Wednesday, February 28th, 5 a.m.
Dearly beloved: It’s extremely wonderful to have someone to love and do things for. Now that you are far away from me, it has brought a new dimension to my love for you, and I find myself overflowing with each thought of you, with all the things I want to do and buy for you and send you and surprise you with. I’ve already sent you one package, and you can expect some more surprises. I hope you are well and taking care of yourself […] I caught a cold yesterday while practicing at the club. I was in the basement while the others were rehearsing upstairs. […] Anyway, I am now lying in bed with a sniffling nose and no Vicks. I did get some Vitamin C and an inhaler before going to work, and I should be over this shortly. […] Well, baby, I must get under the covers of my king-sized bed and get some rest, so write soon.
Love Sonny.
“Mia adorata” è Lucille, compagna di vita di Sonny Rollins, leggenda vivente nel mondo del jazz: si tratta di una lettera risalente al 1962 e proveniente dall’archivio Sonny Rollins Papers (Box 105, Folder 5), acquisito dallo Schomburg Center (Ted Panken, “Schomburg Center Acquires Sonny Rollins Archive”, DownBeat, 9 giugno 2017).
Rollins incontra Lucille Pearson (1928-2004) – amore e luce della sua vita – a Chicago, dopo la guarigione, nel 1957. Una condivisione di anime lunga 47 anni, che spazia tra sonorità musicali, silenzi e strazi, sorrisi e successi, in quanto lei – l’adorata – diviene a un certo punto della sua carriera, nel 1971, sua manager a tempo pieno, e dieci anni dopo, inizia a produrre molti dei suoi album. Si potrebbe addirittura osare ad affermare che non ci sia stata persona più influente di Lucille nella lunga carriera del musicista, figura fondamentale nel fornire a Sonny orientamento professionale e sostegno per cinque decenni, come afferma l’ultimo biografo del musicista, Aidan Levy, nel suo Saxophone Colossus: The Life and Music of Sonny Rollins (Hachette Books 2022), vincitore dell’American Book Award per il 2023, recentemente pubblicato.
Theodore Walter Rollins è il vero nome di Sonny, il “colosso del sassofono”, uno degli improvvisatori e compositori più apprezzati nella storia della musica jazz che oggi compie 93 anni. Nato ad Harlem il 7 settembre 1930 da genitori originari delle Isole Vergini americane, Rollins è cresciuto nel quartiere di Sugar Hill, New York. I suoi primi influencer sono stati Louis Jordan, Coleman Hawkins, Lester Young, Fats Waller e Louis Armstrong; tra gli amici più stretti il batterista Arthur Taylor, il sassofonista Jackie McLean e il pianista Kenny Drew. Riceve solo poche lezioni occasionali sulla tecnica del sassofono, acquisendo quasi tutte le conoscenze di melodia, ritmo e armonia attraverso l’ascolto attento, lunghe ore di improvvisazione e consigli amichevoli da parte di musicisti e di vicini di casa. Un paio di volte alla settimana, durante gli anni della scuola elementare, Sonny Rollins era solito andare a piedi dal suo appartamento sulla 137esima Strada, tra Lenox e la 7th Avenue, alla biblioteca pubblica a due isolati di distanza.
Otto decenni dopo, l’archivio personale di Rollins viene trasferito allo Schomburg Center for Research In Black Culture, che fa parte della New York Public Library, per arricchire il cospicuo patrimonio di materiali afroamericani e aggiungere valore alla missione dell’istituzione: conservare l’eredità del progetto di Arturo Alfonso Schomburg e rivendicare la narrativa e la storia dei popoli neri coinvolti nella diaspora. Ospitato principalmente nella divisione Moving Image and Recorded Sound Division (MIRS), che comprende 400 collezioni all’interno dello Schomburg Center, l’archivio Rollins si unisce alla raccolta del documentario “A Great Day in Harlem”, il progetto Louis Armstrong Jazz Oral History, il carteggio di Don Redman, le collezioni di Billy Taylor, di Ron Carter e della Duke Ellington Society. L’archivio Rollins era talmente vasto che è stato necessario trasferire le fotografie alla Photographs and Prints Division e alcuni manufatti alla Art and Artifacts Division.
