avvenimenti · In primo piano

Rappresentare l’irrappresentabile. A proposito di “Nota Bene” di Piergiorgio Giacchè

Immaginatevi d’un tratto di essere sbarcato […]
solo su una spiaggia tropicale vicino a un villaggio indigeno,
mentre la motolancia che vi ci ha portato naviga via
e si sottrae ai vostri sguardi […]
(Malinowski 2011:11)

Si nasce e si muore soli
che è già un eccesso di compagnia
(Carmelo Bene)

 

Introduzione

Questo breve testo prende spunto dalla lettura del volume Nota Bene di Piergiorgio Giacchè (2022) per esporre alcune riflessioni sulla rappresentazione etnografica in relazione allo studio della pratica teatrale e nel confronto con terreni più ‘classici’ dell’antropologia culturale. Vorrei iniziare con una breve introduzione sul mio posizionamento rispetto all’antropologia del teatro, e nello specifico al teatro di Carmelo Bene, e sulle modalità che ho utilizzato per leggere il volume di Piergiorgio Giacchè. È probabile che i lettori che abbiano letto Nota Bene trovino le cose che dirò banali e soprattutto poco rispettose dell’umiltà come “conditio prima” (ivi, p. 20) nei confronti dell’Attore-Maestro, perlopiù maestro del mio maestro, di cui si parla nel libro. L’Umiltà di cui parla Piero Giacchè nel suo libro vorrebbe che, più che commentarla, si ascoltasse la lezione contenuta nelle pagine di questo volume. Tuttavia, nonostante tutto sia già detto (anzi “non-detto”) nel libro, leggendolo non ho potuto fare a meno di scrivere una sessantina di pagine di appunti. Questa spinta quasi compulsiva all’annotazione dei contenuti che man mano incontravo non è garanzia di esaustività. Anzi, al contrario, queste brevi note sono in debito con il testo e la ricerca di Piero Giacché poiché non riescono a rendere conto della loro complessità e ricchezza. Prendere una tale mole di appunti è stato piuttosto un modo per placare l’ansia emersa davanti al racconto della “ricerca impossibile” (ivi, p. 26) di Carmelo Bene e al vano tentativo di riuscire a comprenderla immediatamente nella sua complessità. E ciò, nonostante alcune raccomandazioni che lo stesso Giacchè, lungimirante, mi diede tempo addietro (“non avere paura del teatro”). In questo testo ho rielaborato solo una piccola parte di quelle note, le più congeniali al mio posizionamento rispetto al soggetto di cui si parla nel libro. In primo luogo, devo specificare che il teatro, e Carmelo Bene in particolare, non sono, come si dice in gergo antropologico, il mio “campo”. Pur avendo letto alcuni testi dell’autore pubblicati precedentemente (Giacchè 1997; 2010), non solo non mi sono occupato del grande maestro salentino ma non ho nemmeno avuto il privilegio di vederlo in scena. Per quanto concerne la mia frequentazione del teatro di Bene sono anzi tra quelli che hanno decisamente contravvenuto ad un’altra delle raccomandazioni di Piero Giacchè ai suoi lettori, facendomi distrarre dalla “controfigura televisiva” di Bene (Giacchè 2022: 13; a questo proposito si veda la recente raccolta d’interviste curata da L. Buoncristiano e F. Primosig [2023]). In secondo luogo, cecherò di non dilungarmi eccessivamente poiché, leggendo il libro, ho avuto l’impressione di ascoltarlo più che di leggerlo. Per via della profonda conoscenza dell’autore del suo campo di ricerca, la prima impressione che suscita la lettura del libro è la sensazione di ascoltare qualcuno che si ascolta, un po’ come se l’autore stesse parlando a sé stesso e ad alta voce. A mio modesto parere, mi sembra che risieda in questo intento, far sentire a chi legge ciò che l’autore sta dicendo a sé stesso, il senso dell’ammissione di voler “vuotare il sacco” di cui l’autore scrive in introduzione (Giacchè 2022: 10).

