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Lo stupore di fronte alla meravigliosa normalità del mondo

In occasione del centenario della nascita di Wisława Szymborska (1923-2012), premio Nobel per la letteratura nel 1996, il Teatro Pubblico Ligure, in coproduzione con l’Istituto Adam Mickiewicz di Varsavia, con il patrocinio della Fondazione Wisława Szymborska di Cracovia in collaborazione con l’Istituto Polacco di Roma, ha realizzato uno spettacolo intenso e originale, accolto con entusiasmo dal pubblico per la sua ricchezza di testi, di emozioni, di musicalità. Ascolta, come mi batte forte il tuo cuore. Poesie, lettere e altre cianfrusaglie è stato presentato in anteprima allo storico teatro di Acquapendente il 26 marzo 2023 e il giorno successivo al Teatro Vittoria di Roma, quindi replicato in diverse città italiane: il 4 aprile al Teatro Litta di Milano, al Festival della Poesia di Genova il 17 giugno, il 9 settembre al Teatro Romano di Fiesole, e infine messo in scena, dal 12 settembre, anche in due teatri di Varsavia e Cracovia. Il pubblico polacco è stato conquistato dalla nuova «signora Wisława» che, riaccompagnata a casa, parlava italiano attraverso la voce seducente di Maddalena Crippa: «le sarebbe piaciuto moltissimo», ha commentato Teresa Walas, grande amica della Szymborska, che propose il nome di Michał Rusinek come segretario, il giorno caotico e festoso del Nobel.

Dunque Wisława Szymborska è tornata in patria: ma è una patria italiana, trasformata ormai, soprattutto dal miracoloso esercizio di ri-creazione del suo grande traduttore, Pietro Marchesani, in una voce altissima della nostra poesia. La Szymborska di Marchesani è diventata una poetessa fra le più alte della letteratura italiana del Novecento. Bisogna leggerla e interpretarla nelle scuole, deve entrare nel cànone liceale, non può più rimanere quell’oscura scrittrice dal nome impronunciabile che lasciò tutti senza parole quando da Stoccolma arrivò l’annuncio del Premio che trascina ogni anno un autore fra le costellazioni degli immortali.

Sergio Maifredi ha progettato e curato la regia dello spettacolo con rigore filologico e appassionata ironia ermeneutica, cogliendo e portando in scena un’idea di due importanti polonisti, Andrea Ceccherelli (Prof. Ordinario all’Università di Bologna) e Luigi Marinelli (Prof. Ordinario alla “Sapienza” di Roma). Hanno dato voce, con interpretazione superba, severa e derisoria, sorridente e graffiante, Maddalena Crippa alla Szymborska e Andrea Nicolini al suo segretario Michał Rusinek e al grande amore de lonh Kornel Filipowic. La musica è stata composta ed eseguita dal vivo da Michele Sganga, passando da moments musicaux di pensosa e sospesa szymborskità (qualche “settima diminuita” lascia irrisolto l’accordo e la vita) a un danzante rag time che accompagna alcuni deliziosi nonsenses.

Poesie celebri e meno note, alcune inedite, sono state intrecciate sapientemente con estratti dalle lettere, tutte ancora sconosciute (la versione è di Luigi Marinelli), che per anni Wisława Szymborska scambiò con Kornel Filipowic, e con alcuni dei trascinanti limericks composti dalla poetessa durante i viaggi (tradotti da Andrea Ceccherelli). Ormai la “voce italiana” della «signora Wisława» è, e resterà, quella della nostra migliore attrice, Maddalena Crippa, protagonista in spettacoli classici (la Pentesilea di Kleist, Riccardo II di Shakespeare e i Demòni di Dostojevskij, tutti sapientemente guidati da Peter Stein) e lettrice-ermeneuta di poeti (nell’Armida di Tasso, prodotta dal Teatro Pubblico Ligure, grida e seduce, sibila e incanta, e il canto si fa scaglia dorata e squama pisciforme incarnando Proteo, ambiguo dio ermetico dell’indistinzione delle forme, come solo una grande voce può fare).