I “Sonny Rollins Papers” [SRP: https://archives.nypl.org/] documentano un intervallo di tempo che va dal 1950 al 2014 e offrono uno sguardo intimo, estremamente raro, sui processi mentali di un musicista jazz che parla della sua arte, della sua infinita curiosità, del proprio processo creativo ed esecutivo, della sua carriera e della vita quotidiana. “I manoscritti musicali di Rollins” contengono occasionali annotazioni in prosa, nonché osservazioni filosofiche personali, schizzi, canzoni, composizioni e arrangiamenti di Rollins e di altri musicisti, molti dei quali utilizzati nelle sessioni di registrazione. “Gli scritti di Rollins” includono saggi filosofici, autovalutazioni delle proprie performances, riflessioni sulla musica e sui metodi di studio e di esercitazione, questioni relative alla diteggiatura del sassofono e osservazioni sulla società e sulla politica. “The Business Records”, che costituiscono la parte più ampia della collezione, offrono una visione panoramica dell’avanzamento della carriera di Rollins, i dettagli quotidiani di un musicista jazz che lavora e registra. Lucille Pearson Rollins, la donna che lo ha affiancato per 47 anni e che ha gestito la sua carriera dall’inizio degli anni ’70 fino alla sua morte nel 2004, ha compilato e conservato molti di questi documenti. “Le lettere di Rollins” sono state conservate quasi interamente sulla mail, con l’eccezione delle lettere e delle cartoline indirizzate a Lucille, la maggior parte delle quali risalgono al periodo tra il 1959 e il 1962, spesso scritte tra una performance e l’altra. Vi traspare tutta la sua devozione che prende le pieghe di una prosa squisitamente tenera mentre fornisce istruzioni domestiche e resoconti sulle proprie abitudini di sonno e altri problemi sorti durante le performances e i viaggi: annotazioni che danno parecchi punti di riflessione sulle difficoltà personali dell’icona jazz Sonny Rollins. Tra queste, sono presenti anche alcune lettere di Lucille a Sonny. La maggior parte della corrispondenza con la sua adorata consiste in biglietti di auguri e d’amore nel corso dei decenni. Altre lettere di Rollins includono note a Benny Carter, Jim Hall, Clark Terry, Ben Webster, Phil Schaap, Bill Clinton, Sigurd Rascher e Naima, la moglie di Coltrane. Ci sono anche “file dei premi” a Sonny Rollins con lettere per le presentazioni, per le organizzazioni di viaggi e di fotografie.
“La collezione delle fotografie” dell’archivio SRP conserva una raccolta fotografica particolarmente estesa databile dalla fine degli anni ’40 al 2013: contiene foto di Rollins durante le performances, foto informali, ritratti, foto pubblicitarie e di altre persone. Gli interessi personali di Rollins vengono rivelati attraverso le “collezioni” di opere d’arte (principalmente ritratti di Rollins, creati e inviati in dono da fan e amici, sotto forma di dipinti ad olio, acquerelli, disegni e schizzi), libri (manuali di istruzioni musicali, libri di fotografia jazz, di yoga, dell’ordine rosacrociano), calendari, ritagli di articoli musicali e di eventi di attualità (in particolare riguardanti questioni come il razzismo, l’ingiustizia, l’ambiente, la disuguaglianza e la politica), poster e manifesti, programmi che documentano concerti, cerimonie funebri, conferenze, eventi e un album creato per Rollins da un fan (amico non identificato). Una sezione dell’archivio contiene anche “materiali della famiglia Pearson” (1910 al 1981) in cui viene documentata la vita dei genitori di Lucille, Leonard (1896-1949) e Nanette (1901-1979), così come i primi anni di vita di Lucille. I documenti sono divisi tra una parte cronologica, una sezione per ciascun membro della famiglia Pearson, e diverse fotografie.
“Le registrazioni audio e video”, che risalgono al periodo dal 1962 al 2007 e contengono un’ampia documentazione di Rollins durante le performances dal vivo, sono presenti nella Moving Image and Recorded Sound Division. Se ne contano a centinaia e includono film e video di concerti, trasmissioni radiofoniche, prove, interviste, racconti, riscaldamenti, registrazioni in studio (gran parte delle quali mai commercializzata o trasmessa una sola volta), paragoni tra ance, imboccature e sassofoni, in cui si può vedere il musicista abbracciare il suo sax tenore come fosse un prolungamento della sua persona, come fosse Lucille, l’insostituibile adorata.
I due si conoscono in un periodo in cui viene realizzato uno dei più grandi capolavori jazz: “Saxophone Colossus”, l’album inciso in un sol giorno – il 22 giugno del 1956 – negli studi di Rudy Van Gelder (Hackensack NJ), pubblicato nell’aprile del 1957. Delle cinque tracce sull’album, tre sono accreditate allo stesso Rollins. Il primo brano, “St. Thomas”, è una composizione influenzata dal calypso – genere musicale delle isole dei Caraibi esploso nel 1956 con l’attore, cantante e attivista Harry Belafonte – dedicata al luogo di nascita dei genitori: l’isola di Saint Thomas nelle Isole Vergini americane. Il tema del calypso sarà sempre caro all’erede della cultura caraibica: per l’elemento folcloristico del carnevale nell’isola e per il suo forte contenuto politico.