A fronte di queste premesse mi pare sia complesso per un osservatore esterno commentare il rapporto tra i protagonisti di questo libro e il lavoro di campo decennale dell’autore. Posso soltanto prendere atto di aver imparato qualcosa. Pertanto mi limiterò a riportare quello che ho capito e le riflessioni che mi ha suscitato la lettura di Nota Bene. Infine, è necessaria una breve premessa ‘metodologica’. Mi assumo la paternità e la responsabilità per le chiavi di lettura che mi sono costruito per mettere dei punti fermi alla comprensione del testo e, più generalmente, all’antropologia di Carmelo Bene. Per trovare dei punti fermi di un’arte, il teatro di Bene, e di una scrittura, quella di Piero Giacchè, mi sono aggrappato ai numerosi richiami all’antropologia culturale che l’autore dissemina lungo tutto il testo e ad un’esperienza di campo personale. In questo senso, invece, ho fatto tesoro dei consigli di Piero Giacchè e “l’ho buttata in antropologia”. In realtà, inquadrare la lettura di Nota Bene in questioni antropologiche viene quasi naturale poiché si tratta di un libro che parla di teatro ma parla molto anche di antropologia. È lo stesso autore che in molti passaggi fornisce al lettore, e all’antropologo, appigli per non perdersi nell’instabilità della sua “ricerca impossibile”.

Il teatro oltre la rappresentazione

Per la tesi di laurea magistrale sostenuta presso l’Università di Perugia, avevo condotto un’etnografia di un corso di formazione teatrale coordinato dalla compagnia teatrale Odin Teatret e dal Centro Universitario Teatrale (CUT) di Perugia in collaborazione con i dipartimenti di Salute Mentale delle Asl di Perugia. Piero Giacchè ne è stato il relatore. La prima cosa che capì in quell’occasione era che per cercare di comprendere qualcosa di teatro, e di Carmelo Bene in particolare, era necessario che mi scordassi le ‘poche idee ma confuse’ che avevo su di esso. Il teatro, almeno quello di Bene e ho l’impressione di pochi altri grandi performer, non è rappresentazione, almeno non intesa nel senso di ‘spettacolo’. Spiega Giacchè: “Non apparire ma sparire è la causa prima che ogni attore di teatro conosce, prima di farsi sedurre e sviare dal suo effetto, cioè dal suo spettacolo. Carmelo Bene no: il ‘teatro senza spettacolo’ è il suo credo e la sua sfida” (2022: 24). Teatro è piuttosto una performance che può prendere forme diverse e alla quale osservatori esterni possono o non possono essere invitati a partecipare. Nel caso del teatro di Bene, si trattava di una sorta di rituale che si avvicinava al rito religioso nella misura in cui l’obiettivo della performance era la ricerca di una “transe poetica” (ivi, p. 58), un ‘incanto’, tendente alla “verticalità” e che spingeva il teatro oltre “il novero dei generi della rappresentazione” (ivi, p. 29). Così ancora Giacché: “Tutto questo restaura a teatro un antico rapporto fruitivo […] per rimettere in moto una visione e un ascolto che tornano ad aver bisogno di un punto verticale d’incontro […] verso cui si proietta tanto la sfida dell’attore quanto l’attesa dello spettatore” (ivi, p. 32). Il pubblico non è invitato a questa performance. Tuttalpiù può assistere ed essere eventualmente trascinato involontariamente dentro il rituale. In questo senso, il teatro di Carmelo Bene introduce fin dagli anni dei suoi esordi una “rivoluzione copernicana” (ivi, p. 53) in quanto pone al centro della performance l’attore e, di conseguenza, subordina lo spettacolo e gli spettatori ad elementi secondari della galassia teatrale. La “ricerca impossibile” di Carmelo Bene puntava pertanto a realizzare un “teatro senza spettacolo” (ivi, p. 29-30). Su questo aspetto, il teatro di Bene si avvicina al teatro di Jerzy Grotowski (ivi, p. 35; Grotowski 1970) e diverge da quello ‘tolemaico’ dell’Odin Teatret. Una divergenza che mi pare ancor più evidente ripensando ai laboratori tenuti dalla compagnia di Eugenio Barba e che avevo seguito per la ricerca etnografica per la tesi di laurea. Barba e gli attori pedagoghi impegnati nei laboratori teatrali (Torgeir Wethal, Jan Ferslev e Roberta Carreri) consideravano esplicitamente il pubblico e lo spettacolo il soggetto e l’esito finali che inevitabilmente dovevano orientare il percorso di costruzione della performance.

