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Carletto Mazzone, o del calcio evenemenziale tutt’al più

In un celebre passo dei Fiori blu il Duca d’Auge e Onesiforo discutono del concetto di storia universale, di storia generale e di microstoria: «E su questa storia universale al cui proposito t’ho, già da lunga pezza, interrogato, son sempre qui che aspetto una risposta. – Cos’è esattamente che volete sapere? – Quello che pensi della storia universale in generale e della storia generale in particolare. Ti ascolto. – Sono proprio stanco – disse il cappellano. – Riposerai dopo. Dimmi un po’, questo Concilio di Basilea, è storia universale? – Ma sì: è storia universale in generale. – E i miei cannoncini? –Storia generale in particolare. – E il matrimonio delle mie figliole? – A mala pena storia ‘événementielle’. Microstoria tutt’al più».

Mi veniva in mente questo passo pensando a Carletto Mazzone: in fondo, qual è il luogo di Mazzone nella storia (universale, generale, evenemenziale) del calcio? In un mondo di allenatori che vanno in panchina con tagli sartoriali, cosa può dire un allenatore che si presentava in tuta e col cappello di lana? In un mondo in cui si rinfacciano con arroganza “zero tituli”, cosa può dire Mazzone?

In realtà quella di Mazzone non sarebbe esattamente una biografia con zero tituli. Mazzone ha vinto con l’Ascoli nel 1971-1972 un Campionato italiano. Ma di Serie C. Girone B. A livello nazionale ha vinto sempre con l’Ascoli, nel 1981, un Torneo di Capodanno. E le squadre da lui allenate hanno vinto anche trofei internazionali. Nel 1975 con la Fiorentina una Coppa di Lega italo-inglese. Nel 1998 col Bologna una Coppa Intertoto. Tolto il campionato di Serie C, gli altri sono nomi lontani, che parlano di un calcio ormai più estinto che superato. (Per i non esperti: il Torneo di Capodanno fu un torneo organizzato nel 1981 dalla FIGC per coprire il periodo in cui l’Italia era impegnata nel Mundialito, altro trofeo dal nome lontano; la Coppa di lega italo-inglese opponeva le squadre vincitrici delle rispettive coppe di lega; l’Intertoto era un torneo estivo cui accedevano le squadre europee classificate, nei rispettivi campionati, nelle posizioni immediatamente successive a quelle che permettevano la partecipazione alla Coppa UEFA: i vincitori della coppa Intertoto accedevano poi alla Coppa UEFA). Trofei secondari, dunque, in piazze secondarie, si dirà. In queste piazze secondarie – Ascoli, Firenze, Bologna, Lecce, Pescara, Cagliari, Roma, Napoli, Perugia, Brescia, Livorno – Mazzone ha allenato tanto. Milleduecentosettantotto panchine complessive, che scritto a lettere fa tutto un altro effetto, di cui settecentonovantasette in serie A (è record assoluto).

La piazza più grande in cui ha allenato è stata Roma. Ma è la Roma dell’inizio degli anni Novanta. Nel 1991 è morto lo storico presidente dello scudetto, Dino Viola. La società è stata rilevata da un discusso imprenditore, Giuseppe Ciarrapico, er Ciarra, “re delle acque minerali” (possedeva le Terme di Fiuggi), vicino alla corrente andreottiana della DC, e in particolare a Franco Evangelisti (anche lui ex presidente dell’A.S. Roma), ma anche al Movimento Sociale Italiano, di cui stampava i volantini e il quotidiano, Il secolo d’Italia: la storia della Roma si intreccia così a quella della politica italiana in anni turbolenti. Nel 1993 la società passa un’altra volta di mano: la rileva Franco Sensi, che sarà sì il presidente del terzo scudetto, ma dopo un avvio difficile e complesso. Per di più, nel 1992/93 la Roma ha fatto un pessimo campionato, marcato dalla squalifica per positività alla cocaina di Claudio Caniggia. È qui, in questa Roma, che Mazzone compie forse il suo capolavoro di allenatore: lancia in pianta stabile il più grande talento del calcio italiano dei primi anni Duemila, Francesco Totti.

