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Rocco Scotellaro e 45 artisti d’oggi

                                                               Rocco vestito di perla
come il grigiore dei colli vicino al tuo paese
mostrami la via che conduce
non so dove

                                                                                                                       Amelia Rosselli

                                                                  Dobbiamo imparare a distinguere dove c’è la zappata

                                                           e dove la pesta sul terreno che noi stessi attraversiamo

                                                                                                                       Rocco Scotellaro

 

Precoce è l’incontro di Rocco Scotellaro con l’arte del Novecento, fin dal 1940, a Potenza dove, tramite un compagno di liceo, Mauro Masi (Potenza, 1920 – Roma, 2011), già pittore entusiasta di Cézanne visto come l’iniziatore di un nuovo senso della forma e dello spazio, conosce e frequenta maestri come Michele Giocoli (Potenza, 1903-1989), Remigio Claps (Avigliano, 1911 – Potenza, 1983), Vincenzo Claps (Avigliano 1913 – Potenza 1975) e Vincenzo Radino (Rapolla, 1914 – Milano 1988), differenti per istruzione, valore e stile, ognuno con un bagaglio di esperienze fatte a Roma, Venezia, Firenze e Milano e disposti a trasferire, negli atelier di Palazzo dei Mutilati e in Angilla Vecchia, quanto appreso nelle Accademie di Belle Arti, allievi di Felice Carena (il maestro amava ripetere che “la fantasia nel pittore non sta nel ritrovare stravaganze e cose nuove ma nel saper vedere negli spettacoli più comuni, nella luce che inonda le cose, sempre nuove sensibilità e nuovi rapporti”), dal sodalizio con Rosai, dalle presenze alla I Quadriennale di Roma (1931) e alla XX e XXII Biennale di Venezia (1936, 1940), portatori, quindi, degli echi dei Macchiaioli e di Ardengo Soffici, di Lorenzo Viani e dell’espressionismo della Scuola Romana, di “Corrente” e di quanto accadeva in Europa.

È l’arte, dunque, in una città che sta abbandonando lentamente il guscio tranquillo della tradizione napoletana (una tradizione pittorica lucana non è mai esistita), ad acuire l’attenzione di Rocco su quanto sta accadendo. La formazione di una categoria di intellettuali provenienti da strati della società non soltanto borghese, per di più conoscitori profondi della propria realtà (dopo la V Mostra d’Arte del Sindacato Interprovinciale Belle Arti di Potenza organizzata da Concetto Valente nel Salone della Casa del Fascio e le esposizioni ospitate nella Saletta del Teatro Stabile, nel Caffè Giugliano, nella Camera del Lavoro, nel Circolo Universitario Lucano, nel Salone di Piazza Matteotti dove Scotellaro, il 19 ottobre 1952, incontra per l’ultima volta artisti e poeti come Vincenzo De Rosa. Michele Parrella, Francesco Ranaldi, Gerardo Corrado, Michele Pergola. Giuseppe Antonello Leone, Maria Padula, Olga Radino, Vittorio Marino, Rocco Falciano), a partire dalla seconda metà degli anni quaranta  sta erodendo i valori ormai deteriorati di una statica fedeltà di linguaggio, solitamente decorativo, attraverso quanto emerge negli spazi dove gli artisti, in gruppi più o meno coesi e vivaci, dibattono sulle scelte da compiere, spesso divisi sui problemi di estetica ma tesi ad uscire da un’anonima pittura paesaggistica guardando al mondo contadino, alla sua storia, alla sua cultura, per necessità poetica e non per motivi ideologici. Non doveva, l’artista, vedervi l’unico modo per non porsi fuori dalla storia? A tal proposito, la “Mostra di Primavera” del 1950, evidenzia le inquietudini dei tempi nuovi e la necessità di esprimere un mondo che ormai era dentro di loro e doveva venir fuori. Ma era possibile conservare le radici, in pittura come in poesia, senza aprirsi alle forme coinvolgenti del nuovo che avanzava, evidente nei dipinti e nelle sculture di Antonietta Raphaël, Giulio Turcato, Renato Guttuso, Corrado Cagli, Franco Gentilini, Riccardo Francalancia, Luigi Bartolini e Carlo Levi, Saro Mirabella e Ugo Attardi, Corrado Cagli e Domenico Purificato, Tono Zancanaro e Domenico Cantatore, Aldo Turchiaro e Franco Iurlo esposti accanto alle loro opere? Perché, intanto, nel 1945, Carlo Levi ha pubblicato “Cristo si è fermato ad Eboli” e del maggio 1946, in occasione delle elezioni politiche per la Costituente, è il primo incontro con Scotellaro. Un incontro nel nome dell’arte, visto che Rocco, a Tricarico, “per il sentiero in fondo al vallone, sotto la Rabata”, insieme a Rocco Mazzarone, accompagna Levi alla Cappella del Carmine per vedere gli affreschi seicenteschi di Pietro Antonio Ferro che si avvale della collaborazione dei figli Carlo e Giovanbattista con rimandi evidenti agli Zuccari e a Raffaello, Carracci, Barocci e Salimbeni.