Alla luce dell’eccezionalità del teatro di Carmelo Bene, come può l’antropologo descrivere e far comprendere ai suoi lettori in che cosa consista un evento che, come l’autore ci ripete costantemente nel libro, è irrappresentabile, indefinibile, inclassificabile, effimero (Giacchè 2022: 11), senza produrne una rappresentazione riduttiva, oggettivante ed evitando di produrne un memoriale? Vorrei a questo proposito collegarmi brevemente all’antropologia. Per certi aspetti, l’impresa etnografica di Piero Giacchè evoca il dilemma con il quale si confrontano molti antropologi quando fanno ricerca sul campo. Tale dilemma consiste nella necessità di tradurre in parole degli “esperimenti di esperienza” (Piasere 2002: 27) ed eventi ai quali, non solo gli stessi antropologi non sono stati invitati, ma per i quali è dubbia perfino la possibilità di compiere un’effettiva “osservazione partecipante” (Clifford 1997). In un certo senso l’esperimento dell’esperienza etnografica è di per sé sempre impossibile da rappresentare. Analogamente ad una performance teatrale, come si fa infatti a descrivere (la vita di) una cultura? Vale a dire, per riproporre l’incipit di una celebre definizione, “un insieme complesso” (Tylor 1985) di discorsi, pratiche e comportamenti (e molto altro) che ha senso solo nel suo fluire in un tessuto d’interazioni sociali e non nella sua rappresentazione?  Piero Giacchè suggerisce una risposta a questa domanda mostrando come, attraverso un uso particolare della scrittura, sia possibile “in-scrivere” (Geertz 1987) l’esperienza etnografica in un testo senza perdere la vitalità che la contraddistingue. Vorrei però a questo punto fare una breve digressione su un’esperienza di ricerca personale per suggerire come le problematiche di ricerca sollevate dal volume e dalle ricerche di Piero Giacchè siano comuni a quelle di campi di ricerca molto distanti dalla pratica teatrale.

Per anni mi sono occupato di stregoneria nella Repubblica Democratica del Congo (Quaretta 2017). Si tratta di un fenomeno estremamente effimero nella misura in cui è difficile capire in che cosa consista concretamente la stregoneria. La stregoneria, come altri fenomeni magico-religiosi, è infatti difficilmente osservabile in quanto si traduce spesso in discorsi, racconti e credenze. Come sostiene, tra gli altri, Jeanne Favret-Saada (2009) ciò che è etnograficamente osservabile sono piuttosto le pratiche e i rimedi dell’anti-stregoneria. Le persone con le quali ho a lungo lavorato non ne parlavano quasi mai, ancor meno ad un (allora giovane) ricercatore occidentale. I congolesi non ne parlano per due motivi. In primo luogo perché la stregoneria non è qualcosa di cui si parla apertamente, è anzi qualcosa di cui si ha esperienza, è una qualità emotiva che si declina di volta in volta in gelosia, risentimento, odio, vendetta e influisce nella gestione e nella costruzione dei rapporti sociali quotidiani, soprattutto famigliari. Per utilizzare un’immagine presa in prestito a Nota Bene, la stregoneria potrebbe essere vista come il polo negativo di una “verticalità” (Giacchè 2002: 30-31) che penetra le imperscrutabili profondità dell’animo e delle relazioni umane. Pertanto, si tratta di un sapere esperienziale che ha a che fare con l’intimità delle storie di ciascuno e con l’“intimità culturale” (Herzfeld 2003) d’intendere e gestire le relazioni sociali. Per queste ragioni, quando chiedevo alle persone di spiegarmi che cosa fosse la stregoneria, spesso sviavano la questione, mi rispondevano che non esisteva oppure che avrei capito solo se ci avessi creduto, eventualità per loro poco probabile. In secondo luogo, i congolesi non mi parlavano apertamente di stregoneria perché ero un po’ come lo spettatore del teatro di Carmelo Bene: non ero stato invitato alla performance (le disgrazie in famiglia, le discussioni nel gruppo di parenti, gli esorcismi, i sermoni dei pastori pentecostali) tuttavia mi ero potuto permettere, forse ai loro occhi con un po’ di arroganza, un biglietto (aereo) per parteciparvici ‘dall’esterno’, dalla platea per così dire, abbastanza vicino per vedere e abbastanza lontano per non rimanerne invischiato. Rifiutarsi di parlare di stregoneria era pertanto per i miei interlocutori un modo per proteggersi da una forma di “violenza simbolica”, nel senso di P. Bourdieu (1970), prodotta dallo sguardo esterno dell’osservatore che si arroga il diritto di osservare, studiare e chiedere di vedere ciò che accade costringendo l’altro a diventare quello che non è: nel mio caso qualcosa di simile a “creduloni” che ancora credono nella stregoneria (si veda, per un caso simile, il classico di Jeanne Favret-Saada [1977]). Pur essendo estremamente diversi, mi azzardo a dire che su questo punto gli attori del mio campo di ricerca e l’Attore di Piero Giacché si assomiglino un po’: sia i primi che il secondo, negandosi allo sguardo impertinente dell’osservatore, cercavano di proteggersi da un pubblico di curiosi e dalla violenza simbolica che questi ultimi esercitavano su di essi. A questo proposito, trovo particolarmente esemplificativo l’aneddoto raccontato da Piero Giacchè (2002: 160): “[…] – mi ricordo ad esempio di un giorno a Otranto quando era stato invitato per ricevere le chiavi della città – in queste circostanze, importanti o meno, in cui doveva apparire, [Carmelo Bene] prendeva molto tempo per truccarsi […] Credo avesse scelto di vestirsi di potenza per andare davanti al potere” (testo originale in francese, traduzione mia).

