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Palazzo Milzetti Bolognesi a Faenza, nel ricordo anche di Andrea Emiliani

In una pregevole pubblicazione di Andrea Emiliani su Palazzo Milzetti Bolognesi (Faenza, Carta Bianca, 2014), con l’eloquente sottotitolo L’inesplicabile splendore del bianco e oro, l’autore sottolineava la particolare se non unica connotazione di questa splendida dimora, espressione suprema dello stile Impero.

Emiliani si era prodigato con successo per raggiungere l’acquisizione dell’edificio quando era ancora di proprietà privata, per farne poi il Museo Nazionale dell’età Neoclassica in Romagna e, nella pubblicazione citata, oltre a raccontare le vicende relative all’acquisto dell’immobile da parte dello Stato, veniva ricordata la bella iniziativa, promossa dalla RAI nell’ambito della trasmissione “Capolavori nascosti” del 1968, di far conoscere l’edificio a livello nazionale.

Facciata interna
Facciata interna

L’attore Franco Parenti del Piccolo di Milano, impersonando l’architetto Giuseppe Pistocchi, non solo raccontava, percorrendone le bellissime sale, la storia del progetto ma illustrava anche l’ambiente culturale faentino in quell’irripetibile momento tra fine XVIII secolo e inizio del successivo, in cui la città si era rinnovata in quella particolarissima veste neoclassica, nella quale architettura e soprattutto decorazione pittorica e plastica venivano a caratterizzare, in eleganti cadenze classiche, le dimore aristocratiche locali.

L’edificio, trasformato esternamente con la solenne neodorica veste ideata dal Pistocchi, non lascia intravedere lo splendore delle decorazioni interne; c’è quasi la volontà di non ostentare, anzi di celare la magnificenza degli ambienti interni. Già, però, dallo scalone ideato da Giovanni Antonio Antolini, si comincia a percepire la grandiosa spazialità del piano nobile nella successione degli ambienti e soprattutto nel salone ottagonale, denominato “Tempio di Apollo”, dall’inusitato sviluppo verticale, che immette nella galleria.

Le stanze del piano terreno, dalle decorazioni più contenute ma sempre elegantissime, accolgono un luogo superbo come l’ellittico antibagno dalle pareti nere, su cui si ritagliano le figure mitologiche o i motivi fitomorfi creati dalla straordinaria fantasia di Felice Giani e dai suoi abilissimi collaboratori; un luogo magico, unico, dove i richiami classici alla Domus Aurea si rinnovano nel leggero, quasi sospeso apparire di ninfe acquatiche, di eròti svolazzanti tra viticci con piccoli volatili, dove spicca poi il singolare collegamento tra sala da bagno e la biblioteca, luogo dello studio e del pensiero, istituendo una sorta di logica continuità tra la salute del corpo e il sapere, aspetto unico per quel tempo, quando nelle dimore settecentesche, anche le più sontuose, non si dava valore all’aspetto igienico e alla cura del corpo, chiaramente riprese invece dalla cultura classica.

Antibagno (particolare)
Antibagno (particolare)

Ma ritorniamo al piano nobile, nella grande sala ottagonale, resa tale dalle binate colonne innestate in un vano perfettamente quadrato, in cui la luce trionfa attraverso un’ampia finestra serliana, che si affaccia sul retrostante cortile; sulla volta con lunette, tra le decorazioni finissime a monocromo e le raffigurazioni dei segni zodiacali e delle quattro stagioni, si apre un ottagono col trionfo del sole, luminoso dipinto del Giani.

Sulle pareti bianchissime, fregi plastici desunti da prototipi classici, larghi bassorilievi dal leggero modellato, opera di Gian Battista Ballanti faentino e Antonio Trentanove riminese, raccontano il mito. La specificità di questo ambiente, come degli altri nel piano nobile, è la perfetta fusione tra spazio, decorazione pittorica e plastica in un “bel composto” che in realtà è frutto di una sola mente ideativa, quella del Giani, vero regista di tutto questo dispiegamento decorativo.

Giani prepara e disegna i riquadri dei soffitti e delle pareti ma anche i bassorilievi leggerissimi per le sovrapporte e le ornamentazioni a monocromo.

Si è parlato molto di questa équipe di pittori, plasticatori, ornatisti dal mestiere consumato che operano sotto un’unica guida che ne produce la straordinaria unità stilistica: i nomi dei fratelli Ballanti Graziani, Antonio Trentanove e in particolare Gaetano Bertolani, puntuale esecutore delle esilissime decorazioni parietali. L’ampia galleria di Achille, a cui si accede dal salone ottagonale. è il fulcro di tale progetto unitario in cui pareti e soffitto, rivestiti dalla decorazione, rappresentano la formulazione di un’idea globale nel sottolineare, non tanto un carattere di sontuosità quanto un luminoso risultato, in cui la decorazione ricrea spazialmente la stessa architettura, peraltro elementare, della sala. Ornamentazioni dipinte a monocromo si intrecciano a candelabre con panoplie modellate a sovrapporte, in un gioco quasi illusionistico fra pittura e plastica ed anche fra arredi come specchiere e consolle laccate e dorate.

