Interventi

Ognuno scrive al comandante. Lettere della famiglia de Marchis a Gabriele D’Annunzio

«Tu devi sapere che sei giunto in una città pericolosa per i tuoi giovani anni.»
(Giovanni Comisso, Il porto dell’amore, Milano, Longanesi, 1959, p. 193)

Che Gabriele D’Annunzio occupi un posto centrale nell’immaginario della borghesia abruzzese dei primi anni del Novecento non stupisce. È, però, curioso che, nell’arco di circa un ventennio (1919-1937), ben tre membri di una famiglia aquilana indirizzino all’autore de Il piacere almeno quattro lettere. Se la prima testimonianza di questo carteggio è andata perduta e la sua esistenza si può solo indirettamente ipotizzare, sono conservate nell’Archivio del Vittoriale le lettere manoscritte di Ranieri de Marchis (Nerino) e della moglie Maria Maddalena Leoni (Lena), rispettivamente del 1919 e del 1937. Una copia del dattiloscritto inviato da Milano nel 1926 dal fratello maggiore di Ranieri, l’avvocato Serafino de Marchis, è invece in possesso dei familiari. È da escludere che il poeta pescarese abbia mai risposto ma questa piccola corrispondenza appare, comunque, interessante perché contribuisce a rivelare la sensibilità e il gusto di un’epoca non a caso definita dannunziana.

Lena il giorno delle nozze (1929). Collezione privata De Marchis
Lena il giorno delle nozze (1929). Collezione privata De Marchis

Indipendentemente dal mittente, al centro dell’intero carteggio c’è sempre la figura di Ranieri de Marchis, l’ultimogenito di Michele de Marchis e Giuseppina Bonanni, nato a L’Aquila il 21 maggio del 1901.

È lui che, poco più che diciottenne, scrive da Fiume al Comandante, chiedendogli di essere trasferito nella Compagnia D’Annunzio, la Disperata – un reparto formato da oltre duecento giovani volontari e veterani arditi, costituito con l’obiettivo di inquadrare gli elementi più esaltati – per «battersi ed anche morire per Fiume e per il suo valoroso difensore».

Ranieri è tra i primi abruzzesi a raggiungere il poeta in Istria; scappa di casa e, grazie a un foglio di via, raggiunge Brindisi, dove si imbarca su un veliero. Da una lettera inviata alla madre, sappiamo che il 21 settembre del 1919 è già a Venezia, determinato a raggiungere la città olocausta, dove effettivamente arriverà sei giorni dopo. Ma cosa porta questo giovane a Fiume? Certamente il desiderio di difenderne l’italianità ma non va sottovalutato il fatto che, «per gli adolescenti della media e alta borghesia, cresciuti nel culto della guerra, la rivolta dannunziana rappresenta l’occasione di un riscatto generazionale» (Simonelli 2021: 73). Come scrive Paolo Cavassini a proposito di un altro giovanissimo legionario, «l’invidia e lo spirito di emulazione nei confronti dei fratelli maggiori» (2008: 18) spingono chi, per ragioni anagrafiche, non aveva avuto la sua opportunità di eroismo ad aderire alla causa fiumana. Da questo punto di vista, i tre fratelli maggiori di Ranieri – Serafino, Alfonso e Vittorio – la guerra, in effetti, l’avevano fatta e, come scriverà Lena a D’Annunzio nel 1937, gli ultimi due erano anche stati fatti prigionieri («con onore»). Ranieri, nato nel 1901, arriva troppo tardi all’appuntamento bellico e, arruolandosi come volontario, deve accontentarsi di indossare la divisa da bersagliere ciclista per pochi mesi, per giunta ben lontano dal fronte. Fiume è, dunque, la sua occasione per raccogliere «l’eredità morale della trincea» (Cavassini 2008: 19) ed è chiaro che, in una città che ben presto si configura come luogo mitico del riscatto nazionale, Ranieri subisce il fascino dell’aura del Comandante e della sua retorica pericolosamente incantatoria; «un’energia plasmatrice che non ha l’uguale» – come scriverà Thomas Mann, che pure disprezza lo scrittore italiano – «capace come nessun’altra di suscitare entusiasmi» (1997: 574) e muovere all’azione i suoi seguaci che, «in virtù di educazione o di nascita, sentivano troppo meschina la realtà della loro patria» (Asor Rosa 1975: 1091), spronandoli a un atto eroico e risolutivo.