Basterebbero i quindici minuti e diciannove secondi di visione del concerto live al Harvey Fite’s Opus 40 Saugerties a New York, registrato il 16 agosto 1986, per avere contezza della potenza del “colosso”. Rollins sembra campeggiare in un equilibrio instabile, tra irruenza e serenità, come se ci fosse in lui una opposizione fisica, etica e artistica dell’immobilità. Il concerto all’aperto è inserito nella seconda parte del documentario “Sonny Rollins Saxophone Colossus” (1986), diretto da Robert Mugge e prodotto da Lucille: riflette lo spirito impulsivo dell’artista in delirio durante la performance di “G-Man” col suo quintetto nel cuore della Hudson Valley. Segue una seconda improvvisazione travolgente, in cui Sonny Rollins trabocca energia da tutti i pori interpretando il suo tema preferito, il calypso “Don’t Stop The Carnival”. Nell’altra parte del documentario, il sax di Sonny si libra sopra il pubblico in un sereno lirismo, mettendo in luce la dimensione mistica della sua personalità durante il Concerto per sassofono tenore e orchestra – orchestrato dallo stesso Rollins con Heikki Sarmanto alla direzione della Yomiuri Nippon Symphony Orchestra – in prima assoluta a Tokyo, in Giappone. In questo contesto insolito, l’anima ambivalente di Rollins ha l’occasione di dimostrare le sue doti di originale compositore, influenzato dai ritmi e dalle armonie caraibiche, e di esperto strumentista.
Se si volessero ripercorrere alcune tappe decisive della sua vita per capire il genio di un erede di Harlem bisogna aver presente che “da bambino sentiva sempre della musica, perché sia il fratello che la sorella suonavano; entrambi studiavano alla High School of Music and Art di New York”. A differenza loro, la preparazione di Sonny, che inizia la sua carriera musicale suonando “il pianoforte a 6 anni”, rimane elementare, superficiale, a causa della sua mancanza d’interesse verso gli studi musicali prescritti dalla madre. Decide di “passare al sassofono a 7 o 8 anni” e successivamente sceglie il tenore a 16 anni per emulare l’idolo Coleman Hawkins, afferma in una delle interviste rilasciate a Ted Panken (“It’s Sonny Rollins’ 81st Birthday: Two Interviews from 2000”, Today Is the Question, 7 settembre 2011). Anche Rollins cade sotto l’incantesimo della rivoluzione musicale che lo circonda ma ha il coraggio di privarsi dell’accompagnamento del pianoforte, riducendo il proprio gruppo a un ardito trio di batteria, contrabbasso e sax tenore. Una scelta audace che permette a Sonny di creare un ponte tra il bebop e l’avanguardia, mantenendo un legame duraturo con gli anni d’oro del jazz. Lo prova l’iconica fotografia in bianco e nero “A Great Day in Harlem” di Art Kane (12 agosto 1958). Sonny Rollins è su quei gradini, ha ventotto anni, è vestito di bianco ed è a un passo dalla crisi. La prima. Ne seguirà una seconda, anni dopo. Eppure, la vita dietro le quinte dell’uomo una volta chiamato “l’unico recluso del jazz” è rimasta in gran parte un enigma.
Principalmente autodidatta, Rollins si esibiva già in giro per New York nel 1947. Inizia a seguire Charlie Parker e in seguito entra sotto l’ala protettrice di Thelonious Monk, suo mentore e guru. Il debutto discografico avviene con Babs Gonzales (1949) ma ben presto inizia a lavorare e registrare con luminari del jazz moderno, come J. J. Johnson (1949), Bud Powell (1949). Come molti dei suoi contemporanei, Rollins sviluppa una dipendenza da eroina intorno al 1948, ma negli anni successivi, agli inizi degli anni ’50, continua a suonare e registrare con Miles Davis (1951), il Modern Jazz Quartet (1951), Thelonious Monk (1953), Art Farmer (1954), guadagnandosi la reputazione di musicista ispirato, un “improvvisatore logico”, uno dei migliori della sua generazione.
LOGICAL MUSIC: We have to release the music. We must be constantly alert for the sounds which will release the music.
Thursday, July __
On the initial set, we demonstrated the FACT of this logical music. We played “Dearly Beloved.” “Dearly Beloved” was played in an improvised manner. We utilized certain effects which had been rehearsed in sequence, in no particular sequence, but they were utilized, rather, where the movement dictated. Next we played “Oleo” and we thus concluded that set—short but sweet.
The lessons to be learned are that we as a group are able to function in a collective, intuitive effort, producing improvised music, or, rather, logical music.
Sunday evening: One complete composition was performed in the intuitive logical manner.
La “Dearly Beloved” è la canzone che entrerà nel album “The Sound of Sonny” nel 1957; allusione ulteriore all’adorata Lucille, incontrata dopo un periodo travagliato e buio. Sonny aveva scontato brevi pene detentive per rapine associate alla sua dipendenza all’inizio degli anni ’50. Nella biografia di Erich Nisenson (Open Sky: Sonny Rollins and His World of Improvisation, Da Capo Press, 2000) si racconta che nel 1955 era entrato in un programma di trattamento farmacologico presso il United States Narcotic Farm a Lexington, nel Kentucky. Dopo il recupero della salute, Rollins si trasferisce a Chicago e riemerge alla fine del 1955 come figura autorevole nella scena jazz nel quintetto Clifford Brown – Max Roach Quintet, sostituendo Harold Land. Dopo la morte di Brown nel 1956, Rollins rimane per un breve periodo con Max Roach, per poi mettersi alla guida dei suoi gruppi.