Ma l’operazione culturale che il Teatro Pubblico Ligure ha deciso di coordinare è assai più articolata. In parallelo con lo spettacolo teatrale Sergio Maifredi, con i dioscuri Luigi Marinelli e Andrea Ceccherelli, ha curato una splendida esposizione al Museo d’arte contemporanea di Villa Croce a Genova, La gioia di scrivere, aperta il 16 giugno e prorogata, per il grande riscontro di pubblico, fino a domenica 17 settembre 2023. Oltre a una documentazione fotografica divertente e rara, in consonanza perfetta con lo stile della Szymborska, vengono presentati i giocosi collages verbali della poetessa, un arcobaleno di invenzione e di ironia (lei li chiamava wyklejanki, cioè «ritaglini»), e alcuni eleganti disegni a matita per la plaquette dal titolo meraviglioso La fiera dei miracoli firmati dall’artista polacca Alina Kalczyńska, che come gli organizzatori della mostra genovese dimostrano con precisa filologia documentaria, fu la vera “scopritrice” della Szymborska in Italia. Alina fu moglie del grande editore Vanni Scheiwiller, e proprio lui, su suggerimento di Alina, pubblicò Gente sul ponte qualche mese prima del Nobel, quando nessuno conosceva la Szymborska da noi. In due video colmi di intelligenza e di reciproca stima Wisława Szymborska e Woody Allen dialogano a distanza, sommando due energie ironiche con un identico senso del gioco, del divertimento, dell’appassionata e lievemente distaccata partecipazione alla realtà “così com’è”.

La traversata delle sale di Villa Croce, accompagnata da un centinaio di “etichette” segnavia che sulle pareti scandiscono suoi magnifici versi-aforismi, si trasforma nell’esplorazione di un impensato continente-Szymborska, condotti dalla leggerezza intelligente e piena di sorriso della poetessa e dal sicuro timone dei suoi esegeti di oggi: Sergio Maifredi, Luigi Marinelli, Andrea Ceccherelli, e dietro di loro Pietro Marchesani (scomparso nel 2011), maestri di sofisticata giocolerìa teatrale e di filologia testuale-interpretativa di alta caratura.

   ***

«Poetry is a pheasant disappearing in the brush», «La poesia è un fagiano che scompare nel sottobosco», nell’allegoria di uno fra i più celebri Adagia di Wallace Stevens; e già in Like Decorations in a Nigger Cemetery (1935): «the hunter shouts as the pheasant falls», «il cacciatore grida mentre il fagiano cade». Più nascosta e speculare, in «Il fagiano» del Franco cacciatore di Giorgio Caproni (il quale lesse, ipotizzo, forse la magnifica versione di Mattino domenicale realizzata da Renato Poggioli del 1954, dove «Dorme a lungo il fagiano, e fino a tardi…»), la quête dell’inattesa preda-cacciatore: «Cercavo il “fagiano”. / O forse, era il “fagiano” / a cercar me?»; e già nel Muro della terra: «È là / in quella rara conca dove / (raro) il fagiano appare / nel bosco, che ora / vorrei finire la partita». È ancora la dantesca redolens pantera «quam sequimur», che (diceva Andrea Zanzotto) «non si fa prendere neanche per la coda», come la sillaba poetica «veniente», il «logos che resta sempre “erchómenos”». Una sola, variegata immagine metafisica attraversa la poesia di metà Novecento: ed è figura vivente, selvaggia, imprendibile, dell’apparizione fulminea della poesia, del suo immediato farsi vibrante scrittura.

