Una volta Piergiorgio Giacchè definì i propri scritti su o per Carmelo Bene dei Vangeli Apocrifi, intendendo dire che l’equivalente beniano della Bibbia è costituito dagli scritti e dalle opere di Bene stesso. Personalmente, penso che oggi gli scritti di Giacchè siano gli unici testi capaci di farci vedere Bene, se si aggiunge alla lettura di questi libri e di questi articoli la fruizione delle opere dell’attore-autore.
Avevo già letto e riletto Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale (Bompiani, Milano 2007, seconda edizione, primo libro monografico di Giacchè su questo soggetto), anche se in condizioni più o meno annebbiate o forse la nebbia era la conseguenza di quella lettura, ma soltanto dopo Nota Bene (Kurumuny, Lecce 2022) ho trovato una chiave tutta attoriale per poter fruire in un particolare modo delle opere dell’attore-autore, andando oltre la ricezione di un discorso e arrivando ad ascoltare Bene.
Almeno questo è ciò che è capitato quando, il 1° luglio del 2023 su Fuorioraio (trasmissione televisiva del palinsesto di Rai3), a tarda notte, hanno trasmesso l’Otello di Bene e, nella solitudine del mio studiolo, ho fatto esperienza della risonanza dell’assenza: se l’attore punta alla fuga dalla scena, se punta a non esserci, non è solo per induzione che lo spettatore, un po’ come lui, si assenta da sé e dal mondo, ma è per via di un processo fruitivo che comporta il proiettarsi sulla “scena”, l’assoggettamento a una forza di attrazione che non è seduzione e che aumenta l’attenzione, la quale si fa totale fino a condurre all’incanto; un processo fruito che comporta l’abbandono al flusso della ricezione, il quale può portare alla comprensione dell’operazione critica inscenata da Bene.
La risonanza dell’assenza è forse il massimo dell’effetto concesso a uno spettatore postumo di Bene, essendo la sensazione auspicata da Bene stesso un qualcosa che dubito possa materializzarsi senza la contemporaneità dell’evenemenzialità e la presenza viva delle due parti in arte, le quali occupano i rispettivi spazi – della scena e della platea – di un teatro all’italiana (sulla relazione stretta tra Bene e il teatro all’italiana si veda di Maria Luisa Sementilli, Far vedere e vedere: rivitalizzazione dei teatri all’italiana in Vedere Bene: nota sullo sguardo antropologico, articolo pubblicato dalla rivista «Civiltà e Religioni», n. 7, 2021, pp. 369-377).
Sta tutta in questo punto, cioè nel doversi accontentare della risonanza dell’assenza senza poter provare una particolare sensazione, penso, la differenza tra la fruizione del teatro vivente e la fruizione delle opere vive di un attore-autore che, in ogni mezzo attraversato e sperimentato (scrittura, discografia, cinema, televisione, radio), porta teatro, perché è teatro.
Per me la suddetta fruizione si iscrive in un processo di emersione. Per Giacchè, tra la partecipazione e l’osservazione è stata più complicata l’osservazione e in particolare «Più complicato… è stato scoprire il proprio punto di vista» (P. Giacchè, Nota Bene, p. 14). Questa frase mi ha fatto pensare al mio studio, quello partito dall’occasione della tesi di laurea.
Ricordo che, prima di mettermi al lavoro sulla tesi, riuscivo a tenere Bene a una certa distanza, una distanza che permetteva un mio punto di vista. Quando però ho iniziato a leggere i suoi scritti, soprattutto Giuseppe Desa da Copertino. A boccaperta (C. Bene Opere, pp. 421-534) ma anche gli scritti più teorici, diciamo, se si può parlare di scritti teorici per Bene, come L’Orecchio mancante e La voce di Narciso, e quando ho iniziato a visionare i resti di Bene – le sue opere –, quel punto di vista distaccato non c’era più, c’era una gran confusione.
Forse ciò è normale. Forse non è un caso, perché «La sfida di Bene (ma anche la sua convinzione) è che fra il dire e il fare poesia non c’è separazione ma confusione» (P. Giacchè, Nota Bene, p. 168). E Bene fa e scrive poesia anche quando scrive apparentemente prosa. Anche la produzione in prosa di Bene è in un certo senso poetica, in un senso concreto.
Come già detto, per la mia tesi di laurea, partii leggendo Giuseppe Desa da Copertino. A Boccaperta, testo né mai portato da Bene in teatro né trasmesso su qualsiasi mezzo massmediatico. In quella occasione iniziò il mio sprofondare nell’universo beniano e cercai di capire quale ne fosse la causa (non la causa intima dell’attore-autore, ma la causa insita nel processo fruitivo della lettrice). Mi chiesi come faceva la pagina a risucchiarmi, perché, in definitiva, sono solo parole. Ma a un certo punto mi accorsi che c’era della poesia in quello che le parole evocavano e scrissi alcune frasi che si riferiscono a un punto preciso di A Boccaperta.
Non vi indicherò quel punto preciso: sarebbe inutile in quanto serve fruirne per farne esperienza, e per fruirne ci vuole il momento giusto. Tuttavia le frasi che scrissi allora – tra il 2005 e il 2008, cioè in un momento indefinito durante i primi tre anni dei cinque che dedicai alla tesi di laurea – sono:
In A Boccaperta ci sono delle figure retoriche sottese, ad esempio un chiasmo, ma non è letterario, non ha a che fare con la parola o il suono, è concettuale e lo si individua solo dopo aver letto, immaginato e infine ripensato a ciò che è stato immaginato.
La tesi di laurea su Bene fu come un’immersione dalla quale è difficile riemergere perché le opere di Bene in un certo senso risucchiano. Per la discussione della tesi di laurea mi trovai in difficoltà perché anche io, nel mio piccolo, né ricordavo né forse capivo cosa avevo scritto.
