L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni
Devi, infatti, sapere, o mio Critone, che parlare in
modo scorretto non solo è cosa di per sé
sconveniente, ma fa male anche alle anime.
da Fedone di Platone [Epilogo: gli ultimi momenti della vita di Socrate]
Uno dei racconti più suggestivi del multiforme ingegno Italo Calvino (Cuba 1923-Siena 1985) è intitolato Un re in ascolto (Calvino 2004, II, 149-173), terzo di una raccolta di un volume dal titolo Sotto il sole giaguaro (1986), pubblicato postumo, e dedicato al senso dell’ascolto. Il racconto, all’apparenza molto semplice nella tematica, si snoda assumendo una funzione significativa particolare.
Come si deduce dal titolo, il protagonista è un re. Egli siede sul suo trono per intercettare i suoni del suo mondo, gli indizi di fedeltà o di congiure, assediato dalla logica del controllo acustico del regno per mantenere il suo potere. Il re, costretto a sedere sul suo trono «giorno e notte» (Calvino 2004, III, 151), spinto dal timore che qualcuno glielo possa usurpare, attraverso i vari suoni e rumori che gli pervengono, cerca di farsi un’idea del palazzo in cui paradossalmente è relegato, sovrano e prigioniero. Per tale motivo tende le orecchie, trascorrendo il suo tempo nell’ansia dell’attesa dell’arrivo dell’usurpatore, come nell’ansia aveva trascorso i giorni prima di diventare re. Ma diamo voce all’autore:
E cos’è regnare se non quest’altra lunga attesa? L’attesa del momento in cui sarai deposto, in cui dovrai lasciare il trono, lo scettro, la corona, la testa. (Calvino 2004, III, 151)
Simile al Minotauro di J. L. Borges de La casa de Asterion in El Aleph (1949), anche il personaggio calviniano attende un usurpatore con le sue stesse sembianze «Magari uno che ti somiglia, uguale, identico.» (Calvino 2004, III, 150)
Il sovrano non solo trascorre le sue giornate sullo scomodo trono in ascolto dei suoni di cui conosce bene la provenienza, ma viene coinvolto in un’attività interpretativa, cercando di “leggere” i segni sonori, di capire il loro significato e indovinare chi li sta emettendo per scovare il nemico. La sua ansia «non s’allenta fino a che il filo dell’udito si riannoda, l’ordito di rumori ben noti non si rammenda nel punto in cui pareva s’aprisse una lacuna.» (Calvino 2004, III, 152)
Ebbene la sua vita da insonne viene altresì ironicamente allettata dai “labirinti della mente” la quale si arrovella in questioni senza sbocco, formulando in maniera congetturale un’interpretazione dopo l’altra: «C’è una storia che lega un rumore all’altro […]? E se c’è una storia, è una storia che ti riguarda? […] Forse la minaccia viene più dai silenzi che dai rumori?» (Calvino 2004, III, 157)
Il groviglio di dubbi diventa assillante e iperbolico tanto più se si considera che
ogni voce che sa di essere ascoltata dal re acquista uno smalto freddo, perché sembra non avere più vita: non mette in gioco l’ugola, la saliva, l’infanzia, la patina della vita vissuta, le intenzioni della mente, il piacere di dare una propria forma alle onde sonore. (Calvino 2004, III, 165)
Allo stesso modo di vari brani di testi calviniani, a ben vedere, il labirinto non si riferisce solo al mondo esterno, ma s’allarga, fino a raggiungere il mondo interno della coscienza. Parafrasando, pertanto, un’osservazione di un critico calviniano, val la pena sottolineare che «palazzo e corpo si equivalgono» (Musarra-Shroeder 1996, 126): «Ιl palazzo è il corpo del re. Il tuo corpo ti manda messaggi misteriosi, che tu accogli con timore, con ansia […] i segnali che ti arrivano forse t’avvertono di un pericolo sepolto all’interno di te stesso.» (Calvino 2004, III, 156) Come il sovrano si trova in una delle zone interne del palazzo, così nella zona più interna di sé stesso risiede il suo essere, ciò che è o era, prima di salire al trono. Questa immagine, foriera di mille suggestioni interpretative, in un’ottica psicologica, sfocia in un’altra ancora più significativa.
Una notte, al re insonne giunge «una voce di donna che si abbandona a cantare, invisibile al davanzale di una porta aperta» (Calvino 2004, III, 164). Il sovrano, allora, si riscuote: improvvisamente le sue orecchie ascoltano la vita. Ciò che lo sorprende è «il piacere che questa voce mette nell’esistere» (Calvino 2004, III, 165): e proprio quella voce emessa con la «vibrazione di una gola di carne» (Calvino 2004, III, 165) allontana il re dalla sua ossessione.