Un riattraversare dal vivo la storia dell’arte, per i successivi confronti nel corso dei viaggi a Roma, ospite spesso di Levi prima e di Amelia Rosselli poi, accresciuta nel vis-à-vis con i dipinti recenti o del confino lucano di don Carlo e le nuove amicizie contratte, negli atelier di Villa Massimo, nel parco di Villa Strohl-Fern, sulle pendici del Pincio a via Margutta, con i futuri protagonisti della scena artistica italiana (Guttuso, Mazzacurati, Greco, La Regina, Leoncillo, Guerrini, Brunori), soprattutto di area comunista, che vedevano anche la presenza di Mafai e Prampolini, Antonietta Raphaël e Carla Accardi, Consagra e Corpora, Dorazio e Franchina, Perilli e Sanfilippo, Savelli e Turcato, i critici Corrado Maltese (già conosciuto a Potenza) e Antonello Trombadori compresi, prima che ognuno prendesse la propria strada, per intenti programmatici e scelte estetiche.

Rocco sa muoversi, tra il 1946 e il 1953, ovvero gli anni più esaltanti del dopoguerra, nella città diventata un vero e proprio laboratorio dell’avanguardia italiana, anche nel cinema che aveva prodotto capolavori come Paisà, Roma, città aperta, Sciuscià, Ladri di biciclette, Riso amaro, La terra trema, con la discrezione e la solidità di intenti che gli era propria, attento ai modelli narrativi del neorealismo ma anche alla salvaguardia di una propria identità, ovvero ciò che Levi chiama immagine reale della Lucania, dei suoi uomini, della sua vita, della sua capacità drammatica di esistenza cui assegnare il valore delle cose nuove. Non bisognava salvare un mondo nell’essenza delle sue virtù originarie, “l’autenticità remota e profonda” di una Lucania custodita per secoli come un tesoro nascosto, “con i suoi caratteri non ancora sviliti o corrotti”, così da “costituire un apporto insostituibile alla trasformazione rivoluzionaria della società”? Non si parlava, nello studio di Levi, di tensione lirica, di infinita contemporaneità, di memoria della coscienza? Sono i motivi ispiratori del telero Lucania del 1961 ma anche di È fatto giorno e di Contadini del Sud.  

Non sorprende, perciò, la contemporanea presenza di Scotellaro ai tavoli della “Fiaschetteria Beltramme” di via della Croce, insieme a Amelia Rosselli (conosciuta a Venezia nel 1950, in occasione del I° Congresso della Resistenza, e subito diventata “un sogno di cultura non provinciale, non soffocante, non pettegola”), fianco a fianco con Mino Maccari e Amerigo Bartoli, Alfredo Mezio e Giorgio Bassani, Tito Balestra e Tanino Chiurazzi, Nicola Ciarletta e Libero De Libero, Italo Calvino e Leonardo Sciascia, Ennio Flaiano e un ritrovato Giovannino Russo, sorridente suo compagno di strada nel capoluogo lucano, in un settimanale dal titolo esplicativo per un giovane liceale: “Potenza fascista”.