Rappresentare l’irrappresentabile: etnografia e osservazione partecipante

Tornando alla domanda iniziale, come si può dunque render conto di fenomeni così effimeri, che non si vedono ma si sentono, ai quali di fatto è impossibile partecipare? Piero Giacchè suggerisce che l’unica soluzione per non “tradire” il campo (Giacchè 2022: 70) sia sondare la sua alterità, vale a dire misurarne la distanza “verticale” rispetto all’orizzontalità della cultura dell’antropologo, e rispettarne l’“altezza”, dunque prendere consapevolezza dei suoi valori e dei suoi principi. A partire da queste coordinate generali, nel volume Nota Bene, l’autore dimostra magistralmente come si possa rappresentare l’esperienza dell’incontro etnografico senza tradire il campo. Lo fa in due modi. In primo luogo, mettendo in pratica alcuni principi metodologici fondamentali, riassunti in ciò che l’autore chiama “le perpendicolari che discendono dall’Eccezione o Regole” (ivi, p. 85-86). Un insieme di regole metodologiche utili a tutti coloro che si approcciano all’antropologia culturale, non solo per studiare il teatro ma per indagare ogni forma di alterità. In secondo luogo, attraverso un uso performativo della scrittura. Vediamo innanzitutto i principi metodologici. Il primo principio consiste nel condurre una ricerca etnografica che “scavi dentro l’altro, e non rincorra l’altro”, come mi ha spesso ripetuto Piero Giacchè, riferendosi alla necessità di compiere ricerche sul lungo periodo piuttosto che una frequentazione del campo sporadica ed episodica. In Nota Bene, la ‘lunga durata’ dell’etnografia è evidente, non solo per la menzione degli anni posta sotto i titoli dei capitoli, quanto piuttosto per l’evoluzione e la conoscenza intima dell’opera teatrale e della vita di Carmelo Bene che l’autore ha acquisito nel tempo trascorso a studiarlo in un “ruolo parassitario”, come lui stesso scrive in un altro testo (Giacchè 2010: 4). Il secondo principio metodologico si ricollega all’immagine dell’antropologo come figura “parassitaria” e, prendendo spunto dal film Zelig di Woody Allen (1983), si potrebbe aggiungere ‘camaleontica’. Nella commedia del regista americano il protagonista principale è un uomo-camaleonte la cui identità si trasforma al contatto con altre identità (Zelig diventa grasso tra gli obesi, nazista tra i nazisti, nero tra gli africani e via dicendo). L’idea di mettersi nei panni di qualcun altro è uno degli elementi che contraddistingue un pilastro della metodologia etnografica, vale a dire l’osservazione partecipante. Nonostante, come detto, esista un’effettiva difficoltà a mettere in pratica una tale empatia, soprattutto qualora l’osservazione partecipante riguardi fenomeni così effimeri e sfuggenti quali la performance teatrale o la stregoneria africana, l’autore propone di mettere in pratica “l’Umiltà” come tecnica d’indagine. Con il termine “Umiltà”, con la “U” maiuscola, l’autore si riferisce ad una posizione di ascolto e di visione “dal basso” (Giacché 2022: 74) necessaria per immergersi in un mondo a cui, nella maggior parte dei casi, l’antropologo non appartiene. L’Umiltà diventa così un modo di abitare il campo di ricerca, una vera e propria tecnica di osservazione e partecipazione la quale rievoca un principio dell’osservazione partecipante valido universalmente: quando si è sul campo, e si cerca di comprendere l’altro, è necessario ‘farsi piccoli’, “diminuirsi” (ivi, p. 51), “sottomettere il proprio punto di vista” (ivi, p. 14) nel tentativo di afferrare quello che B. Malinowski (2011) chiamava il “punto di vista nativo”. Condotta in questi termini, l’osservazione-partecipazione dell’autore supera l’eccesso di “oculocentrismo” (eccessiva fiducia nell’osservazione) (Fabian 1983: 106-109) insito nella storia dell’antropologia e diventa, come detto precedentemente, il racconto di un ascolto che ci restituisce un’antropologia dei sensi caratterizzata da una densità e da una qualità del dettaglio etnografico impressionati. Il lettore assiste dunque ad una meticolosa analisi del teatro e dell’attore Carmelo Bene nella quale l’osservazione riguarda innanzitutto la vita privata dell’attore (“il resto è teatro”) e non è la sola facoltà percettiva che l’antropologo invita a considerare per cogliere l’esperienza delle performance di Bene. La necessità di allargare il metodo dell’osservazione partecipante oltre l’osservazione coinvolgendo in particolare l’ascolto e le altre facoltà sensoriali è fondamentale per comprendere i “tre passaggi rivoluzionari” (Giacchè 2022: 48-67) del teatro di Bene, i quali appartengono a regimi di visibilità diversi e sono difficilmente osservabili tramite un’osservazione passiva: separazione, sublimazione, sparizione. Una suddivisione che rievoca le tre fasi dei riti di passaggio formulate da Arnold van Gennep e riprese da Victor Turner (1972) (separazione, liminarità, integrazione). La differenza risiede che alla fine del rito teatrale di Carmelo Bene non v’è integrazione dell’iniziando, come nei riti di passaggio studiati dall’antropologo scozzese, ma piuttosto la sparizione dell’attore.