Ranieri de Marchis (è il terzo da sinistra della prima fila) e D'Annunzio a Fiume (Natale 1919). Collezione privata De Marchis
Ranieri de Marchis (è il terzo da sinistra della prima fila) e D’Annunzio a Fiume (Natale 1919). Collezione privata De Marchis

Se l’irrequietezza adolescenziale di Ranieri appare riconducibile anche all’interventismo di matrice studentesca che caratterizzava la società aquilana dell’epoca e a cui i fratelli de Marchis non furono estranei (Serafino, per dire, la sera del 10 agosto del 1916, tiene al Teatro Orfeo un appassionato discorso in memoria di Cesare Battisti), è nel solco dell’arditismo fiumano – da D’Annunzio celebrato come esempio d’eroismo, che si afferma attraverso azioni sublimi e gratuite – che va inquadrata la biografia di Ranieri de Marchis negli anni Venti: prima l’adesione al Fascismo e la militanza nelle squadre d’azione, poi la marcia su Roma; successivamente il reclutamento nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e, quindi, nel 1923, la partecipazione alla campagna di riconquista della Libia con la partenza come volontario con la 132a Legione “Monte Velino”. In ogni scelta di Ranieri traspare, pertanto, la matrice dannunziana e, se si considerano i celebri raid aerei del poeta nella Prima Guerra Mondiale, la sacralizzazione degli aviatori, l’uso spettacolare dell’aviazione a Fiume e, infine, nel 1925 la nomina onorifica di D’Annunzio a generale di brigata aerea, non sorprende ritrovare nel 1926 Ranieri arruolato nella Regia Aeronautica e iscritto alla scuola di volo di Cameri. Qui, il 27 aprile del 1926, l’aviere aquilano riuscirà a volare per la prima volta, pilotando un monoplano per 16 minuti a circa 150 metri d’altezza.

Ranieri de Marchis alla scuola di volo di Cameri (marzo 1926). Collezione privata De Marchis
Ranieri de Marchis alla scuola di volo di Cameri (marzo 1926). Collezione privata De Marchis

È solo la premessa, però, al rovinoso incidente di volo di cui sarà vittima poche settimane dopo e che segnerà la fine della sua carriera da aviatore. Il 16 luglio, infatti, Serafino, che era andato a trovare il fratello minore ricoverato all’ospedale militare di Novara, scrive da Milano al Comandante per chiedergli una parola di conforto, che possa carezzare le «ali ferite» del suo fedelissimo legionario.

Giuseppina Bonanni con i figli Serafino e Ranieri de Marchis all’ospedale militare di Novara (1926). Collezione privata De Marchis
Giuseppina Bonanni con i figli Serafino e Ranieri de Marchis all’ospedale militare di Novara (1926). Collezione privata De Marchis

Riformato e considerato inabile alla carriera militare, Ranieri fa definitivamente ritorno a L’Aquila, dove viene assunto all’ufficio Economato del Comune e dove lo ritroviamo tra i confidenti dell’ufficio politico della questura. Nella città natale, morirà di polmonite il 4 dicembre del 1936, non prima, però, d’aver sposato nell’ottobre del 1929 Maria Maddalena Leoni.

La lettera al Comandante che Lena scrive il 20 gennaio del 1937 è, senza dubbio, la più interessante di questo piccolo carteggio. Molto più colta del marito – Lena è la prima donna a diplomarsi nella sezione fisico-matematica dell’Istituto tecnico dell’Aquila (Colapietra 2017) e, dopo essersi laureata in Matematica all’Università di Roma, per anni insegnerà in diverse scuole aquilane – nel 1936, nel giro di pochi giorni, la donna perde prima Gabriella, l’ultimogenita di 14 mesi, e poi il marito, rimanendo sola con tre figli di sei (Giorgio), quattro (Maria Virginia) e tre (Alberto) anni. È una lettera breve, intensa ma anche ambigua, in cui la vedova ricostruisce per D’Annunzio la vita del marito, «arditissimo di ogni impresa eroica» ma, dopo l’incidente di Cameri, anche «schiavo del suo corpo» e avvilito dal grigiore di un’esistenza da «piccolo impiegato d’ordine che giorno per giorno muore un poco per l’abisso incolmabile tra lo spirito vivo e la necessità tiranna».