Rollins aveva già registrato tre album come leader prima della guarigione e dell’incontro con Lucille, che sposerà solo nel 1965, ma gli album che registra dal 1955 al 1959 stabiliscono lo standard per il sassofono nel jazz moderno di quell’epoca: “Tenor Madness” (1956), in collaborazione con John Coltrane; “Saxophone Colossus” (1956), il capolavoro dell’artista; “Way Out West” (1957); “Freedom Suite” (1958), il primo album sul tema dei diritti civili dell’era hard bop; “A Night at the Village Vanguard” (1958). Nonostante la popolarità e il rispetto guadagnato da parte di musicisti, critici e pubblico, Rollins diviene insoddisfatto del suo modo di suonare e smette di esibirsi per circa due anni, dal 1959 al 1961, per esercitarsi in solitudine per ben 16 ore al giorno e sviluppare la sua visione musicale. È durante questo periodo sabbatico che Rollins si rifugia sul ponte di Williamsburg. La seconda pausa sabbatica avviene tra il 1968 e il 1971. Si prende del tempo per studiare yoga e religione in India e in Giappone. Durante gli anni ’70 sperimenta il sax soprano e il lyricon (uno strumento a fiato elettronico) ma alla fine torna a concentrarsi sul sassofono tenore. Inizia a registrare nel 1972 per la Milestone Records, dopodiché fonda la sua compagnia: la Doxy Records.
Lucille Rollins assume la gestione della carriera del marito nel 1971 e co-produce i suoi album a partire dal 1982. Nel corso degli anni, Rollins conquista tutti. La fama e la statura acquisita gli permettono di rinunciare a lavorare nei nightclub jazz per esibirsi in spazi e teatri più ampi. Gira per il mondo, con tappe fisse in Europa e Giappone. Nel 1975, Sonny scrive e registra la canzone “Lucille”, apparsa nell’album “Nucleus”. Lucille, che suona il campanaccio e appare in alcune canzoni – “Reel Life” (1982) e “Sunny Days, Starry Nights” (1984) – muore il 27 novembre 2004, all’età di 76 anni. “Sonny, Please” (2006), l’album registrato dopo la morte dell’adorata, riprende una sua frase. L’album è un tributo a lei; Lucille fa ancora parte di tutto ciò che lui fa, dirà più avanti.
Dai documenti archiviati allo Schomburg Center si scopre che Rollins ha seguito un programma di assiduo esercizio e ricerca armonica per tutta la sua carriera, seguendo un cammino personale di perfezionamento fisico, intellettuale e spirituale. Ciò che sorprende è che nel corso dei vari decenni di tournée e registrazioni pressoché costanti abbia mantenuto un’altra pratica disciplinata: oltre all’avida lettura di testi poetici, politici, religiosi, di fisica e di antropologia coltiva un fervente interesse per la scrittura.
Parlando di studi sulle teorie musicali, di composizione e di improvvisazione, Sonny Rollins si è definito “un primitivo”: un’allusione alle sue origini caraibiche – approfondite dagli studi di antropologia (SRP: Box 2, Folder 7) – che il musicista associa al concetto di “intuitivo, naturale, spirituale”, relazionato alla storia della musica jazz afroamericana. Un “non civilizzato”, i cui brani sono ispirati dal “flusso di coscienza” in mancanza di una adeguata istruzione musicale. A Larry Applebaum confessa di non essere mai andato al conservatorio (“Smithsonian Jazz Oral History Program”, 28 febbraio 2011) e durante un’intervista con Arun Rath (“Sonny Rollins: ‘You Can’t Think and Play at the Same Time”, All Things Considered, NPR, 3 maggio 2014) ribadisce che quando suona, quello che cerca di fare è raggiungere il livello del suo subconscio. Questo concetto della musica che trabocca dal subconscio induce a riflettere sui processi creativi e su “the dynamic scientific engagements and experiments of black writers, performers, artists, and other cultural producers who mobilized natural science and produced alternative knowledges in the quest for and name of freedom” analizzati attraverso la “fugitive music theory” in uno studio di Marc Edward Hannaford (“One Line, Many Views: Perspectives on Music Theory, Composition, and Improvisation through the Work of Muhal Richard Abrams” (PhD diss., Columbia University, 2019).