Rappresentare l’irrappresentabile: una scrittura performativa

Veniamo ora alla scrittura. Nota Bene mi ha tenuto compagnia per alcune settimane. Il testo mi ha regalato dei passaggi sublimi e dei momenti di difficoltà poiché alcuni passaggi richiedono uno sforzo considerevole per cogliere appieno il senso delle pagine che si leggono. Non perché ci sia una qualche difficoltà di comprensione, ma perché, come scrive l’autore, “saper leggere è sempre stato difficile” (Giacchè 2022: 81). L’autore utilizza, attraverso una scelta molto consapevole, una forma di scrittura che definirei performativa e ‘stratigrafica’. Si tratta di una scrittura stratigrafica, vale a dire che opera a livelli differenti (‘strati’) che non riguardano tanto la grafia ma piuttosto piani di senso diversi: dai piani di senso immediatamente comprensibili a quelli più profondi i quali richiedono al lettore un’interazione diretta (una sorta di performance) con il testo, sotto forma di più riletture e di un tempo fisiologico di ‘decantazione’ del significato. Da questa concatenazione di piani di significato emergono, “in odio al tempo cronologico” (ivi, p. 19), le Regole d’oro della filosofia dell’attore Carmelo Bene e la ricchezza della ricerca di Piero Giacchè. Il testo non è pertanto un commento didascalico al teatro di Bene ma è più simile ad un ‘ipertesto’. Analogamente a C. Bene che diveniva autore della vita di un “morto orale” (ivi, p. 25), termine usato dal maestro salentino per indicare i testi scritti, dandogli nuova vita, la scrittura performativa di Piero Giacché restituisce vita alla rappresentazione etnografica del suo teatro che torna a fluire nell’incontro performativo tra la scrittura e il lettore. La scrittura performativa di Giacchè credo si presti ad un equivoco e perciò si possa scambiare la fluidità e la polisemia della sua scrittura per dei giochi di parole. Mi pare invece attesti ancora una volta l’importanza della scrittura per il mestiere dell’antropologo (Augé 2007). La strategia di scrittura adottata da Giacchè mi pare l’unico modo per risolvere la contraddizione di rappresentare l’irrappresentabile, dunque un modo per ‘dire’ senza chiudere il ‘detto’ in narrazioni prêtes-à-consommer che non richiederebbero alcuno sforzo di ‘traduzione’ e di comprensione al lettore. Muovendosi su diversi piani di senso, l’autore non rappresenta ma restituisce delle sensazioni che portano il lettore dentro i meandri delle connessioni tra significato e significante esplorandone le molteplici configurazioni. In particolare, colpisce l’utilizzo che Piero Giacchè fa dell’ossimoro. Sembra che l’ossimoro sia una delle poche forme del linguaggio per “commemorare l’immemoriale” di una figura attoriale che ha fatto dell’ossimoro la misura della sua grandezza (la necessità di apparire per realizzare la sparizione). Dovremmo forse estendere più frequentemente lo schema dell’ossimoro anche allo studio e alle rappresentazioni nella nostra disciplina, l’antropologia culturale, poiché si nutre anch’essa di contraddizioni, di opposizioni, di sparizioni, di discontinuità sia perché queste sono le caratteristiche del soggetto-oggetto dell’antropologia, gli esseri umani e le loro culture, sia perché la nostra è una scienza imperfetta in cui l’etnografo è costantemente preso in una rete di relazioni con l’altro le quali sono spesso appunto contraddittorie, discontinue, imperfette.