Sono trascorsi più di 12 anni dalla laurea e ho vissuto varie vicissitudini, non sempre piacevoli, per poi specializzarmi in Beni demoetnoantropologici nel 2020. Per la tesi di specializzazione mi fu chiesto di immaginare un museo del teatro e incentrai la missione di quel museo sulla possibilità di riabilitare le persone all’ascolto. Dico questo perché quel museo era dedicato anche a Bene proprio per la capacità che egli ha, secondo me e non da solo, ma accompagnato dagli scritti di Giacchè, di produrre questo effetto di ascolto.
Oggigiorno c’è una diffusa diseducazione all’ascolto. A riprova di ciò racconto un aneddoto che ha a che fare con il teatro. Anni fa partecipai come uditrice a un laboratorio teatrale amatoriale. Un esercizio prevedeva che ciascun partecipante salisse sul palco da solo e leggesse un testo posizionato su un leggio. A un certo punto, un partecipante al laboratorio fece la sua prova, molto serrata, una lettura veloce e concitata, piuttosto lunga. C’è voluta una buona dose di concentrazione per star dietro a quella lettura, ma di fatto seguii il discorso del testo in prosa e colsi un significato. Mi stupii quando, alla fine, più partecipanti al laboratorio, che avevano fatto da spettatori, dichiararono che era stato bellissimo anche se non lo avevano capito. Quella volta non penso che quel non capire fosse dovuto alla prova d’attore. In quell’occasione, ho capito che la mia capacità di ascolto era di più in confronto a quella dei presenti. Ma, dato che capii io, perché non ognuno dei presenti? Forse mancava un’abitudine all’ascolto che io mi ero costruita in vari anni di frequentazione del teatro come spettatrice.
Fortunatamente oggi sono varie le persone, in confronto a un passato non troppo remoto, che vanno a teatro. Ma da alcune mie piccole ricerche è emerso che tra queste persone sono poche quelle capaci di un’attività fruitiva, mentre le più sono dedite ad un’abitudine consumistica. Ad applicare quel tipo di abitudine nell’approcciarsi a Bene sono due le possibili conseguenze: o le persone lo disprezzano e se ne allontanano; o ne restano incuriosite ma rischiano di impazzire. In un certo senso il confronto con il teatro beniano impone una fruizione che passi prima attraverso lo studio dello stesso, perché non si può frugare senza metodo alcuno in quel teatro (parafrasando l’Amleto).
Cosa studiare dunque? Personalmente non partirei dalla “Bibbia”; dovessi ri-iniziare a studiare il teatro di Bene partirei dai “Vangeli Apocrifi” (cosa che feci già a suo tempo) e in particolare da Nota Bene. Questo è il consiglio che mi sento di dare agli spettatori postumi di Bene come sono io. Non perché si tratti di una facile lettura, ma perché è la lettura più efficace.
Non penso sia un caso il fatto che sia stato questo il testo per me più efficace nell’avvicinamento al teatro beniano; penso che ciò dipenda dall’autore: in prima battuta perché Giacchè è un antropologo e anche io ho una vocazione, o persuasione, o formazione antropologica (anche perché, se non soltanto, in gran parte è con lui che mi sono formata durante gli anni della frequentazione dei corsi universitari); secondo poi, prima di incontrare Bene e scriverci su, Giacchè ha frequentato la scuola di Antropologia Teatrale dell’ISTA (International School of Theatre Anthropology) fondata da Eugenio Barba.
La produzione scientifica degli studiosi e delle studiose che si sono formati/e in quel contesto si rivela, a mio avviso, più interessante ed efficace di ogni altra. Efficace nel senso che riesce ad avvicinarsi all’essenza delle arti o degli artigianati teatrali senza semplificare la complessità fenomenologica, ma offrendo chiavi di lettura intellettualmente oneste e, per dirla in gergo teatrale, assolutamente credibili. Non “credibili” nel significato che si usa attualmente nello spettacolo per dire per esempio che il politico di turno può essere ritenuto degno di fiducia da una massa di creduloni, ma nel senso che usava Stanislavskij per constatare la vera vita di un gesto umano a teatro.
C’è dunque la verità, perché forse è ora di tornare a dare credito alle scienze anche umane, non in quanto “credo”, ma in quanto potatrici di metodi che (capisco la riluttanza a dirlo dopo i totalitarismi e/o i relativismi) possano condurre a delle verità; c’è anche la vita dell’essere umano, perché ogni studioso che ha frequentato Barba e l’ISTA, di persona o sui documenti, conosce e probabilmente condivide la definizione di teatro che più o meno recita «Il teatro sono gli uomini e le donne che lo fanno» e che, personalmente, mi sento di condividere, pur reputandola non una definizione, ma una presa di posizione politica.
marialuisasementilli1@gmail.com
L'autore
- Maria Luisa Sementilli è specialista in Beni demoetnoantropologi e ricercatrice indipendente; ha studiato presso l’Università degli Studi di Perugia frequentando l’ambiente antropologico perugino che ruotava attorno alla persona di Tullio Seppilli. È coordinatrice del GTA (Gruppo Teatro e Antropologia). Ha pubblicato due contributi inerenti all’antropologia del teatro e dello spettacolo a partire dal 2021 (Vedere Bene: nota sullo sguardo antropologico, in «Civiltà e Religioni», n. 7, 2021, pp. 369-377; Incontrare teatro, in D. Parbuono - M. L. Sementilli (a cura di), Antropologia e patrimoni. Formazione di competenze e di professionalità, Pàtron, Bologna, 2023, pp. 185-198).