In una magnifica poesia uscita nel 1967 raccolta in Uno spasso, e che ha dato il titolo alla collezione di Tutte le poesie (1945-2009), La gioia di scrivere (Adelphi 2009), tradotta da Pietro Marchesani con straordinaria consonanza ritmica e musicale, capace di creare armonia semiotica e semantica fra due lingue così diverse, Wisława Szymborska scova una cerva che corre nel bosco della scrittura mentre lei la sta inseguendo/inscrivendo nella mente:

Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto?
Ad abbeverarsi a un’acqua scritta
che riflette il suo musetto come carta carbone?
Perché alza la testa, sente forse qualcosa?
Poggiata su esili zampe prese in prestito dalla verità,
da sotto le mie dita drizza le orecchie.
Silenzio – anche questa parola fruscia sulla carta
e scosta
i rami generati dalla parola «bosco».

[…]
In una goccia d’inchiostro c’è una buona scorta
di cacciatori con l’occhio al mirino,
pronti a correr giù per la ripida penna,
a circondare la cerva, a puntare.

[…]
C’è dunque un mondo
di cui reggo le sorti indipendenti?
Un tempo che lego con catene di segni?
Un esistere a mio comando incessante?
La gioia di scrivere.
Il potere di perpetuare.
La vendetta d’una mano mortale.

«La gioia di scrivere», «il potere di perpetuare», sono l’energia leggera e tenace della «cerva scritta» che corre nel «bosco scritto» ad «abbeverarsi a un’acqua scritta». Là si rispecchia questa fiabesca cerva-lingua, la poesia-cerva che «drizza le orecchie» «da sotto le dita» della Szymborska. E il riflesso nell’«acqua scritta» è la straordinaria versione di Pietro Marchesani, “il” suo traduttore, a cui è stato concesso «il potere di perpetuare» quella poesia-cerva, quella cerva-lingua nello specchio dell’italiano. Perfetta, essa è uno dei miracoli sublimi dell’arte di tradurre riuscendo a far “sopravvivere” nella nuova lingua l’originale sbocciato in quell’equilibrato miracolo che Paul Valéry definiva «hésitation prolongée entre le son et le sens». Credo che descrivano questo equilibrio, involontariamente, i versi della Szymborska che chiudono Nulla due volte: «Cercheremo un’armonia, / sorridenti, fra le braccia, / anche se siamo diversi / come due gocce d’acqua». In una delle rare interviste, concessa a Federica K. Clementi e pubblicata in Adelphiana 3 nel 2004, Wisława Szymborska (io credo pensando in primo luogo alle traduzioni di Marchesani) disse che «ogni autore vorrebbe prima di tutto che una sua poesia tradotta in una lingua straniera suonasse come se fosse stata scritta in quella lingua – italiano, inglese o tedesco che sia… L’importante è che il testo non contenga nulla di falso, o di artificioso, e chi lo legge, o lo recita, non salti su dicendo: “Ah, ah! è una traduzione”. La naturalità è indispensabile». Nella voce strepitosa di Maddalena Crippa, e in quella intima che risuona in ogni lettore, le rime e i ritmi, le sillabe e le acutezze della Szymborska suonano come se lei stessa le avesse scritta in italiano. Riflesse nella lingua di Marchesani, sono due gocce d’acqua.

Diversi e identici «come due gocce d’acqua», i versi polacchi e quelli italiani si richiamano dalla pagina di sinistra a quella di destra, e viceversa, un’energia verbale e mentale, fonetica e semantica, lungo un unico campo di tensione. Così ad esempio, in Compleanno, Pietro Marchesani, volgendo i groppi consonantici del polacco nelle sonore campanelle vocali dell’italiano, restituisce con leggerezza alla luce e alla voce (seducente, incantevole l’interpretazione di Maddalena Crippa) il fitto tappeto di rime, assonanze, allitterazioni che il non specialista riesce appena a sfiorare con l’orecchio nell’impenetrabile originale:

Tyle naraz świata ze wszystkich stron świata:
moreny, mureny i morza i zorze,
i ogień i ogon i orzeł i orzech –
jak ja to ustawię, gdzie ja to położę?
Te chaszcze i paszcze i leszcze i deszcze,
Bodziszki, modliszki – gdzie ja to pomieszczę?
Motyle, goryle, beryle i trele –
Dziękuję, to chyba o wiele za wiele.