Soffermarsi sulla storia di Mazzone alla Roma non ha solo ragioni di cuore e di memoria. È in fondo significativo di una carriera intera: squadre in difficoltà da cui Mazzone sapeva tirare fuori il meglio, con l’ordine, il metodo, la disciplina. «La tecnica è il pane dei ricchi, la tattica il pane dei poveri»: una regola che in fondo tanti, chi più apertamente (come Otto Rehhagel con la Grecia agli Europei del 2004) chi meno (come Roberto Mancini agli Europei del 2021), hanno fatto loro. Se guardiamo all’Ascoli, al Catanzaro, al Lecce non ci si può oggi che sorprendere di come quelle squadre siano rimaste spesso per anni in una serie A assai più competitiva dell’attuale, con solo 16 squadre e tanto talento non diluito. Quando nel 1981-82 l’Ascoli ottiene il sesto posto questa è la sua rosa: portieri Fabio Brini e Luigi Muraro; difensori Donato Anzivino, Simone Boldini, Angiolino Gasparini, Andrea Mandorlini, Leonardo Menichini, Eugenio Perico, Francesco Scorsa; centrocampisti Gabriello Carotti, Walter De Vecchi, Giuseppe Greco, Giuseppe Iachini, Enrico Nicolini, Antonio Regoli, Fortunato Torrisi, Carlo Trevisanello; attaccanti Gianluca De Ponti, Hubert Pircher (capocannoniere di quell’annata con 7 gol) e François Zahoui. Tranne qualche caso (Iachini, che avrà poi una lunga carriera nella Fiorentina, e Mandorlini, che la avrà invece nell’Inter), oggi sono per noi poco più che nomi di un ingiallito album Panini.

Mazzone era un allenatore preparato: fu tra i primi a studiare la zona e tra i primi ad applicarla in Italia, ma sempre temperando la teoria con la pratica dei calciatori che aveva a disposizione. È stato senza dubbio – ai tempi in cui la classifica si leggeva a Novantesimo minuto – il più vincente degli allenatori che lottavano nella colonna di destra della classifica.

La sua sfortuna, forse, è sempre stata quella di essere visto proprio come un allenatore di squadre di seconda categoria (un destino che condivide con un altro grande allenatore della Roma di quegli anni, Zdenek Zeman), e di essere considerato una figura dai contorni folcloristici: a dispetto di ogni valutazione tecnica e di ogni riscontro oggettivo, il suo calcio viene ritenuto troppo semplice, troppo ruspante. Una sfortuna che comincia già all’epoca della Fiorentina: nei giornali le foto lo ritraggono intento a urlare con la mano aperta di fianco alla bocca, mentre accanto a lui compaiono impassibili Liedholm o Trapattoni. A mettere la pietra tombale su Mazzone e il suo rapporto con le grandi è un episodio che accade nel 1978/79. Mazzone allena da pochissimo il Catanzaro, che ha cominciato la stagione non benissimo (un pareggio in casa col Vicenza e una sconfitta in trasferta col Lanerossi Vicenza) e si prepara ad affrontare in casa la Juve. È venerdì 13 ottobre, e il giornalista romano del «Corriere dello sport» Alberto Marchesi osserva l’allenamento del venerdì della squadra. Al termine della seduta va dall’amico Mazzone e gli dice: «Ma sai che siete proprio bravi? Secondo me con la Juve potete pure vincere». Mazzone risponde in romanesco: «Magara!».

Il Catanzaro bloccherà sullo 0-0 la Juventus e Marchesi comincerà il suo articolo chiamando Mazzone proprio “Er magara”. Un soprannome che, se da quel momento in poi lo accompagnerà per il resto della vita, ne fa anche un allenatore da sagra paesana e da festa de noantri, marcandone in modo indelebile la carriera.

Mazzone è stato un allenatore di sangue e cuore. «Battere la Roma? È un dovere provarci. Ma è come uccidere la propria madre»: più ancora della corsa sotto la curva dell’Atalanta nel derby col Brescia (urlando «li mortacci vostra») è questa frase a mostrare a pieno l’anticonvenzionalità di Mazzone. In un mondo di allenatori compassati Mazzone è stato soprattutto un uomo, e un uomo attento all’uomo.