Tenendosi alla larga dal concetto di “protesta sociale” o di “musica negra”, Rollins dichiara che il jazz incarna l’ideale americano (SRP: Box 2, Folder 7): “Jazz is the embodiment of the American Ideal”. Prosegue affermando che “the idiom is in reality the Music of America, by Americans, + for edification of all Mankind” […] “Who can deny that the greatest of any music is of a oneness which transcends period, style, country, etc.…Any definition which seeks to separate Johann Sebastian Bach from Miles Davis is defeating its own purpose of clarification. Thus we shall now hereafter and henceforth integrate if you will the word jazz into the word music”. “Integrarsi” – se vogliamo proprio dirla tutta – è sempre stata la mission di Sonny Rollins.
In un brillante studio di Benjamin Givan ( “Sonny Rollins’s Musical Thought: Rhetoric, Reticence, and Reality” The journal of Musicology (2023) 40 (1): 1–33) comprendiamo che le attività musicali dell’epoca – l’esercitazione quotidiana al sassofono insieme ai suoi studi sulle scale, sull’armonia, sulla fisica e la metafisica del suono, nonché sulla fisiologia del controllo del respiro – possono essere adeguatamente comprese solo nel contesto del suo poliedrico impegno per una decisa affermazione di sé. Givan chiarisce quanto il pensiero analitico di Rollins, che si nasconde dietro alle conoscenze, alle abilità subconsce e alla reincarnazione, vada ben oltre il concetto di “primitivo” o “intuitivo” dell’improvvisazione. “È la tecnica dell’improvvisazione”, ammette il sassofonista in una intervista (“Sonny Rollins: Art Never Dies”, New York Times, 18 maggio 2020), “che permette di fare qualsiasi cosa, mettendo in gioco l’intuizione e l’arte”. Visto da una prospettiva oggettiva, l’attività di scrittura segreta non viene coltivata solo come un mezzo funzionale alla testimonianza di una particolare visione artistica ma come un elemento necessario ed essenziale nella sua ricerca di autodisciplina; ergo, nella sua ricerca di libertà.
Si immerge nei libri di insegnamento per sassofono classico, annotando molti passaggi con sottolineature e commenti ai consigli di postura di Paul De Ville in Universal Method for the Saxophone (New York: Carl Fischer, 1908; SRP: Box 4, Folder 3), come “The head and body must be kept erect” al quale Rollins aggiunge “check this position with other saxmen and note their reaction to it”. Al consiglio di de Ville “do not practice too long at one time”, Rollins aggiunge “Don’t go beyond where you get a bang out of playing. Each day is different”. Conoscere i brividi che la musica dà, sapere i limiti, e non oltrepassarli: anche queste sono forme di libertà. Con il virtuoso Sigurd Rascher, autore di Top-Tones for the Saxophone: Daily Embouchure Drills and Four-Octave Studies (1941), Rollins mantiene una fitta corrispondenza (SRP: Box 110, Folder 1) fino alla morte di lui nel 2001. Il testo del virtuoso utilizzato da Rollins per l’esercitazione degli armonici fino al 1993 è l’edizione rivisitata (New York: Carl Fischer, 1961; SRP: Box 5, Folder 1), servito da manuale di costante consultazione per i parallelismi e per le differenze tra la musica classica e quella jazz.
Si può notare come i libri abbiano rappresentato per il musicista un vero modello pedagogico tanto che, durante i primi anni ’60, pensa persino di scrivere il proprio manuale di sassofono, prendendo in considerazione titoli come First Rules for Saxophone e Saxophone First Rules: A Student Guide (SRP: Box 2, Folder 1). Tra gli elementi fondamentali della musica per sassofono, l’intonazione riceve la maggior attenzione nei manoscritti risalenti agli anni ’60. Sebbene l’armonia non venga affatto ignorata, la sua attenzione si concentra sull’intonazione lineare, principalmente sui modelli e le scale melodiche. Scriveva metodicamente a mano tutte le scale maggiori e minori in chiave di violino, prendendo appunti per esercitarsi sul suo strumento (SRP: Box 4, Folder 1). Rollins considerava le scale non solo come ginnastica ritmica per le dita ma anche come possibili fonti di creatività, come già avevano fatto Miles Davis e John Coltrane con i trattati sulle scale di George Russell, The Lydian Chromatic Concept of Tonal Organization for Improvisation, 2a ed. (Cambridge, MA: Concept Music, 1959) e di Nicolas Slonimsky, Thesaurus of Scales and Melodic Patterns (New York: Scribner’s, 1947).
Nello studio delle scale, Benjamin Givan afferma che Rollins potrebbe aver consultato il libro del compositore classico Vincent Persichetti del 1961, Twentieth-Century Harmony: Creative Aspects and Practice (New York: W. W. Norton, 1961). Sorprende la particolarità di un manoscritto sulle scale sintetiche (SRP: Box 4, Folder 2) che elenca con delle lettere due delle quattordici scale che compaiono in una figura del testo di Persichetti, intitolato “Synthetic Scale Formations” (Norton 1961). Una è una raccolta ottotonica (chiamata “Simmetrica” da Persichetti) che Rollins utilizzava occasionalmente mentre improvvisava. L’altra, che il sassofonista trascrive in diverse trasposizioni, è quella che Persichetti definiva una scala “sovratonale” (e.g. Do, RE, MI, FA♯, SOL, LA, SI♭, DO; comunemente detta anche “scala acustica”); accanto ad esso Rollins annota e segna un frammento melodico dal terzo movimento della Sonata per due pianoforti e percussioni di Béla Bartók (1937).
