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Il canto funebre

Nella coscienza popolare la morte non chiude definitivamente il ciclo della vita; è un avvenimento di transizione che implica la separazione dal mondo dei vivi e l’unione a un altro, quello dei morti, diversamente rappresentato secondo le civiltà e le religioni dogmatiche o popolari.

Le pratiche o credenze più diffuse vengono regolate dal meccanismo dei riti di passaggio, che si possono classificare nelle tre fondamentali suddivisioni:

– riti di separazione (il distacco del cadavere dalla casa, il suo trasporto processionale al luogo della sepoltura e il pugno di terra sulla tomba: scene rituali che danno azione materiale al dramma);

– riti di sospensione o attesa (la veglia funebre, l’esposizione del cadavere in casa e in Chiesa, il lutto);

– riti di aggregazione (l’apertura della finestra subito dopo la morte, per permettere all’anima di volare in cielo, l’uso di volgere i piedi della salma verso la porta per prepararlo al viaggio d’oltretomba, il passaggio nell’aldilà con una moneta posta nella cassa e/o nel pugno del defunto, l’ufficio liturgico che si recita in Chiesa, l’accensione dei ceri simbolo di quella fede che è stata espressa dal defunto quando era in vita).

Nella casa colpita dalla sventura accorrono tutti i parenti e gli amici intimi. La veglia funebre dura fino a quando la salma viene portata via, per preparare il momento culminante del distacco rinnovando la solidarietà consanguinea e territoriale dei gruppi familiari che vi partecipano nello svolgimento del dramma. La veglia funebre, dunque, costituisce uno stato intermedio, durante il quale il defunto rimane sospeso tra il regno dei vivi e quello dei morti.

In diverse Regioni dell’Italia meridionale sopravvive ancora oggi l’usanza del pianto funebre, già rispecchiata negli antichi poemi indiani e ampiamente documentata nel mondo classico.

Il pianto funebre, il cui nome differisce da regione a regione, viene eseguito o dai parenti più stretti o, dietro compenso, da “lamentatrici di mestiere”, chiamate anticamente prefiche e nella Roma medievale computatrici.

In Lucania, per esempio, il pianto funebre rivela una metrica irregolare, forse più arcaica, in cui si alternano ritmi prolungati con altri più brevi.

Il pranzo funebre, che ha luogo di regola dopo il ritorno dal cimitero, ha una funzione analoga a quella del pranzo di battesimo e di nozze: serve a rinsaldare l’unione degli individui e delle famiglie, nella nuova situazione che la morte ha fatto sorgere, con un’abbondanza di cibo e di vino. E poiché nella casa colpita dalla disgrazia non deve essere acceso il fuoco, sono i parenti e gli amici che provvedono a tutto il necessario.

Il lutto, infine, che prolunga il ciclo delle tradizioni relative alla morte, rappresenta una fase intermedia che gli intimi del defunto sono tenuti ad attraversare, prima di riprendere la vita normale: essa è caratterizzata da una serie di interdizioni (divieto di partecipare a balli e feste) e dall’obbligo di indossare un particolare abito (rigorosamente di colore nero) o dei segni speciali, che abbiano rispetto alla comunità valore pubblicitario dell’avvenuto decesso.

Non esiste una maniera uniforme di osservare il lutto: esso è rispettato secondo la parentela e varia da paese a paese. Il popolo non possiede intorno all’anima e alla sua sorte una dottrina logicamente costruita, bensì un ammasso confuso di concezioni, alcune animistiche, altre cristiane, le quali sono spesso differenti e contrastanti.

L’apertura delle finestre, subito dopo la morte, viene, per esempio spiegata diversamente: o per lasciare via libera all’anima, o per permettere alle altre anime dei morti di venire a visitare per prima il defunto. É assai diffusa la credenza che l’anima trasmigri in corpo di bestia: i morti possono trasformarsi in diversi animali, secondo la loro condanna nell’altra vita. La metempsicosi si pone così, accanto alla concezione cristiana dell’anima, come una forma di espiazione terrena e visibile della condanna data nell’aldilà. La credenza del ritorno dei morti sulla terra si riflette nell’usanza del 2 novembre, che consiste nel lasciare, in quel giorno o nella notte precedente, la tavola apparecchiata e il fuoco acceso, perché i morti, che vengono a visitare le loro case, possono ristorarsi.

Orientamenti storiografici hanno dato un’apertura storica e antropologica allo studio degli usi funebri, che si è peraltro esteso ad altri settori e comportamenti cerimoniali e commemorativi, finora trascurati, come le iscrizioni cimiteriali, le forme delle tombe, l’iconografia della morte, il rapporto tra vivi e morti come è stato e viene regolato dalle istituzioni religiose e come è stato e viene praticato in epoche e aree diverse.

