Sfidare il labirinto sessant’anni dopo quel folgorante saggio di Calvino apparso sul «Menabò 5» richiede innanzitutto un attraversamento viscerale – più corporeo che mentale – dello stato delle arti e della società oggi. Frasi come “le macchine sono più avanti degli uomini; le cose comandano le coscienze; la società zoppica e inciampa da tutte le parti cercando di tener dietro al progresso tecnologico”, infatti, non solo potrebbero esser state pubblicate stamattina ma acquistano un sovrasenso dato dalla rivoluzione digitale in atto che gli conferisce il tenore di un presagio ominoso dai seminali Sixties che giunge dritto dritto all’hic et nunc. “Nessuno sfuggirà all’ingranaggio dell’industria in nessun’ora della sua vita pubblica o privata”: bene, ci siamo arrivati, l’era degli smartphones come prolungamento degli arti, degli algoritmi, delle intelligenze artificiali e degli esseri umani pedine dei big data ha inverato la profezia. Calvino stava parlando di noi.
Ora come allora, l’atteggiamento migliore per trovare una via d’uscita consiste nel richiedere alla letteratura – alle arti in generale, più propriamente – “un’immagine cosmica” che sia “al livello dei piani di conoscenza che lo sviluppo storico ha messo in gioco”. Sono tuttavia talmente tanti questi piani, ben racchiusi nella formula premio Oscar everything everywhere all at once, che l’unico modo per non rimanerne completamente fagocitati sembrerebbe quello di trascenderli per un certo lasso di tempo cercando poi di re-immettere in circolo le energie recuperate durante l’astrazione. Chissà, forse Calvino intendeva in nuce anche questo per procedimento “cosmico”.
Tra gli ultimi spazi rimasti a fornire questa sempre più rara possibilità di “mettere a fuoco visioni a occhi chiusi” e aperti (come sostiene nella lezione Visibilità), c’è senza dubbio quello del museo e della mostra, che pur essendosi per forza di cose in parte adattato alle tendenze audience oriented, resta genettianamente una soglia aperta all’inclusione di nuovi approcci e nuovi significati; o, più che nuovi, almeno autorevoli e universalmente ancora riconosciuti in virtù di un dialogo tra tradizione e sperimentalismo che non debba per forza essere “pop” a ogni costo. Se l’avanguardia storica, secondo Vittorini, aveva lasciato la pesante eredità della “non-speranza nel potere determinante della cultura”, cosa dovremmo fare noi oggi che ci aggiriamo tra le rovine – lo dico da trentenne – delle ultime decadi e delle ultime generazioni, quelle in cui muoveva i suoi passi Calvino, che hanno almeno potuto credere nell’ “utopia discontinua” (Milanini insegna) di una nuova cultura che riusciva a farsi determinante?
Per questo, con tali riflessioni e tali grilli per la testa, quando Electa e la Soprintendenza Speciale di Roma hanno proposto a me e Nunzio Giustozzi di curare una mostra su Calvino alle Terme di Caracalla abbiamo subito deciso di intitolarla Sfida al labirinto, perché era anche una “sfida” per noi stessi – neofita letterato musicista io, prossimo all’ammissione definitiva che d’arte in Italia non si può vivere; esperto archeologo gentiluomo Nunzio, ben più ferrato di me sulla costruzione di qualcosa che valga la pena venire a vedere – e poi perché volevamo provare a orchestrare al suo interno tre diversi percorsi in base ad altrettante discipline (letteratura, pittura, musica) finiti poi per informarne il sottotitolo: Calvino, le città, i ritratti di Tullio Pericoli.
Il primo conduce all’interno delle città “visibili” in cui Italo diventò Calvino, con tante foto inedite provenienti dal fondo della Biblioteca Nazionale Centrale e con gli scatti di alcuni dei maggiori fotografi del Novecento − tra cui Sebastião Salgado, Dominique Nabokov, Renate von Mangoldt, Sophie Bassouls, Mario Dondero, Federico Garolla −, accompagnati da numerose citazioni scelte a costruire un fototesto con un’identità cromatica “filologica”, visibile a partire da un’immagine coordinata pensata per raccontare l’essenza profonda del rapporto spaziale con le città in cui ha vissuto.