Rollins studia in maniera approfondita gli intervalli musicali in relazione alle scale. I suoi appunti contengono riferimenti ai rapporti di frequenza delle onde sonore e, nell’annotazione di un rigo, varie serie di intonazione generate da singoli intervalli successivamente reiterati (quinte perfette, seste maggiori, settime maggiori e settime minori) con la nota “exercise this daily” (SRP: Box 3, Folder 4; e Box 4, Folder 4), ma gli intervalli erano principalmente brevi pattern melodici tipicamente trasposti in sequenza come esercizi nei manuali di improvvisazione jazz dell’epoca.
Come molti musicisti, scrittori e pittori dell’epoca, a partire dal movimento simbolista europeo del diciannovesimo secolo, Rollins era incuriosito dalla corrispondenza suono – colore. Queste tipologie di equivalenze auditivo-visive, manifestate come esperienze sinestetiche durante una “cross-modal sensory experience” sono state ampiamente teorizzate all’interno dell’Antico Ordine Mistico Rosae Crucis (AMORC), che aveva attratto l’interesse del sassofonista all’epoca. Rollins elenca queste corrispondenze in una tabella scritta a mano (SRP: Box 4, Folder 3) intitolata “Musical Keyboard’s Relation to Colors” apponendovi l’emblema AMORC a sinistra della sua dicitura e attaccandovi una ruota dei colori dipinta a mano. Una nota di suo pugno all’inizio del 1963 elenca diverse relazioni “alla Don Cherry”, il trombettista del Don Cherry Quartet: “orange_E, red_A, blue_A♭, green_D, yellow_F♯, violet_E♭” [arancione_Mi, rosso_La, blu_La♭, verde_Re, giallo_Fa♯, viola_Mi♭]. Scrive anche a mano una tabella in cui elenca, in colonne separate, le relazioni tra i colori dell’arcobaleno e le note musicali postulate da Isaac Newton, la teoria musicale di Nikolaj Rimskij-Korsakov e la sinestesia nella poetica di Alexander Skrjabin assieme allo schema AMORC (SRP: Box 4, Folder 1).
La curiosità intellettuale che porta Rollins a esplorare un terreno così astratto lo conduce anche verso le teorie esoteriche della Healing Color. Una tabella scritta a mano (SRP: Box 22, Folder 1) che collega il suono a “color,” “nervous reaction,” e “perfume”, include un riferimento all’opera di Roland Hunt, autore di The Seven Keys to Colour Healing (Ashingdon: C. W. Daniel 1954), e alla scienza dell’acustica musicale. Le sue annotazioni scritte a mano includono un elenco bibliografico del libro di Hermann Helmholtz, On the Sensations of Tone, insieme ai libri sull’acustica dell’inizio e della metà del XX secolo di Alexander Wood, Charles A. Culver e Harry F. Olson (SRP: Box 3, Folder 1). Si nota come Rollins abbia studiato la fisica della musica e del suono con una certa diligenza, prendendo appunti su argomenti come la velocità delle onde sonore, la frequenze dell’intonazione DO♮ a varie ottave, e la distinzione tra suono musicale e “rumore” (SRP: Box 2, Folder 6; e Box 3, Folder 1), basati sul primo capitolo di Alexander Wood, The Physical Basis of Music (Cambridge: 1913; Cambridge University Press, 1925), come rivelato nell’articolo di George T. Simon, “A Horn Silenced for Discipline” sul New York Herald Tribune (3 dicembre 1961).
Rollins adotta anche una prospettiva scientifica sugli aspetti fisiologici della musicalità, come l’udito e la respirazione. I suoi appunti sul respiro, che trattano sia la biologia umana che gli aspetti pratici del suonare il sassofono, sono numerosi e comprendono molte pagine di descrizioni tecniche dettagliate e osservazioni da vicino dei lineamenti del proprio viso in uno specchio durante l’inspirazione e l’espirazione. Una specie di autoanalisi, per affinare la propria tecnica strumentale ed eliminare alcuni suoi vezzi, come la cattiva abitudine di fare un respiro veloce prima di suonare o attaccare una nota… “bad habit of taking a quick breath before hitting or attacking a note…eliminate this habit now!!.” I suoi obiettivi erano coordinare meglio la respirazione con la diteggiatura dei tasti del sassofono e perfezionare la tecnica di accentare le note.