Lo si vede bene in una delle ultime esperienze di Mazzone, quella a Brescia, dove fa arrivare Roberto Baggio: un calciatore che, in fondo, a dispetto della classe immensa (e di un palmares di tutto rispetto) è stato lungamente emarginato, vuoi per i problemi fisici, vuoi per la difficoltà di collocazione in campo (spesso smorzati in alcune squadre, come la Juventus o l’Italia dei mondiali del 1994, ma mai del tutto risolti). Mazzone fa ciò che nessun allenatore aveva mai fatto prima: attorno a Baggio costruisce l’intera squadra (con alcune intuizioni geniali, come l’arretramento di Andrea Pirlo a regista di fronte alla difesa). Così, in quegli anni tra il 2000 e il 2004, il Rigamonti di Brescia diventa palcoscenico del calcio italiano (che all’epoca ha ancora una dimensione mondiale, come mostra anche l’arrivo di un calciatore come Pep Guardiola). Le emozioni che Baggio regala grazie a Mazzone non mancano: gol diretti da calcio d’angolo, esecuzioni magistrali di calci piazzati, gol e stop di tacco, l’incredibile ritorno dopo la rottura del legamento crociato in pochi mesi. Mazzone è l’unico, in questi anni, ad avere l’umiltà e il buon senso di privilegiare la tecnica a tutto il resto: Brescia è così l’unica dimensione possibile per un fuoriclasse che viene escluso dai Mondiali del 2002 per lasciare il posto a Cristiano Doni.

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È mercoledì 27 maggio 2009. All’Olimpico di Roma si gioca la finale di Champions League. Per l’ultima volta nella storia la finale si gioca di mercoledì. Forse è una premonizione di ciò che accadrà alla fine della partita.

A opporsi sono due squadroni: da un lato il Manchester United, allenato da Alex Ferguson e con in campo giocatori straordinari (Ryan Giggs e Cristiano Ronaldo su tutti); dall’altro il Barcellona stellare di Puyol, Piqué, Busquets, Xavi, Iniesta, Messi (l’ossatura è quella della Spagna campionessa europea in carica e campione del mondo l’anno successivo), allenata da Pep Guardiola.

Il Barcellona vince la finale senza troppi problemi, con gol di Eto’o e Messi.

Dopo la partita, dopo i festeggiamenti, Guardiola si presenta in conferenza stampa e le sue prime parole sono «Vorrei fare una dedica per questa vittoria al calcio italiano e al mio maestro Mazzone: sono orgoglioso di averlo avuto come tecnico».

 

 

L'autore

Giulio Vaccaro
Giulio Vaccaro, romano e romanista, è un ciclista amante delle salite lunghe. Insegna Storia della lingua italiana all’Università di Perugia, dopo aver lavorato all’Opera del Vocabolario Italiano e all’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea.
Dal 2009 al 2016 ha diretto il progetto DiVo – Dizionario dei Volgarizzamenti (di cui ha coordinato l’attività dell’unità della Scuola Normale Superiore di Pisa, all’interno di un progetto FIRB – Futuro in Ricerca 2010); dal 2014 al 2016 ha diretto il progetto bilaterale Manoscritti italiani in Polonia: ricerca, catalogazione, studio / Włoskie rękopisy w Polsce: poszukiwanie, inwentarz i badanie e ha coordinato il Laboratorio Volgarizzamenti: storia, testi, lessico presso il Centro di Elaborazione Informatica di Testi e Immagini nella Tradizione Letteraria della Scuola Normale Superiore. Nel 2018 è stato research fellow presso il Deutsches historisches Institut in Rom. Ha collaborato alla GSR-Grammatica Storica del Romanesco, finanziata dal Fondo Nazionale Svizzero e coordina un’unità del progetto CorTIM. Corpus Testuale dell’Italia Mediana. Si occupa di volgarizzamenti di classici latini e mediolatini negli antichi volgari italiani (Albertano da Brescia, Seneca, Vegezio), di studio materiale dei manoscritti ai fini della storia della tradizione dei testi, di testi genealogici tra Due e Cinquecento, di contatti tra Italia e Spagna nel Medioevo e di autori dialettali romaneschi (Sindici, Tacconi, Zanazzo).