Roma, col sole che brilla sulle cupole bianche trascolorando nell’ocra dei muri capitolini, osservata strato per strato dall’altana della sua casa in Campo Marzio come raccontato in Palomar; Torino che conserva inusitata forza come una vampa sotto la cenere del suo grigio cielo e delle sue grigie fabbriche; New York e il colore rosso bruciato di fabbricati di mattoni, o quello rosso sbiadito delle villette di legno diventate slums; Parigi e il verde intenso, veronese, delle interminabili e spesso piovose passeggiate quotidiane al Jardin des Plantes o al mercato dei fiori di Rue de Buci; la residenza estiva di Roccamare, infine, nel luccichio celeste sedimentato sulla retina a seguito di quell’attività che era solito chiamare “lettura delle onde”.
In questo sorprendente racconto per immagini (che alle spalle ha anche il prezioso Album a cura di Luca Baranelli e del compianto Ernesto Ferrero, da poco ristampato) Calvino diventa – per citare un altro suo famoso saggio – il “viandante nella mappa”, poiché una mappa sempre presuppone una potenzialità romanzesca. L’odissea della vita e dell’opera di un autore che si diceva affetto da “dromomania” e che conferiva a ogni città in cui risiedeva il valore anzitutto di risposta a una domanda.
Il secondo raduna per la prima volta tutti i disegni e i dipinti che Tullio Pericoli ha dedicato al visionario amico, in nome del comune amore per Saul Steinberg, per le Locomotions aériennes di Grandville e soprattutto per Paul Klee (memorabile il dialogo Furti ad arte tra i due), nonché di un sodalizio che durava sin dagli anni Sessanta, ovvero da quando il giovane artista marchigiano aveva illustrato sul «Giorno» alcune novelle cosmicomiche – L’inseguimento e I cristalli – per poi approdare nel tempo ai celebri “volti” calviniani trattati come racconti.
L’odissea data dall’ossessione per il viaggio, per personale deformazione musicale, non sarebbe tuttavia stata veramente completa senza una colonna sonora originale; uno dei principali motivi, peraltro, per cui mi sono ritrovato a curare questa mostra a seguito di svariati anni in Electa e di un dottorato di ricerca che ho svolto tra le Università di Roma Tre e di Cambridge con un progetto sui versi per musica dei massimi scrittori italiani del secondo Novecento.
Nell’apodyterion è allora possibile ascoltare due brani scritti da Calvino alla fine degli anni Cinquanta per Cantacronache che contribuiscono a spianare la strada alla nascita del cantautorato, qualcosa di poco noto ma rivendicato da tutti i protagonisti del tempo, in testa De André, Guccini, Giovanna Marini, De Gregori, Tenco, fino ad arrivare ai CCCP e ai Modena City Ramblers. Canzone triste, levigata trasfigurazione in musica della sua novella L’avventura di due sposi, su musica di Sergio Liberovici; e soprattutto Turin la nuit o Rome by night, l’ultima canzone − mai incisa al tempo − scritta da Calvino su musica di Piero Santi, la cui partitura era andata perduta per decenni e che grazie al compositore Giannantonio Mutto e alla cantante Grazia De Marchi, assieme alle ricerche curatoriali, prende finalmente vita evocando atmosfere felliniane da berceuse sorniona à la Nino Rota. Un testo di una modernità straordinaria, ironico sull’Italia del boom e sulle novelle coppie borghesi, probabilmente censurato e per l’appunto non registrato al tempo per la presa di posizione – apparentemente leggera e invece più che mai trasgressiva – della protagonista nell’ultima strofa.