La ragione principale per cui Rollins si prodiga nelle pratiche di “increased breathing” era per migliorare il suono del suo sassofono, e quindi del proprio benessere. Durante i primi anni ’60 teneva nel suo appartamento il sassofono, il pianoforte e gli spartiti nella stessa stanza dei bilancieri per il sollevamento pesi, assieme a una tavola inclinata e altre attrezzature per gli esercizi. Considerava entrambe le attività inestricabilmente intrecciate. “Saxophone and Health, the 2 things ‘married’ to each other,” sottolinea come le due attività siano “coniugate” tra di loro: così si legge nell’articolo di Ralph Berton, “Conversations on a Bridge” (Metronome, 1961). Difatti, il sassofonista credeva che suonare con la “increased breathing” (SRP: Box 22, Folder 2) portasse non solo a un maggior benessere, energia e vitalità, ma che apportasse anche “valori terapeutici” (e.g. un aiuto per smettere di fumare e un miglioramento del suono e del fraseggio del sassofono). Allo stesso modo, considerava una buona alimentazione decisamente benefica per il controllo del respiro e per la salute generale. Tutte queste attività avevano una dimensione spirituale: la respirazione e gli esercizi fisici erano elementi essenziali alla pratica yoga.
La devozione spirituale buddista di Rollins, assieme alla disciplina fisica e alle teorie musicali, si integrano perfettamente a servizio di un’arte dall’approccio olistico. Questa visione, che traspare anche in una lettera del 1963 a Rascher, è rafforzata dalla convinzione che “the ‘Requirement of Artistry’ is that one assembles the ingredients of his ‘work’ and ‘profession’ into what may be called a WHOLE…a complete, operating, efficient, functioning entity”. Al concetto di “energia” è associato il “merito” delle pratiche spirituali: l’energia raccolta del merito va incanalata verso un preciso obiettivo stabilito, una ‘risoluzione’ di tipo materiale (e.g. recuperare la salute) o spirituale (e.g. raggiungere l’illuminazione). In tal modo, “l’interconnessione universale è favorita e l’arte non viene mai separata dalla vita di tutti i giorni”, si legge nell’articolo di Simon sul Herald Tribune del 1961.
Anche Gershon in “Saxophone Colossus,” (Soundboard 2 1997) afferma “all Rollins’s methodical, introspective everyday practices, systematic habits of thought, and sustained commitment to articulating tacit knowledge in concrete, written form were in pursuit of a self-understanding and self-mastery whose ultimate purpose was simply personal liberty. To be sure, he continually tried, until the end of his career, to make artistic advances and explore new creative possibilities”. Ciò che cercava, soprattutto, era la libertà dalle proprie imperfezioni, da abitudini e inclinazioni personali disprezzate e dalle restrizioni sociali imposte dal mercato, un mondo dal quale ha scelto a volte di ritirarsi professionalmente per il bene delle sue aspirazioni e dei suoi ideali.
Nella biografia di Nisenson (Open Sky, Da Capo Press, 2000) viene sottolineato l’insistenza di Rollins sull’attività intellettuale della musica jazz, che ti fa usare la mente, e un rifiuto di essere visto come una sorta di nobile “savage”. Una dichiarazione che striderebbe con l’impossibilità di analizzare razionalmente la musica di Ornette Coleman quando afferma “you can’t intellectualize music”. Nondimeno, duro è intelligere, soprattutto quando si tratta di musica afroamericana analizzata dal punto di vista di scrittori non di colore. Esiste una sorta di segretezza come forma di salvaguardia delle radici, uno studio portato avanti da Moten e Amiri Baraka in Blues People: The Negro Experience in White America and the Music That Developed from It (New York: William Morrow, 1963). “The history of Afro-diasporic art, especially music, is…the history of the keeping of this secret even in the midst of its intensely public and highly commodified dissemination”. Definendosi un musicista “primitivo” o “intuitivo”, dunque, Sonny Rollins protegge semplicemente dall’indagine la vera natura della sua mente creativa: ciò che sa e chi è veramente come artista. Non c’è modo più semplice per ingannare i fuorviati che affermare ciò in cui già credono.
Si può aver contezza del concetto di questo viaggio verso il perfezionamento dello spirito, che racchiude la gioia ‘risolutiva’ dell’intera popolazione afroamericana, guardando il quadro “Song of Towers” di Aaron Douglas all’interno dello Schomburg Center, sulla 135esima Strada della New York Public Library che, grazie a una sovvenzione di $ 10.000 concessa dalla Carnegie Corporation di New York nel 1926, sarebbe diventato lo Schomburg Center for Research in Black Culture, un fiorente centro per la vita e per la coscienza degli afroamericani stabiliti ad Harlem dopo la fuga dal sud durante la Grande Migrazione. Nel quadro è rappresentato un afroamericano – una figura maschile con un sassofono in mano – in cima a una ruota che funge anche da scala curva. La famosa fotografia in bianco e nero del 1934, in cui Aaron Douglas presenta “Song of the Towers” ad Arturo Alfonso Schomburg, non rende giustizia al dipinto.