Le appartenenze di carattere ideologico, la sollecitazione continua, a volte aspra, ad un più ampio consenso per le proprie idee, portata avanti da “Rinascita” e “Realismo”, sono totalmente cancellate da un diverso dibattito culturale, dall’atteggiamento liberale di tutti, alcuni pronti, more solito, matita tra le dita, sulla carta che fa da tovaglia, all’ironia se non allo sberleffo. Non si era esercitato, Rocco, nei giorni di carcere e subito dopo aver conosciuto Luigi Guerricchio (Matera, 1932 – 1996), nel disegno come sfogo e supporto della memoria? Non aveva trovato nell’arte e nella frequentazione degli artisti che amavano la poesia un punto di riferimento costante, una via per il rinnovamento cui aspirava e il fratello maggiore Levi sollecitava?

La morte prematura del “giovane uomo dai capelli ricci di un biondo slavato cattivante che con le sue lentiggini intonava una festa di gloria” (così lo descrive Amelia Rosselli che con Rocco andrà a Tricarico per una settimana e poi a Napoli, a Portici, a Firenze per conoscere nonna Amelia Pincherle Rosselli), capace di risvegliare la curiosità di Bobi Bazlen, attento alle opinioni “adulte e sicure” del meridionalista convinto ma anche alla condizione ultima della fragilità e vulnerabilità dell’essere umano, interrompe un rapporto vivo in tutta la cultura del nostro Novecento che ha in Ungaretti la sua molla iniziale. Così intenso da sollecitare Levi a ordinare e dedicargli la sala alla XXVII Biennale di Venezia (1954), ricca di cinquanta opere con al centro quel ritratto di eterno fanciullo dagli occhi spalancati sul mondo-paese.

 

Per Scotellaro, il distacco con l’arte durerà fino al 1974, anno in cui esce, per L’Arco Edizioni d’Arte, Roma e Edizioni di Vanni Scheiwiller, Milano, un libro d’artista nel quale il confronto immagine-parola si farà specchio di completa adesione. Cinque poesie (Vico Tapera, Paese mio!, Letargo, Moribondo paese, Conosco, scritte tra il 1942 e il 1952) saranno accompagnate da cinque acqueforti in bianco e nero di Luigi Guerricchio che interpretano e chiariscono la sera / sospesa al sorgere della luna, gli uomini che solo parlano / attorno al monumento, i poveri giorni di calde speranze e i luoghi del mio ozio, il moribondo paese che sa tutto di me e dei miei, la voce del vento che muove / il colombo di ferro al comignolo.

Bisognava, perciò, per il centenario della  nascita, sulla scorta di “Tutte le opere di Rocco Scotellaro” pubblicate nel 2019 negli Oscar Mondadori per le cure di Franco Vitelli, Giulia Dell’Aquila e Sebastiano Martelli, fare una mostra che toccando i vari linguaggi espressivi della contemporaneità, sollecitasse un confronto e una riflessione. A quarantacinque artisti di sette generazioni, dai post informali al gruppo che aveva come referente l’Attico di Fabio Sargentini, fino alla generazione degli anni Novanta, è stato spedito il volume, richiesto un’opera nata da questa lettura e una pagina che la commentasse. Un modo per toccare tutte le città attraversate da Scotellaro, estenderla all’area del Mediterraneo, riconsiderare, sette decenni dopo la sua scomparsa, nel rapporto parola-immagine, segno-significato, nella totale contaminazione dei linguaggi e mettendo in dialogo le due metà dell’avanguardia scarsamente attive negli anni Cinquanta, ciò che Levi, ne L’uva puttanella, aveva definito “una sterminata meditazione su se stesso e sul mondo”.