Il terzo esplora invece il legame meno noto ma non meno saldo tra Calvino e l’antichità romana, attraverso sei pannelli che prendono le mosse da una sua dichiarazione del 1985, appena prima della scomparsa, a mo’ di retrospettiva sul suo rapporto col classico: “Io ho due livres de chevet: il De rerum natura di Lucrezio e le Metamorfosi di Ovidio. Vorrei che tutto ciò che scrivo si rifacesse all’uno o all’altro, o a tutti e due”.
Qualcosa di significativo per un autore che pare sempre un imprendibile funambolo proiettato verso il “prossimo millennio”, così recita il sottotitolo delle Lezioni americane, e che invece si dimostra profondamente radicato, a suo modo, nel mondo classico e nella letteratura latina, che oltre a Ovidio e Lucrezio compare qui con la Naturalis historia di Plinio il Vecchio ricordato nel suo bimillenario, con i due importanti articoli La Colonna Traiana raccontata e Il maiale e l’archeologo e con la riscrittura cosmicomica del mito di Orfeo pubblicata nel 1980 sulla rivista “Gran Bazaar” (rielaborazione de Il cielo di pietra uscito nel ‘68) dal titolo L’altra Euridice, novella talmente ispirata che vale la pena riportarne un estratto per ricollegarci iperbolicamente al discorso fatto in apertura: “Era il regno del silenzio e della musica. […] Questo per dirvi com’è sbagliata la vostra via, la vostra vita, dove lavoro e godimento sono in contrasto, dove la musica e il rumore sono divisi: questo per dirvi come fin da allora le cose fossero chiare, e il canto di Orfeo non fosse altro che un segno di questo vostro mondo parziale e diviso”.
Fresca di stampa, ad accompagnare idealmente la visita, l’enciclopedia A-Z Calvino a cura di Marco Belpoliti che riunisce 146 voci affidate a 56 autori e che traccia una rotta per entrare nell’opera-mondo dello scrittore, nei suoi volumi ma anche nei temi, nelle idee, nelle vicende della sua vita di intellettuale, dal momento che, afferma nell’introduzione il curatore, “esiste un sistema-Calvino che è maggiore della somma dei suoi libri”.
Tra la mostra e il tomo, ma soprattutto tra parole immagini suoni dipinti, la speranza è che gli spettatori-lettori possano perdersi nel labirinto per poi ritrovarsi – grazie alle visioni calviniane – in un altrove nello spazio e nel tempo dato anche da una ragnatela di relazioni umane e professionali con i principali protagonisti della cultura del suo tempo tanto fitta quanto quella dei suoi meccanismi narrativi. Figure eccezionali quali quelle di Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini, Natalia Ginzburg, Eugenio Montale, Fausto Melotti, Elsa Morante, Jorge Luis Borges, Raymond Queneau, Gore Vidal e addirittura Martin Luther King sono infatti tra le co-protagoniste di questa avventura, a riprova del fatto che (quasi) mai è veritiero il tòpos del genio nel deserto ma che ogni grande mente in qualche modo demiurgica risponda a uno Zeitgeist che è anche sempre spirito di comunione e di comunità. Soltanto insieme, infatti, si può uscire dal labirinto.
L'autore
- Nato a Roma e laureatosi in Italianistica all’Università di Roma Tre con una tesi su P. P. Pasolini, Giulio Carlo Pantalei è oggi dottorando in Lettere nella stessa Università e Visiting PhD presso la University of Cambridge. Cantautore e musicista, oltre che ricercatore, è fondatore della band “Panta” e ha collaborato con artisti nazionali e internazionali tra cui Paolo e Carlo Verdone, Calexico + Iron & Wine, David Lynch Foundation, Capovilla, Canali e l’ong ONE di Bono Vox. La sua tesi, svolta tra Roma e Oxford, riguardo il rapporto tra la Letteratura Italiana e la musica angloamericana è stata pubblicata nel 2016 da Arcana col titolo di Poesia in forma di Rock, oggi alla seconda edizione.
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