[…]
Tanto mondo a un tratto da tutto il mondo:
morene, murene e marosi e mimose,
e il fuoco e il fuco e il falco e il frutto –
come e dove potrò mettere il tutto?
Queste foglie e scaglie, questi merli e tarli,
lamponi e scorpioni – dove sistemarli?
Lapilli, mirtilli, berilli e zampilli –
grazie, ma ce n’è fin sopra i capelli.
[…]

Possiamo dirlo con leggerezza riconoscente, in questo 2023 in cui si festeggia il centenario di Wisława Szymborska: «la signora Wisława» è diventata un’altissima voce della poesia italiana. E ciò è avvenuto grazie alla fatica sensibilissima di traghettatore linguistico che si sono assunti prima Pietro Marchesani, e dopo la sua scomparsa (2011) i due polonisti che ne hanno preso il testimone con fedeltà, passione e raffinata cultura: Andrea Ceccherelli, a cui si devono le versioni di Canzone nera (Adelphi 2022), la raccolta delle composizioni giovanili (1944-48) rimasta inedita fino a tempi recenti, e di Nulla di ordinario. Su Wisława Szymborska (Adelphi 2019), libro traboccante di umori e di novità composto da Michał Rusinek, che fu suo “segretario” per 15 anni); e con lui Luigi Marinelli, il quale ha appena tradotto le lettere, inedite finora anche in polacco, che per anni Wisława si scambiò con il suo grande amore de lonh, Kornel Filipowic.

La lingua italiana è da sempre lingua dell’accoglienza. La nostra cultura è, su un ampio orizzonte internazionale, quella che ha accolto con maggiore fedeltà, con affettuoso rispetto e armoniosa consonanza, la voce della poetessa che ci ha offerto miracolosi «attimi, fissati e colti nel grande fiume del divenire del mondo» (Pietro Marchesani), sempre conservando, con umanesimo laico e spirituale insieme, la compassione che stringe l’“io” al “noi”: «Nelle sue poesie ciò che accade, accade semplicemente all’uomo, e il suo “io” è sempre “io”, uomo, e non “io”, Wisława Szymborska» (Włodzimierz Bolecki). Così nel finale di Ogni caso:

[…]
Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.

«Ascolta / come mi batte forte il tuo cuore»: questo verso, scelto da Sergio Maifredi come titolo dello splendido spettacolo interpretato da Maddalena Crippa, Andrea Nicolini e accompagnato sul pentagramma da Michele Sganga, ha come altri della Szymborska la potenza cosmica di un aforisma sentenzioso e innamorato: “io” e “tu” diventa “noi” nel battito forte del cuore, in un lago di stupore e di silenzio. Si leggano anche i primi e gli ultimi versi dal Discorso all’Ufficio oggetti smarriti:

[…]
Mi si è spenta per sempre qualche stella, svanita.
Mi si è sprofondata nel mare un’isola, e un’altra.
Non so neanche dove mai ho lasciato gli artigli,
chi gira nella mia pelliccia, chi abita il mio
guscio.

[…]
Perduto, smarrito, ai quattro venti se n’è volato.
Mi stupisco io stessa del poco di me che è restato:
una persona singola per ora di genere umano,
che ha perso solo ieri l’ombrello sul treno.