Un brano di prosa o una poesia di Rocco sono diventati motivi per approfondire la sua opera ma anche l’arte che si è sviluppata nel corso degli anni in Italia, in Lucania, e il singolare paesaggio che la contiene.

Ecco, allora, l’acuta osservazione della realtà propria degli anni di Scotellaro (1923-1953) farsi corpo comune con quella di Ruggero Savinio, Giuseppe Pirozzi, Giulia Napoleone e Claudio Verna; Emilio Isgrò centellinare l’acinatura dell’uva puttanella come le parole cancellate: l’una e le altre, nonostante la mancata o incompleta fecondazione, maturando possono essere più dolci di quelle normali; Mario Raciti inseguire l’invisibile imprigionato nei versi di Rocco, i sussulti del vivere anche dopo la propria scomparsa; l’intensità spasmodica dei giorni trascorsi in paese riacquistare forza in Mario Cresci, Assadour, Giancarlo Limoni, Sandro Sanna e Ernesto Porcari; i sentimenti forti e profondi, le tensioni di un mare lontano, far capolino in Giuseppe Modica, Stefano Di Stasio, Salvatore Cuschera e Giuseppe Ciracì; Elvio Chiricozzi avventurarsi dove il cielo sconfina e far sua la cantilena di Amelia Rosselli per Rocco: È toccato a te / a soffiar le nuvole / portarle fino al vicinato / come un caldo lenzuolo / per noi tutti ammalati; il paese – patria come centro focale di un’ispirazione sollecitare Gregorio Botta, Giuliano Giuliani, Roberto Almagno, Giovanna Bolognini e Ciro Vitale; le lacerazioni e le rotture drammatiche, le speranze di un mondo migliore capace di sciogliere tutti i nodi della quotidianità, accendere il cuore e la mente di Paolo Icaro, Mimmo Paladino, Giuseppe Salvatori, Gianni Dessì, Giuseppe Capitano e Marco Tirelli; il bisogno di lasciare una traccia del proprio passaggio fare eco in Elisabetta Benassi, Ado Brandimarte e Nunzio; l’esigenza di conoscere il mondo per modificarlo, magari attraverso un solo filo d’erba, guidare Carlo Lorenzetti o far sentire Ilaria Gasparroni e Antonio Della Guardia uno degli altri. Perché, precisa Veronica Bisesti, anche una pietra può riportare alle sue origini il nostro sguardo trasportandolo in una dimensione imprevista, così come conta, per Claudio Palmieri, Lucilla Catania, Felice Levini e Enrico Pulsoni essere sospinti dalla vasta eternità e rimanere sospesi nel cielo a bocca aperta; Giuseppe Caccavale, che usa le parole per far leggere le immagini, e Franco Fanelli che tesse sulla lastra segni per domandarsi se mai tutti gli uomini a quest’ora / hanno preso tra i denti un pane nero; Andrea Fogli deciso a sfoderare la penna di Scotellaro per riportare in primo piano la turba dei pezzenti, / quelli che strappano ai padroni / le maschere coi denti; Francesco Arena rendere imperitura la targa del ricordo incidendo in bronzo la dedica di Portici; Pierpaolo Lista alzare come bandiere gli antichi attrezzi di un lavoro ormai meccanizzato; Laura Paoletti toccare le corde dell’amore percepito nella quotidianità del paese, tra i campi e la paglia bruciata; Alberto Gianfreda comporre, attraverso i cocci del tempo e della storia, un ritratto di Rocco che non esclude il mitico e magico paesaggio lucano dove torna ad echeggiare, per uno degli uomini che seppe soprattutto donare, la cantilena di Amelia:

un’arpa la tua voce
e le mani suonano tamburelli.

GNAM per Rocco Scotellaro

 

 

 

 

 

L'autore

Giuseppe Appella
Giuseppe Appella
Giuseppe Appella è uno storico e critico d'arte.