Di che voce si tratta? Di una voce che viene da dentro o da fuori? Chissà! Certo è che proviene «da una persona unica, irripetibile come ogni persona» (Calvino 2004, III, 165), di una voce che arriva al cuore, alla mente, una voce “parlante”, che si fa ascoltare e comunica, aprendosi al rapporto con l’altro. Calvino sembra volerci suggerire il concetto che solo chi è fuori dalle ossessioni del potere in senso lato, dalle ossessioni che la gabbia della sua stessa mente crea e da cui scaturisce una spirale di dipendenza, simile a quella di un qualunque altro narcotico che addormenta le coscienze, può aspirare a provare il piacere di vivere nella sua autenticità e unicità. La voce diventa Λόγος, diventa Verbum, il topos dove significato e significante coincidono.
Antenato di Un re in ascolto è Palomar (1983), un altro sfaccettato personaggio calviniano che dà il titolo alla raccolta di racconti dallo stesso nome. Tra la scrittura dei due racconti intercorre un periodo di solo tre anni, e, pertanto, è facile dedurre che si tratta di due personaggi complementari e, si potrebbe dire speculari, tra i più intriganti della narrativa calviniana. Quello che caratterizza anche il personaggio d’invenzione Palomar è, infatti, un’attività tutta interiore: osservare, riflettere, dedurre, immaginare e cercare di sistematizzare il mondo che lo circonda nel tentativo di interpretarlo. I suoi rapporti con l’esterno si limitano all’osservazione, cosicché
le persone con cui ha a che fare sono poco più che silhouette, le sue avventure sono prive di dialoghi. I suoi rapporti con il mondo non hanno storia, o ne hanno una volutamente implicita, confinata nel silenzio. […] Il signor Palomar vorrebbe che il mondo gli parlasse e gli dicesse tutto quello che ha da dire, vorrebbe interpretarne i segni e tradurli in parole, ma con una parte di se stesso sa che la verità delle cose si trova proprio nel residuo di silenzio […]. (Scarpa, 1999, 206-207)
Il silenzio diventa il principale modo per “resettare” la mente, per ripulirla dalle zavorre accumulate, l’unica via per poter ricominciare a pensare. Nell’incipit del racconto Del mordersi la lingua (Calvino 2004,II, 960-961) proprio per questo, Palomar esordisce dicendo:
In un’epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor Palomar ha preso l’abitudine di mordersi la lingua prima di fare qualsiasi affermazione. Se al terzo morso di lingua è ancora convinto della cosa che stava per dire, la dice; se no sta zitto. Di fatto, passa settimane e mesi interi in silenzio.(Calvino 2004, II,960)
Qui non s’intende il tacere “negativo”, il silenzio colpevole, come lo definisce Palomar: «In tempi di generale silenzio, il conformarsi al tacere dei più è colpevole.» (Calvino 2004, II, 960) Qui si parla di un silenzio che nasce dal bisogno di riflettere: non si tratta, secondo Calvino-Palomar, di assicurarsi di dire la “cosa giusta”, quanto partire da premesse, essendo consci che il nostro parlare implica delle conseguenze, visto che attribuisce valore e valori a quanto esprimiamo:
In tempi in cui tutti dicono troppo, l’importante non è tanto dire la cosa giusta […], quanto il dirla partendo da premesse e implicando conseguenze che diano alla cosa detta il massimo valore. (Calvino 2004, II, 960-961)
Tali considerazioni spingono il signor Palomar ad un aggrovigliarsi di pensieri, ad un labirinto mentale che lo porta a riflettere se l’arte del tacere non sia «più difficile ancora dell’arte del dire» (Calvino 2004, II, 961). D’altronde, anche il silenzio è un discorso il cui senso «sta nelle interruzioni, cioè in ciò che di tanto in tanto si dice e che dà un senso a ciò che si tace.» (Calvino 2004, II, 961) I dubbi di Palomar non finiscono mai, giungendo al limite del paradossale, cosicché più i suoi pensieri si assiepano e aggrovigliano più la realtà sembra allontanarsi da lui.