e.quaretta@unilink.it

Riferimenti bibliografici

M. Augé, Il mestiere dell’antropologo, Torino Bollati Boringhieri, 2007

P. Bourdieu, Pour une sociologie des formes symboliques, Paris, Minuit, 1970

L. Buoncristiano, F. Primosig, Carmelo Bene. Si può solo dire nulla, Milano, il Saggiatore, 2023

J. Clifford, Introduzione: verità parziali, in Clifford e Marcus (a cura di), Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Roma, Meltemi, 1997

J. Fabian, Time and the Other. How Anthropology makes its object, New York, Columbia UP, 1983

J. Favret-Saada, Les mots, la mort, les sorts, Paris, Gallimard, 1977

J. Favret-Saada, Désorceler, Paris, L’Olivier, 2009

C. Geertz, Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1987

P. Giacchè, Carmelo Bene: antropologia di una macchina attoriale, Milano, Bompiani, 1997

P. Giacchè, Bene Detto. Dispensa per Oratorio e Laboratorio, Mondaino, L’arboreto – Teatro Dimora, 2010

J. Grotowski, Per un teatro povero, Roma, Bulzoni Editore, 1970

M. Herzfeld, Intimità culturale: antropologia e nazionalismo, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2003

B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale: riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, Torino, Bollati Boringhieri, 2011 [1922].

Maurizio Costanzo Show (1994), Uno contro tutti, disponibile alla seguente pagina web.

L. Piasere, L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia, Milano, Laterza 2002

E. Quaretta, Enfances ambigües. Anthropologies des enfants accusés de sorcellerie au Katanga (RDC), Paris, L’Harmattan, 2017.

V. Turner, Il processo rituale. Struttura e anti-struttura, Brescia, Morcelliana, 1972

E. B. Tylor, Alle origini della cultura, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985 [1871].

L'autore

Edoardo Quaretta
Edoardo Quaretta è professore associato di Antropologia culturale presso la Link Campus University di Roma. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Etnologia e Antropologia presso l’Università degli Studi di Perugia e l’Université libre di Bruxelles. Conduce ricerche sul campo nella Repubblica Democratica del Congo dal 2006 e in Sudafrica dal 2017. I temi di ricerca di cui si occupa sono la costruzione sociale dell’infanzia, i sistemi educativi e scolastici in Africa, la stregoneria in Africa centrale, le chiese neopentecostali, la cooperazione allo sviluppo, la storia dei missionari cattolici in Africa. È membro del comitato scientifico delle collane Mémoires lieux de savoir. Archives congolaises e La Région des Grands Lacs Africains. Passé et Présent edite da L’Harmattan (Parigi). Tra le ultime pubblicazioni: “Kapopo, the incurable illness. Structural violence, social suffering and spiritual healers in the Democratic Republic of Congo”, in S. Fancello, A. Gusman, Charismatic Healers in Contemporary Africa, Bloomsbury, 2023; “The State and ‘Its Responsibility’. School, Welfare State, and Community building in Lubumbashi (RDC)”, in W. Adebanwi, Everyday State and Democracy in Africa, foreword by J. & J. Comaroff, Ohio UP, 2022; con R. Giordano e D. Dibwe (a cura di), Dynamiques sociales et représentations congolaises en RD Congo. «L’expérience fait la différence». Volume hommage à Bogumil Jewsiewicki, postface de Nancy Rose Hunt, L’Harmattan, 2019; con R. Giordano e S. Federici (a cura di), Vivre sur le seuil. Rencontres congolaises, numero speciale di Africa & Mediterraneo. Cultura e società, n. 90, Bologna, Lai-Momo, 2019; Enfances ambiguës. Anthropologie des enfants accusés de sorcellerie au Katanga (RDC), préface de Bogumil Jewsiewicki, L’Harmattan, 2017.