Miracoli del genere, nella nostra lirica, si sono manifestati soltanto, e in diversa pronuncia, con Giacomo Leopardi e Giorgio Caproni, autori che Marchesani amava e di cui si è nutrito. E nella voce della “sua” e ormai “nostra” Szymborska italiana si sente risuonare, sotterranea, forse inconsapevole, una certa sentenziosità aforistica, ironica e musicale, allegorico-figurale, tipicamente caproniana. Altra questione, da dimostrarsi altrove, è quella affascinante di una possibile conoscenza diretta della Szymborska (come anche di Stevens), da parte di Caproni. Ipotizzo, per ora, che Caproni abbia potuto leggere le sette poesie raccolte nell’antologia (Poeti polacchi contemporanei) curata da Carlo Verdiani per l’editore Silva nel 1961, di cui una copia è esposta nella mostra genovese di Villa Croce. Pochissimi esempi, fulminei, di un’affinità segreta, intima, delle loro poetiche (li traggo da Il franco cacciatore, del 1982): «Ero solo. Andavo. / Seguivo una buia viottola. / Mi batteva il cuore. Ascoltavo / (non c’era altra voce) la nottola» (La nottola); «Le parole. Già. / Dissolvono l’oggetto. // Come la nebbia gli alberi, / il fiume: il traghetto» (Le parole); «Uccidilo. È il tuo uccisore. / Uccidilo appena t’avrà ucciso. / Ti ci vorrà poco a piantargli / la lama della sua morte in viso» (Rivalsa); «Guardava il bicchiere. Fisso. / Quasi da ridurlo in schegge. / Sapeva che il bicchiere dura / più di chi in mano lo regge?» (All’osteria). A questi ultimi versi così intimamente caproniani pensavo, ascoltando la voce szymborskiana di Maddalena Crippa mentre sul palco scandiva, tagliente, le Domande poste a me stessa: «Il bicchiere era sul tavolo / e nessuno lo ha notato, finché non è caduto / per un gesto distratto». La stessa metafisica inscritta nel quotidiano che, facendo ruotare l’allegoria della morte intorno alla figura del fragile bicchiere tintinnante per il «tremitío tra i denti» al passare del «tram», «nei vapori d’un bar / all’alba» («amore mio che inverno / lungo e che brivido attenderti!»), Caproni già nel 1946 introduceva in quel capolavoro che è il sonetto Alba, approdato nel 1968 ad aprire Il «Terzo libro» e altre cose:

[…]
Amore, io ho fermo
il polso; e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitío tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, già attendo la morte!

La voce polacca-italiana di Wisława Szymborska, ironica e tenace, affettuosa e arguta, sentenziosa e incantata, è soprattutto colma di stupefazione dinanzi al miracolo del mondo, così com’è. Lo disse lei stessa durante il discorso tenuto a Stoccolma per il conferimento del premio Nobel, nel 1996 (Il poeta e il mondo): «Il mondo, qualunque cosa noi ne pensiamo, spaventati dalla sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte a esso, amareggiati dalla sua indifferenza […] qualunque cosa noi pensiamo dei suoi spazi attraversati dalle radiazioni delle stelle […] – questo mondo è stupefacente. […] Ma nella definizione “stupefacente” si cela una sorta di tranello logico. Dopotutto ci stupisce ciò che si discosta da una qualche norma nota e generalmente accettata, da una qualche ovvietà alla quale siamo abituati. Ebbene, un simile mondo ovvio non esiste affatto, il nostro stupore esiste di per se stesso e non deriva da paragoni con alcunché». «È dallo stupore che sorge il bisogno di parole», scrive ancora Szymborska in Cucire la bandiera. Un simile stupore, commenta Pietro Marchesani nell’Introduzione a La gioia di scrivere, riconduce all’incanto dell’infanzia, della scoperta delle cose, della loro “prima volta”: quel restare stupefatti che, sosteneva Aristotele, apre la mente alla filosofia.