Riuscirà mai a trovarsi in armonia con il mondo e a comunicare? Chissà! Ed è forse questo il motivo per cui il racconto si conclude con la riflessione di Palomar, alter ego dello stesso Calvino:
Ogni volta che mi mordo la lingua […] devo pensare non solo a quello che sto per dire o non dire, ma a tutto ciò che se io dico o non dico sarà detto o non detto da me o dagli altri. (Calvino 2004, II, 961)
A questo punto non resta che chiedersi: come squarciare il velo di Maia che nasconde un mondo dove comprendere chi siamo e il rapporto con l’esterno appare un’impresa quasi impossibile che ci riempie di ansie e dubbi? Dove trovare quella voce autentica, oggi mortificata e messa a tacere dall’uomo contemporaneo che, essendo ormai diventato un’appendice del rumore, usa sempre più spesso parole vuote di significato, vive dalla mattina alla sera immerso in un mondo che non conosce il silenzio, ma solo il rumore del traffico, il cicaleccio dei pettegolezzi, le pubblicità urlanti e ripetitive, le chiacchiere fast food dei programmi televisivi spazzatura? De facto nella società contemporanea il rumore viene cercato perché si traduce in produzione e denaro. Il rumore indica che gli affari vanno a gonfie vele: se i macchinari delle industrie sbuffano a pieno ritmo, se le auto sfrecciano dalla mattina alla sera, se i martelli pneumatici ci rompono i timpani per cementificare, se le saracinesche dei negozi si alzano e si abbassano borbottando senza tregua, significa che il progresso è un cavallo in corsa che ci conduce al benessere economico.
Ed è Calvino stesso nel suo Marcovaldo al supermercato (Calvino 2004, I, 1146) a descriverci, con dovizia di particolari, leggerezza ed incisività, che cosa oggi s’intende per progresso:
Alle sei di sera la città cadeva in mano dei consumatori. Per tutta la giornata il gran daffare della popolazione produttiva era il produrre: producevano beni di consumo. A una cert’ora, come per lo scatto d’un interruttore, smettevano la produzione e, via!, si buttavano tutti a consumare. […] E via pacchi pacchetti pacchettini borse borsette vorticavano attorno alla cassa in un ingorgo, mani che frugavano nelle borsette cercando i borsellini e dita che frugavano nei borsellini cercando gli spiccioli […]. (Calvino 2004, I, 1146)
In tale ottica appare, dunque, evidente quanto il silenzio sia insopportabile se superi qualche minuto, adatto solo a uomini di chiesa o a filosofi con la testa tra le nuvole. Pur di abolire il silenzio, si parla in fretta, senza misurare le parole, il vocabolario si è ridotto all’osso perché non c’è la voglia di strutturare frasi di senso compiuto, di prendersi cura di un linguaggio che preveda un minimo di elaborazione. Allora il parlare diventa banale, quasi meccanico, costituito com’è di frasi fatte, dove la corrispondenza tra significato e significante non esiste più. Le parole, ripetute continuamente, non sono più parlanti, ma sono state svuotate, banalizzate, usurate, sono erose, simili a monumenti esposti alle intemperie. Questo fenomeno si osserva tanto negli scambi vocali quotidiani della gente quanto nei media o nei discorsi dei politici dove la riduzione del vocabolario, sostituita da affermazioni spacciate per verità indiscutibili, da stolidi slogan, ripetitivi, sterili e soporiferi, è davvero preoccupante inquantoché si presta perfino a pratiche manipolatorie (Carofiglio 2010, 25). Laddove il significato delle parole viene alterato o, addirittura, distorto, la sua essenza viene fatta scomparire con una spregiudicatezza, una nonchalance che diventa una “peste” infettiva:
Quanto al linguaggio, è stato colpito da una specie di peste. L’italiano sta diventando una lingua sempre più astratta, artificiale, ambigua; le cose più semplici non vengono mai dette direttamente, i sostantivi concreti vengono usati sempre più raramente. Questa epidemia ha colpito per primi i politici, i burocrati, gli intellettuali, poi si è generalizzata, con l’estendersi a masse sempre più larghe […]. (Calvino 2001, II, 1870-1871)
E non basta. C’è anche un altro linguaggio che di giorno in giorno inquina la mente: le immagini. Calvino intuisce che, come le parole, pure le immagini, che costituiscono anch’esse un linguaggio per la lettura e l’interpretazione del mondo, sono state colpite dalla medesima “peste” a causa del loro proliferare indiscriminato e indifferenziato e, quindi, stanno perdendo significato. Proprio per questa ragione, mai come oggi le affermazioni calviniane risuonano tanto attuali:
Viviamo sotto una pioggia ininterrotta di immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza d’imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola di immagini si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria; ma non si dissolve una sensazione di estraneità e di disagio. (Calvino 2001, I, 678)