E, naturalmente, non può catturare la gioia che Schomburg – il collezionista appassionato di libri e manoscritti rari di autori di colore – deve aver provato nel guardare i quattro murales di Douglas. Schomberg diventa curatore della collezione – che ora porta il suo nome – dopo aver lavorato, assieme a un gruppo di bibliotecari, a un progetto di catalogazione dei materiali della Division of Literature, History and Prints, dal 1932 fino alla sua morte nel 1938. Il collezionista non si è dedicato solo alla raccolta di oggetti rari che documentassero e preservassero la cultura nera. Nel 1925, Schomburg scrive un saggio storico, “The Negro Digs Up His Past”, pubblicato per la prima volta nel numero di marzo 1925 della Survey Graphic: il tema della rivista era “Harlem: Mecca del Nuovo Negro”. Sostenuto da Alain Locke, che diventerà il decano della Harlem Renaissance, Schomburg segnalava l’inizio di un importante momento storico e culturale nella vita afroamericana, l’arrivo del “The New Negro”. Diffondendo la “nozione di razza come costruzione sociale”, Schomburg – l’uomo e la biblioteca – esponeva una narrativa altra, intesa come consapevolezza della potenziale parità dei neri basata sulla fiducia in sé, come mezzo di resistenza per liberare i bambini e i cittadini neri dal pregiudizio e dai sentimenti di vergogna.
“The murals Aspects of Negro Life (1934),” pronuncia Schomburg, “look down on me and I can look up to them for relief and pleasure and support when any of the so-called superior race comes to town to look at our wonders”. Oggi, i quattro pannelli di Aspects of Negro Life di Aaron Douglas si stagliano sopra la testa nella sala di lettura della Jean Blackwell Hutson Research and Reference Division, situata al terzo piano della biblioteca Schomburg Center. Guardando la magistrale serie murale di Douglas, studiosi, visitatori e studenti di tutte le età possono osservare la lunga evoluzione rapsodica e l’umanità della vita afroamericana, resa con tratti audaci e i colori vibranti dell’estetica modernista nera, silhouette profonde e sfondi spezzati. I murales, che il Nostro ammirava da bambino, rendono l’idea delle varie vicissitudini tollerate dagli afroamericani, scavando un passato negato e consentendo agli spettatori di ripercorrerlo con sguardo nostalgico.
La musica appassionata e atemporale di Sonny Rollins è tanto attuale quanto la forma d’arte che rappresenta: è la storia stessa del jazz – innovativa, imprevedibile, straordinaria. Per avvicinarsi alla sua anima ingegnosa sarebbe utile fare un’immersione in solitaria nelle composizioni dell’erede di Harlem, per scoprire tutti i suoi dischi o andare a trovare il “colosso del sax” al Museo del Saxofono a Fiumicino, che custodisce il Mark VI – Varitone Bb tenor, un modello elettronico rivoluzionario appartenuto a Rollins e creato dalla Selmer nel 1965. Una piccola unità-mixer della Electro – Voice è stata installata sul corpo dello strumento, permettendo di avere il completo controllo dell’uscita del volume e della qualità del suono prodotto, aggiungendovi degli effetti, come l’eco, il tremolo e un raddoppio del suono prodotto all’ottava inferiore. Una vera sfida per il “colosso del sax” che amava sperimentare anche i confini della musica elettronica e voleva scoprire il suono divino all’interno del tubo più misterioso della storia musicale. E solo uno strumento affascinante come il sassofono gli ha consentito di creare la felicità, non di inseguirla. Una felicità autentica, condivisa con il mondo intero. Buon compleanno e lunga vita, Mr. Rollins!
L'autore
- Ermira Shurdha è nata in Albania nel 1981. Si è trasferita nel 1993 in Italia appena adolescente. Oggi vive con la sua famiglia in Abruzzo, regione eletta per crescere le sue due figlie. Dopo una formazione scientifica si è dedicata alla sua vera passione, le lingue straniere, laureandosi all’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti - Pescara con una tesi sull’opera teatrale di Antonio Buero Vallejo. Nel 2017 ha conseguito una laurea magistrale con una tesi dal titolo “Últimas tardes con Teresa, més que una història”, romanzo eversivo ambientato nella Barcellona degli anni cinquanta di Juan Marsé, Premio Cervantes nel 2008 e prolifico scrittore di testi in castigliano. Ha analizzato l’opera data alle stampe nel 1965, all’interno del contesto storico - culturale catalano, con particolare attenzione al linguaggio musicale e cinematografico, associazioni con la poetica neorealista felliniana, accordando la critica in lingua spagnola, catalana e inglese alla cronaca degli amanti in sottofondo. Sempre attratta dalle tendenze creative del mondo della moda, attualmente gestisce una boutique di abbigliamento fondata nel 1991 a Giulianova.
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