Bobi Bazlen parlava di primavoltità: ed è il tempo del mito, quell’intemporale in cui le cose “sono già da sempre avvenute” prima che il tempo esistesse e le toccasse; quel tempo in cui il mondo è “fondato” nel suo essere così come è nella realtà, giacché «il mito non spiega, per un bisogno intellettuale, le cose […], ma le fonda, conferendo loro valore» (Angelo Brelich). La stupefazione di questa splendida voce poetica di fronte alla «meravigliosa normalità del mondo» (così l’ha definita Michał Rusinek) rinomina le cose, le ribattezza. Essa nasce, dice ancora Rusinek, dalla necessità di fermarsi in primo luogo «sulla letteralità, sulla materialità del mondo». Di fronte all’universo, certo, noi umani siamo «spaventati dalla sua immensità e dalla nostra impotenza di fronte a esso, amareggiati dalla sua indifferenza». Rimaniamo in disparte, affascinati e sconvolti, mentre le “cose” si disinteressano di noi, anzi non conoscono neppure la nostra esistenza, come la Natura leopardiana nel dialogo con l’Islandese, e come il famoso Granello di sabbia, che «non si sente né guardato né toccato» dai nostri occhi, dalle nostre mani, e continua ad “esserci” senza alcun interesse a sapere di “essere”, indifferente a tutto, anche a sé stesso. È solo il nostro sguardo infantile, incantato e sgranato di fronte allo splendore dell’essere, a rivelare il segreto.

Pietro Marchesani ha ricordato un bellissimo scritto di Elémire Zolla (che come lui aveva insegnato all’Università di Genova), Lo stupore infantile: «Quasi tutti passano la vita intera vedendo d’attorno null’altro che un suolo miserando e inerte, la vita quotidiana strumentale, irretita nelle categorie note, recintata in ogni minimo aspetto. Eppure qualcuno fa eccezione. Rarissimo, isolato nell’interiorità, sa affondare fino alle sue iniziali memorie, rivive quei lembi remoti e annebbiati, talvolta ne ricontempla lo splendore».

Marchesani commenta, con straordinario acume: «A questo “qualcuno” sembra vicina Wisława Szymborska, che, come nel buddismo zen, sa percepire il miracolo normale del vivere. […] Da questo stupore e da questa scoperta dell’oggettualità scaturisce – come nell’immobilità della pittura metafisica – una limpida nuova percezione dell’universo, ripulita dalle incrostazioni e deformazioni che hanno reso pesanti le palpebre dell’occhio umano; proprio attraverso la luce folgorante dei singoli particolari all’occhio viene resa, per così dire, la sua sostanza metafisica, che solo la contemplazione e la speculazione più profonda sono in grado di percepire». La poesia della Szymborska accarezza con lo sguardo “le cose” perché vi riconosce il miracolo, l’insolito, un segreto metafisico incapsulato nella loro pelle; e lo fa sbocciare per noi nella scrittura, trasformandolo in parole, in lettere, in ritmo:

Rondine, spina di nube,
àncora dell’aria,
Icaro perfezionato,
frac asceso al cielo,

rondine calligrafia,
lancetta senza minuti,
primo gotico pennuto,
strabismo nell’alto dei cieli,

rondine, silenzio acuto,
lutto festante,
aureola degli amanti,
abbi pietà di noi.

Questa «rondine calligrafia», come la «cerva scritta», è una creatura allegorica sorella del «fagiano» di Wallace Stevens e di Giorgio Caproni, e, come dice benissimo Marchesani, di certi haiku zen, o di certi dipinti metafisici. Andrea Ceccherelli, Luigi Marinelli e Marcello Piacentini hanno dedicato un bel libro dallo sguardo acutamente szymborskiano (Szymborska: un alfabeto del mondo, Donzelli 2016) al resoconto puntuale, scandito per alfabeto, di «un viaggio fra il quotidiano e il sublime, “incanto e disperazione”, “gioia e tristezza”, il gusto del gioco e le sorprese del caso» nell’universo delle “cose” con cui dialoga la Szymborska: la cipolla platonico-kantiana che è «completamente cipolla / fino alla cipollità», la pietra in cui la poetessa vorrebbe entrare ma che la rifiuta, il celebre (da me amatissimo) granello di sabbia che noi «chiamiamo granello di sabbia. / Ma lui non chiama se stesso né granello né sabbia. / Fa a meno di un nome / generale, individuale, / permanente, tempoaneo, / scorretto o corretto. // Del nostro sguardo e tocco non gli importa». Suggerisco, nell’orizzonte della mostra e dello spettacolo, di farsi accompagnare come guide-esploratori dai 21 capitoli di Un alfabeto del mondo, soprattutto da Fugacità, Gioco, Humour, Incanto, Zen, colmi di leggerezza, ironia e novità critiche di notevole calibro.