In tale prospettiva il silenzio è al contempo il presupposto e l’obiettivo cui dovrebbe tendere ogni scrittura: per Calvino costituisce insomma l’opportunità di giungere a cogliere finalmente l’essenziale: «Μi sento vicino a capire che dall’altro lato delle parole c’è qualcosa che cerca d’uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro di prigione.» (Calvino 2001, II, 1875) Solo il silenzio, infatti, permette l’ascolto di sé e dell’altro e la rinascita di un dialogo dove la parola non è solo pura emissione di suono di corde vocali, quanto una parola “parlante”, una parola “dialogante” che non viene subìta, ma suscita attenzione, risveglia coscienze, genera “comunicazione”, segnando l’unico vero progresso di cui possa “vantarsi” un essere vivente. Esiste, dunque, un modo per combattere insieme l’“epidemia pestilenziale del linguaggio” della cultura di massa? Forse è possibile ancora trovare un sollievo?«Mi può dare qualche sollievo il pensiero che la letteratura ha sempre capito di più delle altre discipline […].» (Calvino 2001, II, 1867)
Del resto, un’eco di quanto Calvino ritenesse fondamentale il ruolo della letteratura nel ripristino della comunicazione è esplicitato dallo stesso scrittore nel giugno 1984, allorchéviene invitato a tenere una serie di conferenze all’Università di Harvard. Al momento di partire per gli Stati Uniti, ne aveva scritte cinque mentre la sesta, Consistency, rimane inespressa, non argomentata, per il sopraggiungere della morte. Tali conferenze, riportate in un saggio dal titolo Lezioni americane (Calvino 2001, I, 631-733) che rappresentano una specie di manifesto testamentario, l’ultimo contributo più noto alla saggistica, Calvino prova perfino a delineare le cinque caratteristiche precipue da preservare nella letteratura del “nuovo millennio”, ovvero la Leggerezza, la Rapidità, l’Esattezza, la Visibilità e la Molteplicità, seguendo una specie di ordine di importanza. «Categorie piuttosto insolite, si dirà, per un ragionamento sulla letteratura, lontane dai consolidati canoni estetici, ma sintomatiche di un modo di concepire il linguaggio e la letteratura che Calvino aveva da tempo condensato attorno alla sua scrittura.» (Piacentini 2002, 19) E ciò accade inquantoché alla letteratura dovrebbe essere affidata «una funzione di conoscenza e di resistenza contro la precarietà dell’esistere» (Piacentini 2002, 27-28 ) in un mondo nel quale l’uomo si dispiega in tutta la sua complessità dei suoi meccanismi mentali: «perché la letteratura, come la realtà, si compone di un’infinità di parti, unite insieme da fili nascosti che “si parlano” l’un l’altro a distanza di tempo e spazio.» (Piacentini 2002, 29)
In tal senso, la letteratura diventa un mezzo di conoscenza del mondo e delle relazioni, caratterizzate da un “labirinto”: grazie ad essa, si rende possibile la “sfida al labirinto”(Calvino 1995, I, 105). In summa ratio, la letteratura costituisce il nostro filo di Arianna: una specie di splendida «farfalla, dai molteplici colori che con le sue ali variegate vola rapida e precisa di fiore in fiore per nutrirsi della leggerezza dei sogni.» (Cernigliaro Tsouroula 2011, 220)
Riferimenti bibliografici
Asor Rosa, Alberto, [2001], Stile Calvino, Torino: edizioni Einaudi
Calvino, Italo, [1986], Sotto il sole giaguaro, Milano: edizioniGarzanti
Calvino, Italo, [2004], Romanzi e Racconti, 3 voll, Ed. diretta da C. Melanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto. Milano: edizioniMondadori
Calvino, Italo, [2001], Saggi 1945-1985, 2 voll,a cura di M. Barenghi e B. Falcetto. Milano: edizioniMondadori
Carofiglio, Gianrico, La manomissione delle parole, a cura di Margherita Losacco. Milano: edizioni Rizzoli
Cernigliaro Tsouroula, Maria Angela, [2011], Il «Sapore ariostesco» in Calvino, Roma: edizioni Edizioni Progetto Cultura
Musarra-Shroeder,Ulla, 1996Il labirinto e la rete, Roma: edizioniBulzoni
Piacentini, Adriano [2002], Tra il cristallo e la fiamma, Firenze: edizioni Firenze Atheneum
Scarpa, Domenico, [1999], Italo Calvino, Milano: edizioniMondadori
L'autore
- Maria Angela Cernigliaro, nata a Napoli, si è laureata in Lettere classiche e in Storia e Filosofia presso l'Università Federico II. In possesso di Master in Didattica della Lingua italiana a stranieri (LS e L2) e del Dottorato in Letteratura italiana, attualmente insegna ad Atene presso l'Istituto Italiano di Cultura. E' autrice di vari manuali sull'insegnamento/apprendimento della lingua italiana e neogreca, di articoli letterari e di didattica, di saggi e romanzi.