La Galleria di Achille.
La Galleria di Achille.

Le grandi tempere del Giani sulla volta a botte ribassata incorniciate dai monocromi nella loro squillante cromìa, assumono un rilievo sorprendente; sono l’epopea o meglio, sono episodi significativi dell’Iliade omerica rivisitati dalla dimensione visionaria di Giani, che culminano nei due lunettoni sulle pareti brevi della galleria: vi si scorgono, qui, nell’impeto delle figure e dei vapori polverosi dell’atmosfera, i prodromi della temperie romantica.

Ma tutta questa esaltazione dell’epopea classica che emerge dal programma figurativo, dettato probabilmente dal committente, il Conte Francesco Milzetti, che investe gli altri ambienti del piano nobile, da quali fonti è originata? Sono ben note le tendenze massoniche della famiglia come di altre dell’aristocrazia faentina, nell’esaltazione del mito antico e della romanità, compresi gli evidenti richiami filofrancesi; ma nella piccola Faenza, paradossalmente, la cultura classica proveniva dall’ambito del Seminario Diocesano che, nel XVIII secolo, è un centro di diffusione della tradizione classica con insigni maestri, al quale hanno attinto anche esponenti dell’aristocrazia locale. Curiosamente, la laicità così ben espressa in questo ambito è emanazione di una formazione ecclesiastica, aspetto connotativo della tradizione faentina perpetuatasi anche nel secolo successivo.

Nell’infilata delle sale, in cui solennità romana ed epica omerica si intrecciano, un luogo, un piccolo scrigno, il cosiddetto “gabinetto d’amore” ne costituisce la gemma ultima, quasi segreta. Il boudoir, di pianta ottagonale non regolare, dalle geometriche scatolari forme, è pensato per la decorazione che ne riveste pareti e soffitto.

Boudoir.
Boudoir.

La suprema ricchezza decorativa e le esilissime architetture prospettiche parietali, incorniciano riquadri con il petrarchesco Trionfo di Amore tra le quattro stagioni e preziosi quadretti con gli amori degli dei sulle pareti. E’ l’ambiente, forse, più emblematico per la sapienza decorativa raggiunta: il vano è infatti pensato per accogliere l’apparato pittorico protagonista assoluto dello spazio, sottoposto all’effetto illusionistico delle policromie architettoniche; inoltre in una base di queste, sotto l’arma dei Milzetti è apposta la data 1805, termine di tutto il programma pittorico del piano nobile iniziato nel 1802.

La magia di Palazzo Milzetti Bolognesi sta nella sua fragilità, nella impalpabile leggerezza dei materiali, in cui vengono esclusi i prodotti nobili come marmi e metalli, che invece caratterizzavano le dimore principesche dell’epoca barocca. Tutto è affidato al candore dello stucco, alla tempera e alla limitata utilizzazione delle dorature; è indubitabile che vi è la volontà esplicita di raggiungere, pur con l’economia di materiali poveri, l’aspetto di magnificenza. Banditi i marmi policromi, vengono sostituiti da marmorizzazioni dipinte, quasi a voler suggellare il rigetto di uno sfarzo proprio dell’Ancien Régime in nome di un principio morale nuovo, proclamato dall’etica postrivoluzionaria.

L’altro elemento da sottolineare è che il palazzo, appena terminato, per brevissimo tempo fu abitato dalla nobile famiglia e pertanto non ha subito che lievi modifiche col succedersi dei nuovi proprietari; si coglie quindi il fascino di una residenza si può dire intatta quasi miracolosamente, nonostante la sua fragile, precaria conservazione.

Nelle vuote sale, l’apparire severo di Franco Parenti in veste di Giuseppe Pistocchi era più che una visione, era l’immagine corporea di un sogno, quello di un’epoca, meglio, di una stagione così felicemente espressa dalla civiltà faentina.

 

 

L'autore

Pietro Lenzini
Pietro Lenzini
Pietro Lenzini nasce a Bondeno (Fe) nel 1947. Incisore, pittore, scenografo, scultore esperto d’arte e d’architettura. Si è formato all’Accademia di Belle Arti di Bologna nella quale è stato docente di Scenotecnica. Collabora a diversi allestimenti scenografici per il Teatro Comunale di Bologna lavorando con Luciano De Vita. In seguito, grazie alla sua raffinata tecnica pittorica, al coltivato gusto scenografico nutrito dalla conoscenza dei grandi temi dell’arte, si è espresso, in particolare, in soggetti mistici e religiosi, realizzando numerose opere per edifici di culto, con occhio rivolto ai maestri del passato verso i quali ha sempre nutrito sensi di affinità ideale.
Pietro Lenzini vive e opera a Faenza.