Quanto ai dipinti metafisici, leggendo la Szymborska (come pure Stevens e Caproni) ascoltandone la voce italiana, penso talvolta alla pittura di Edward Hopper, alle attese derelitte, silenziose che la popolano. Come scrisse Goffredo Fofi, «il “momento”» è «il tema vero di Hopper». Lo è, forse, anche della Szymborska. Alla desolazione hopperiana delle stanze vuote, dei bar scrutati da lontano, delle luci che piovono dal nulla all’interno di case abitate da corpi immobili, bisogna aggiungere il soffio dell’ironia, la battura colma di umorismo, e quello spiazzamento, quella distorsione improvvisa dello sguardo che Viktor Sklovskij definì ostranenie, lo «straniamento» che sferza il lettore costringendolo a uscire dall’«automatismo della percezione». E avremo allora la metafisica quotidiana di Wisława Szymborska, una creaturalità commossa di fronte allo sfrenato moltiplicarsi delle forme, a quella che una nostra magnifica poetessa innamorata della Szymborska (e anche di Hopper), Antonella Anedda, ha definito «la vita dei dettagli», collages interiori composti di frammenti di quadri, di parole, di luoghi, fantasmi di oggetti che emergono per colmare l’assenza delle “cose reali” (La vita dei dettagli. Scomporre quadri, immaginare mondi, Donzelli 2009).

In cuor mio, pur non vedendo mai emergere nella critica questi accostamenti, ho sempre affratellato l’ironica “oggettività” di Wisława Szymborska alla gelida scoperta del «senso ordinario delle cose» (The Plain Sense of Things), della «mere objectiveness of things» (Note on Moonlight) e del rifiuto di ogni idealismo (Not Ideas about the Thing but the Thing Itself) rivelato dall’«angel of reality» (Angel Surrounded by Paysans) di Wallace Stevens, ed anche alla «felicità rattenuta ma pienamente goduta» con cui egli descrive, come ha visto finemente Massimo Bacigalupo, i «miracoli comuni», ossia la banale quotidianità delle “cose come sono”, ponendo come paradossale scopo della poesia di «inventare il mondo che c’è» (Wallace Stevens, Il mondo come meditazione, a cura di M. Bacigalupo, Guanda 1998): così nelle Notes Toward a Supreme Fiction, in Transport to Summer: «La poesia, col candore, ci riporta / una potenza che dà candore a tutto».

Molte poesie di Stevens, scrive ancora Bacigalupo, muovono «dalla negazione all’affermazione. Trionfa il vuoto, l’assenza, l’autunno, la vecchiaia, il sonno, ma poi qualcosa si ribella e il mondo si ricompone nell’immaginazione, così com’è, ma posseduto, conosciuto. Nasce l’inno, la parola si fa sicura e potente, la retorica piega la realtà. Quasi è difficile a Stevens conservare l’umiltà e la povertà da cui era partito, senza le quali, ci dice, non ci sarebbe la forza, l’angelo necessario». Nelle liriche come negli Adagia il grande Stevens proclama che «almeno nella poesia l’immaginazione non deve distaccarsi dalla realtà», e che «la poesia accresce il senso della realtà», e che «la mente è la cosa più potente nel mondo», e che «viviamo nella mente», e che «il poeta sente abbondantemente la poesia di tutte le cose», e che «il mondo è me stesso. La vita è me stesso», e che «la poesia è un mezzo di redenzione». In quel filosofico poemetto che è The Man with the Blue Guitar, che sembra ispirato a un quadro di Picasso, dominano la fenomenologia, l’esistenzialismo, Mallarmé e Valéry: «Poetry is the subject of the poem» (la versione è di Renato Poggioli):

La poesia è il tema del poema.
Da ciò il poema ha origine ed a ciò

Fa ritorno. Fra questi due estremi,
Fra origine e ritorno,

C’è un’assenza in realtà,
Le cose come sono. O così pare.