L'ultima foto di Ranieri de Marchis con la figlia Gabriella (1936). Collezione privata De Marchis
L’ultima foto di Ranieri de Marchis con la figlia Gabriella (1936). Collezione privata De Marchis

È ragionevole supporre che Lena si trovi ora in difficoltà economiche (solo nell’ottobre del 1937 vincerà il concorso che le consentirà di essere assunta in ruolo) ma non scrive per ricevere sostegno materiale; la moglie di Ranieri chiede al poeta solo «una parola vivificatrice», in grado di spiegare ai tre orfani l’idealismo adamantino del padre che non conosceranno mai. Vi è, quindi, certamente il desiderio di trasmettere ai figli un ricordo vitale ed eroico del marito ma Lena, molto più di Ranieri e Serafino, pare non subire il fascino del poeta e si direbbe, anzi, aver compreso come il mito di D’Annunzio sia stato «anche, se non soprattutto, una costruzione cosciente perseguita da D’Annunzio stesso, il quale mirò a fare di se stesso un mito» (Alatri 1988: 9). Ecco allora che, al tramonto di un’epoca (afflitto dalle miserie della vecchiaia e da un’irreversibile crisi creativa, nel marzo del 1938 morirà anche l’autore di Alcyone), sul cadavere di un uomo irrequieto e infelice, al cospetto delle macerie di una vita drammaticamente conclusa e inconcludente, si consuma una resa dei conti tra il Vate e una supplente di matematica che, velatamente, sembra chiedergli conto «di quell’eroismo fine a se stesso che nulla chiede e nulla ottiene».

giorgio.demarchis@uniroma3.it

Bibliografia
Alatri, Paolo, D’Annunzio mito e realtà, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 1993.
Asor Rosa, Alberto, La cultura, Storia d’Italia, vol. IV, Dall’Unità a oggi, tomo II, Torino, Einaudi, 1975.
Cavassini, Paolo (a cura di), Gastone Canziani, A Fiume con D’Annunzio. Lettere 1919-1920, Ravenna, Longo Editore, 2008.
Colapietra, Raffaele, L’Aquila 1860-1918. Liceo ginnasio e istituto tecnico: un percorso parallelo, Avezzano, Edizioni Kirke, 2017.
Mann, Thomas, Considerazioni di un impolitico, Milano, Adelphi, 1997.
Simonelli, Federico Carlo, D’Annunzio e il mito di Fiume. Riti, simboli, narrazioni, Pisa, Pacini, 2021.

L’autore desidera ringraziare per le preziose indicazioni la Dott.ssa Annalisa De Santis e, per il supporto archivistico, il Dott. Alessandro Tonacci e la Dott.ssa Roberta Valbusa, della Fondazione Il Vittoriale degli italiani.

 

I
Fondazione Il Vittoriale degli Italiani – Archivio Fiumano serie corrispondenza, De Marchis Rainero.

Comandante,
comprendo che scrivendole commetto un atto di indisciplinatezza e che forse andrò a finire in prigione, tanto più che è già la seconda volta che le scrivo, ma non me ne curo, visto che più miei tentativi sono riusciti vani mi rivolgo nuovamente a lei fiducioso di essere esaudito. Ciò che le chiedo come una grazia è di essere trasferito nella Compagnia D’Annunzio, desidero ciò per due ragioni, anzitutto perché tale compagnia in caso di bisogno saprà battersi ed anche morire per Fiume e per il suo valoroso difensore, e poi perché vi sono molti amici ed antichi camerati, come le ripeto sarei felicissimo di essere accontentato quindi mi rivolgo a lei quasi sicuro di ottenere il trasferimento tanto agognato, ringraziandola anticipatamente

Suo devotissimo
De Marchis

Caporale Rainero (sic) de Marchis
Legione Volontari Fiumani
Compagnia Noferi
2° Plotone
Fiume d’Italia – 24-12-1919

II

Avvocato Serafino de Marchis
Milano (13) – Via Monforte n. 27
Telef. 22-316

Avvocato Serafino de Marchis
Via Torino n. 47 – Telefono 87-123
Milano

Comandante,
un mio fratello giovanissimo – l’ultimo: il cuore di mia Madre Vedova – RANIERI DE MARCHIS, dall’Aquila degli Abruzzi, uno dei Vostri fedelissimi legionari, è caduto dal cielo di Novara.

Giace in quell’Ospedale Militare: col braccio destro fratturato e la gamba contusa. Soffre ma non si lamenta. La sua giovine anima eroica e il suo coraggio sono illesi.

Carezzate – Vi prego, Comandante – con una Vostra parola le sue ali ferite.
Milano 16 luglio 1926

III
Fondazione Il Vittoriale degli Italiani – Archivio Fiumano serie corrispondenza, De Marchis Ranieri.

