punto di vista linguistico, e dunque non si può pretendere un’assoluta mimesi del parlato spontaneo, men che meno del dialetto. Tranne che, come ripeto, nei più recenti casi di ritorno al “cinema della realtà”. Su questa nuova ventata realistica del cinema italiano ha influito anche moltissimo il ritorno alla presa diretta negli ultimi decenni, cioè la rinuncia alla postsincronizzazione dei film italiani. In conclusione, per tornare alla sua domanda, sicuramente il cinema, nella sua storia, ha contributo alla rappresentazione delle varietà linguistiche regionali italiane, ma non certo alla loro preservazione.

In riferimento all’analisi del linguaggio utilizzato nel cinema del periodo fascista, come nel caso di ‘Scipione l’Africano’ (1937), noto per le sue ostentate battute di saluto romano, e ‘Condottieri’ (1937), è evidente una forte presenza di retorica, lessico ricercato, sintassi complessa e di elementi come lunghe serie allocutive, ripetizioni, andamento ternario a climax, e dittologie. Considerando questi aspetti, in che modo questi elementi linguistici contribuiscono a rafforzare il messaggio politico e ideologico del regime di Mussolini nel contesto cinematografico dell’epoca? E in che misura la scelta di tali elementi linguistici influenzava la percezione del pubblico nei confronti dei valori e degli ideali fascisti?

Il preciso intento del regime fascista era quello di divulgare, anche all’estero, un’immagine dell’Italia molto più uniforme, ricca, colta e progredita di quanto non fosse. Da questo punto di vista, l’eliminazione del dialetto (con qualche eccezione) e l’immissione nei film di uno stile e di una retorica d’altri tempi erano del tutto funzionali al progetto.

Quali saranno i suoi prossimi progetti? Continuerà a scrivere sul cinema italiano e la lingua?

Sicuramente continuerò a scrivere sul cinema italiano, che, insieme con l’opera lirica, rappresenta sia una mia passione, sia un mio interesse di studio. Sono convinto che dal confronto tra il linguaggio dei media, quello parlato e quello letterario possano derivare utili considerazioni per comprendere meglio la storia, la società nella quale viviamo e anche il funzionamento stesso della lingua. Del resto, il cinema italiano, o quantomeno la produzione audiovisiva italiana nel suo complesso, è sempre stata intenta a rispecchiare, ma direi più ancora a criticare (nel senso più profondo e alto del termine), le peculiarità della società italiana; proprio per questo lo studio del cinema nostrano è così prezioso per gli storici, i sociologici, i linguisti, oltreché i massmediologi e i filmologi. A proposito di nuovi progetti, uno si è appena concluso: si tratta del numero monografico della rivista cinematografica «Quaderni del CSCI», acronimo che sta per Centro di Studi sul Cinema Italiano, fondata e diretta da Daniela Aronica a Barcellona. Il titolo del numero monografico, curato da Antioco Floris, Marco Gargiulo e da me, è Pagine schermate: sui rapporti tra letteratura e cinema nella produzione italiana del nuovo millennio.

anna.raimo@live.it

 

L'autore

Anna Raimo
Anna Raimo è nata a Pisa il 25 dicembre 1995. Laureata magistrale con il massimo dei voti in Linguistica e didattica dell’italiano nel contesto internazionale presso l’Università degli Studi di Salerno e l’Universität des Saarlandes di Saarbrücken, ha in seguito conseguito un Master di II Livello in Didattica dell’Italiano L2 presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla linguistica e didattica della lingua italiana alla storia, letteratura e poesia contemporanea. Si è infatti occupata dell’italiano dei semicolti nella sua tesi di Laurea Magistrale e ha recentemente pubblicato un articolo su una particolare varietà della lingua italiana: "L’e-taliano: uno scritto digitato semifuturista?", in (a cura di S. Lubello), Homo scribens 2.0: scritture ibride della modernità, Franco Cesati Editore, Firenze 2019, pp. 159-164. Tra i suoi autori preferiti vi sono Mario Vargas Llosa, Jung Chang, Philip Roth, Azar Nafisi, Orhan Pamuk, Anna Achmatova, Rainer Maria Rilke, Federico García Lorca, Alda Merini, Bertolt Brecht e Wisława Szymborska. Le sue passioni sono la lettura, la scrittura di poesie e i viaggi, soprattutto in Germania, paese di cui adora la storia, la cultura, l’arte e i magnifici castelli.