Nella parola e perfino nella poesia, per Stevens, mancano “le cose”, «things as they are». Quando «alle cose si rompe la crosta» la poesia sembra toccarle intimamente, coglierle come il noumeno kantiano, pensabile ma non percepibile: ed è il kantismo trascendentale della Szymborska. Ma proprio qui si genera la frattura, il divario fra due poeti che posseggono un profondo «senso cosmico» (così Poggioli scriveva nel 1953 presentando Mattino domenicale e altre poesie di Stevens), l’americano dallo scetticismo «anche più estremo di Valéry» (ancora Poggioli) e l’europea il cui umorismo è umore creaturale, laicissimo francescanesimo che sente fratelli e sorelle le cose, mentre sorride della loro irriducibile estraneità. L’ironia, lo «spasso», il sorriso fanciullesco di fronte alla varietà innumerevole del mondo, della vita che va vissuta così come è, nella Szymborska non si traduce mai in quello che Bacigalupo, parlando di Stevens, chiama «grande stile»: ma piuttosto in un continuo, leggerissimo gioco a rimpiattino con le cose trasformate in consonanti, vocali, sillabe, in un minimalismo compassionevole verso la comune natura dell’uomo e delle cose, in contrasto con l’antropocentrismo imperante.

Pietro Marchesani sottolinea come nella poesia della Szymborska mai si traduca in angoscia o in disperazione «il metafisico stupore della creatura umana “una sola volta, a caso, sulla terra”, consapevole della brevità della propria esistenza – che non è per nulla “normale”, ma rappresenta al contrario una sorta di miracolo, una pausa nella “non esistenza”, un “Intervallo nell’infinito per il cielo sconfinato” (Il Nulla si è rivoltato anche per me)». In questa poesia vibra la stupefazione di quella che Nicoletta Di Vita ha chiamato, a proposito dell’Inno, «una apertura prima al dire, […] il luogo in cui il linguaggio sembra guardare verso se stesso, […] il luogo dell’emergere della voce» (Il nome e la voce. Per una filosofia dell’inno, Neri Pozza 2022). Questo è l’attimo in cui le “cose” sembrano svelarsi da sole, in una nuova percezione dell’universo, in cui è il Singolo, il Particolare, il Dettaglio, ad assumere il senso dell’intera realtà. L’Uomo rimane in disparte, mentre le cose si disinteressano di lui, non ne conoscono neppure l’esistenza, come la Natura leopardiana nel dialogo con l’Islandese.

Vorrei che tutti voi che leggete poteste percepirla questa emersione-saetta della Cosa lancinante e risibile, estranea ma teneramente intima, buffa e surreale, attraverso la voce di Maddalena Crippa mentre, giocherellando con grande serietà, trasforma il polacco-italiano di Szymborska-Marchesani in un romanesco e in un brianzolo degni di Gadda, e «rompe la crosta» alla più banale delle “cose”:

La cipolla

La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.

In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d’inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.

Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.

La cipolla, d’accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezione.
E a noi resta negata
l’idiozia della perfezione.

corrado.bologna@sns.it

L'autore

Corrado Bologna
Corrado Bologna
Corrado Bologna ha insegnato Filologia romanza in diverse Università italiane e straniere, e Letterature romanze medioevali e moderne alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha pubblicato numerosi saggi sui principali autori delle letterature europee. Il suo ultimo libro è Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Luca Sossella, Roma 2022.