Comandante,
una fiamma purissima si è spenta: Ranieri de Marchis di Aquila, legionario fiumano, arditissimo in ogni impresa eroica, idealista adamantino:

Ha 16 anni quando la sua troppo palese adolescenza sventa un tentativo di arruolamento clandestino – si è nel 1917 e due suoi fratelli sono, con onore, caduti prigionieri – è rimandato a casa e l’anno seguente ottiene di vestire la divisa come volontario bersagliere ciclista e fa servizio di sorveglianza lungo la costa Adriatica; il suo cuore esulta ma viene l’armistizio… Il rogo fiumano lo avvince ed è arditissimo di Fiume e lì, fanciullo tra i veterani della guerra, ancora caldo delle carezze della madre, dà prova di virilità e di inesauribile amor di Patria; e per la causa fiumana è prigioniero a S. Palazia in Ancona e merita un encomio solenne al suo ritorno alla città olocausta; tra i suoi ricordi luminosi l’incontro con Voi da un armaiolo; tra i suoi cimeli il temperino che Voi stesso gli donaste in questa occasione per “sturare la bottiglia della vittoria”.

Finisce l’impresa fiumana, le squadre di azione lo entusiasmano: è a Napoli pronto alla chiamata del Duce, è a Roma, a S. Lorenzo, quando l’Italia reclama l’ardire dei figli migliori per la sua salvezza.

E l’episodio tragico e grandioso volge al suo epilogo: è in Libia che si deve ripristinare il prestigio d’Italia ed egli veste la divisa coloniale e parte col battaglione; ritorna in Patria dopo un anno malato di malaria. Ma ormai è la sosta, la necessità di pensare alla vita quotidiana: lo spirito ha bisogno ancora di espandersi, come provvedere senza sentirsi tarpate le ali? L’aviazione.

E va a Cameri, al campo scuola, prende il brevetto su monoplano e dopo pochi giorni in allenamento su biplano, è stroncato.

Povero corpo martoriato! ritorna in vita ma le sue ali sono infrante: è dichiarato riformato permanentemente per ogni servizio militare ed a 26 anni si sente schiavo del suo corpo e, soprattutto, del suo sogno irrimediabilmente svanito.

E, nel fiore della giovinezza, quando il sangue con maggior veemenza pulsa nelle vene diventa il piccolo impiegato d’ordine che giorno per giorno muore un poco per l’abisso incolmabile tra lo spirito vivo e la necessità tiranna. Unica letizia: quattro gemme rigogliose dal tronco arricchito di linfa finissima. Ma la sofferenza non ha ancora termine: l’ultimo bocciolino muore a 14 mesi colpito da polmonite influenzale e il suo cuore generoso si schianta dopo 10 giorni colpito dallo stesso male lasciando me, povero fascio di aridi sterpi, a custodia delle nostre tre creature di 6, 5, 3 anni.

Ed è per esse, Comandante, che ho osato scrivervi, per esse che giunte alla giovinezza devono sentire la pura fiamma che ha idealizzato la vita del Padre loro e lo ha reso eroe di quell’eroismo fine a se stesso che nulla chiede e nulla ottiene. A loro, Comandante, mandate una Vostra parola vivificatrice che sia apoteosi del puro spirito del Padre e scintilla che accende nelle loro anime la stessa purissima fiamma.

Il dolore che tormenta e opprime mi fa osare chiedere tanto.

Lena De Marchis
L’Aquila, 20 gennaio 1937 (XV)
Via Indipendenza 21

L'autore

Giorgio De Marchis
Giorgio De Marchis
Docente di Letterature portoghese e brasiliana presso il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere dell’Università degli Studi Roma Tre. Nell’ambito delle sue ricerche ha privilegiato lo studio di autori, movimenti culturali e opere del XIX e del XX secolo. Ha pubblicato un volume sul romanzo d’appendice nel Portogallo finisecolare (E… Quem é o autor desse crime? Il romanzo d’appendice in Portogallo dall’Ultimatum alla Repubblica, Milano, 2009) ed edizioni critico-genetiche di poeti modernisti quali Mário de Sá-Carneiro (O Silêncio do dândi e a morte da esfinge, Lisboa, 2011 e José Régio. Ha organizzato antologie di scrittori brasiliani (Apocalisse. Alle origini della fantascienza latinoamericana, Roma, 2014) e lusofoni (Lusofonica. La nuova narrativa in lingua portoghese, Roma, 2006) e ha tradotto per diverse case editrici italiane scrittori angolani, brasiliani, mozambicani e portoghesi. Recentemente ha curato un volume che raccoglie le conferenze tenute in Italia da José Saramago (Lezioni italiane, Roma, 2022) e un volume di studi dedicato alla poesia di Agostinho Neto (Noi dell’Africa immensa. Nuove letture della poesia di Agostinho Neto, Roma, 2022).