Non il tu falso-vero dei poeti, ma un tu intriso di amor filiale e di commozione ci viene incontro dalla raccolta poetica di Gabriella Pace Ritorno (Edizioni Il Labirinto, Roma 2022). È naturalmente la voce di un poeta, ma anche di figlia, che oltre alla propria, di narratrice, si affida ad altre due voci: del protagonista delle vicende e della madre di questi, che, come ben osserva Marco Vitale, che firma la Prefazione, ha «forti accenti lirici da antica lauda (“Figlio mio bello / unico mio figlio / ché l’altro se n’è andato…». Il canto ha una colorazione epica, tanto che Vitale ha parlato della voce di un «aedo», perché la storia qui intessuta è una storia di guerra e di deportazione, di un ritorno e di una vita che ricomincia, ma non può dimenticare. Ma «aedo» è titolo della nota finale nella quale Gabriella Pace ripensa ai racconti del padre: «Quando raccontava di quei giorni passati, parlava attraverso gli occhi dell’anima, attraverso il dio che aveva dentro, attraverso le Muse che narravano per mezzo suo».
Gabriella Pace ha infatti ricreato poeticamente gli anni difficili, 1940-45, del padre, partito militare, imbarcato per la Grecia e tornato, dopo una lunga prigionia nel campo di concentramento di Zwickau nella Sassonia, alla fine del conflitto. Bastino i due versi che si leggono in copertina, illustrati splendidamente da una Grande quercia illuminata dalla luna su sfondo azzurro di Pierluigi Isola, per cogliere il senso di questa poesia della sofferenza e della speranza: «prego ci sia la luna sul sentiero / notturno che guida il mio ritorno». Sono dapprima i versi della partenza del giovane ventenne per il servizio militare, dei giorni trascorsi in Grecia e in Albania, che trovano accenti di cielo stellato, ma anche di fratellanza e di pena («una tenda per casa / in eterno trasloco / Come coperta / l’affetto dei compagni / e una voragine aperta /nel petto e nello stomaco»). Come non ricordare l’intenso Diario d’Algeria di Vittorio Sereni?
Ma dopo Grecia e Albania, dove il soldato poteva rallegrarsi al passaggio di due ragazze («Passavano la sera / due ragazze / con loro, sempre, una gallina bianca. / Nel silenzio finalmente ridevi / per gli appuntamenti mancati»), il tempo aspro dell’internamento nel sottocampo di Flossemburg. Non cielo di cobalto, ma duro lavoro, «Una montagna di carbone/ da spalare/ nel tempo breve», e freddo e fame, appena alleviata da una giovane infermiera al cui «passaggio / l’aria rideva tutta, / brinata, si scioglieva» e che osava dargli un pane, sfidando il pericolo di soccorrere un internato: «Ma lei ridente / scrolla le spalle / negli occhi / un guizzo irriverente / non crede nei destini / nelle divinazioni / che mancano al tuo cuore / più dei confini di casa». Assai delicato e tenero appare questo fugace idillio in un luogo di desolazione e sterminio, e come non ricordare con l’offerta del pane il Pane perduto di Edith Bruck, simbolo della casa familiare che si è stati costretti ad abbandonare? L’internamento nel campo viene interrotto dall’arrivo dei liberatori americani: «[…] scappano tutti / sotto questa pioggia / restiamo / affidati a noi stessi / finalmente liberi / veramente liberi? / Girovaghi / non ci potremo accasare / insonni, /nessuno crederà / al nostro racconto». Ma ecco profilarsi la possibilità del ritorno, un ritorno descritto in modo molto drammatico da chi si muove, «fantasma tra i fantasmi», attraverso città distrutte e disabitate. Eppure quale leggerezza e felicità nell’approdo alla casa e quale sentimento trepidante nell’abbraccio della madre! E quale freschezza nel dire l’innamoramento e l’unione con la fanciulla pettinata come Alida Valli! La luce della vita risarcisce il reduce che torna a desiderare, a sognare e ad amare: «Nella stanza del nostro riposo / si asciugano al sole dei tuoi sorrisi / tutte le ferite che credevo insanabili / io già in ascolto di una nuova vita / tu acqua viva dietro le palpebre chiuse».
Firmando il risvolto di copertina, Domenico Adriano dice giustamente che il ritmo doloroso del cuore di questo poemetto ha trovato «la chiarezza dello sguardo, la misura» e la «consonanza assoluta tra le voci». Di più Gabriella Pace ha saputo con il nitore elegante e l’armonia metricamente varia e molto musicale del suo arazzo e con fine sensibilità, creare una poesia elegiaca di grande verità umana, rappresentando con lirica intensità una giovinezza ferita dal male e risanata da una nuova felicità.
L'autore
- Gabriella Palli Baroni laureata in Lettere Classiche a Pavia, allieva di Lanfranco Caretti, perfezionata a Chicago e a San Diego sul pensiero scientifico rinascimentale e su Machiavelli, vive a Roma. Scrittrice e saggista, è studiosa di letteratura dell’800 e del 900 ed è critica di letteratura contemporanea. Collaboratrice di «Strumenti Critici», «L’Illuminista», «Il Ponte» e di altre riviste italiane e straniere, si è dedicata in particolare ad Attilio Bertolucci, del quale ha curato il Meridiano Mondadori Opere, le prose Ho rubato due versi a Baudelaire, gli scritti sul cinema e sull’arte, e a Vittorio Sereni, del quale ha curato i carteggi con Bertolucci (Una lunga amicizia. Lettere 1938-1983, Garzanti 1993) e con Ungaretti Un filo d’acqua per dissetarsi. Lettere 1949-1969, Archinto, 2013). Ha inoltre pubblicato l’antologia Dagli Scapigliati ai Crepuscolari (Istituto Poligrafico dello Stato 2000) e Tavolozza di Emilio Praga (Nuova SI, 2008). È autrice di saggi sulla poesia di Amelia Rosselli e ha collaborato al Meridiano L’opera poetica, uscito nel 2012 e al numero monografico XV, 2-2013 di «Moderna» (Serra, 2015). Nel 2020 ha pubblicato di Attilio e Ninetta Bertolucci, Il nostro desiderio di diventare rondini. Poesie e lettere (Garzanti).
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