Nella cultura egizia, ad esempio, è pregnante il tema della morte come dimostrato nelle testimonianze archeologiche. Fino al momento della morte di Osiride, gli dei erano considerati immortali. Gli Egiziani rievocavano la resurrezione di Osiride per mezzo di misteriose cerimonie su cui tutti gli antichi hanno serbato un religioso silenzio; tuttavia, interpretando con il Moret i testi delle tombe e dei templi, possiamo riuscire a farci un’idea, anche se probabilmente imprecisa, di come esse si svolgessero. Si trattava di veri e propri drammi sacri, di azioni sceniche, recitati di sacerdoti che rappresentavano gli episodi del mito di Osiride. Accanto alla statua rivestita dell’abbigliamento funerario, Iside e Nefti, in lutto, con i capelli sciolti e battendosi il petto, intonavano un compianto funebre diventato il prototipo di tutte le lamentazioni per i defunti umani: «O bel giovane, vieni a casa tua; io non ti vedo ma il cuore desidera unirsi con te, i miei occhi ti invocano. Vieni da colei che ti ama, che ti ama, o felice Uimofre! Vieni dalla signora della tua casa. Io sono tua sorella, figlia di una stessa madre, tu non devi stare lontano da me … ». Ben presto, la festa di Osiride diventò la festa di tutti i defunti e le lampade che si accendevano in questa occasione univano in un’unica luce tutti i morti con il divino precursore che per primo aveva mostrato come vincere il terribile destino. Benché la cerimonia avesse luogo proprio nell’interno della tomba, si cercava di dare ad essa un carattere lieto per rallegrare lo spirito del morto e alleviare la pena dei sopravvissuti. I parenti erano vestiti a festa, ornati di ghirlande di fiori; il banchetto era allietato da danzatrici e dalla presenza di un musico che intonava l’antico canto dell’arpista.

Anche per i Greci la morte era partenza, trasferimento, viaggio, difatti: i verbi “andarsene”, “allontanarsi”, “partire” sono comunemente in uso per indicare il distacco supremo. Ogni viaggio costa. Per tal motivo, si usava porre sotto la lingua del morto un pezzo d’argento o una moneta: era l’obolo, il prezzo da pagare al barcaiolo dell’aldilà, Caronte, che traghettava l’anima del defunto sulla corrente tetra dell’Acheronte. Subito dopo essere spirato, il defunto, diveniva preda di un complesso rituale. L’uso dell’acqua era fra gli elementi materiali di spicco in queste cerimonie, usata per detergere il corpo. Dopo il lavaggio, si procedeva alla vestizione e alla esposizione del cadavere su di una tavola mortuaria e un bacile d’acqua era posto davanti all’abitazione, perché i visitatori lo usassero come rito lustrale. Il trasporto funebre ad Atene avveniva, per una legge risalente a Solone, prima di levar del sole: certo per evitare che la morte contagiasse i raggi vitali dell’astro. I parenti lasciavano al loro caro, chiuso in una fossa, le prime offerte votive. Per colmare l’enorme vuoto che il defunto creava con la sua partenza, era necessario ricorrere a pratiche rituali atte a ricostruire una coscienza, una vita oltre l’angoscia umana. Difatti, il parente o amico in vivente preda del dolore era attore di una scena intrisa di magia con la quale simbolicamente morendo dimostrava al defunto la volontà di rinunciare a un’esistenza fattasi insopportabile. Anche i colpi vibrati al petto con i pugni erano rappresentativi di quel dolore che diversamente divine difficile spiegarlo. Ed è qui che si delinea l’ambiente del compianto funebre. Una cerchia di donne, una voce solista dolente che si prepara a orchestrare il canto lugubre. L’ambiente e il ritmo del compianto funebre era corale, cadenzato, avviato e disciplinato da un cantore “prepotente”. Banchetto funerario e compianto erano generalmente ripetuti il terzo, il nono, il trentesimo giorno dopo le esequie. I parenti in questo periodo si lasciavano crescere i capelli evitando accuratamente di pettinarli, le donne non toccavano cosmetici.

Nella cultura romana, invece, quando un romano moriva, i parenti lo deponevano sul pavimento, i piedi rivolti verso l’uscio e recitavano la conclamatio, una sorte di triplice appello a voce alta, rotta da grida e singhiozzi. In casa, in segno di lutto, si spegneva il focolare e sull’entrata veniva appeso un ramo di cipresso. Un parente lavava la salma, la spalmava di unguenti, un altro le infilava in bocca la monetina per pagare il traghetto a Caronte, nocchiero infernale. Il rituale romano non differisce da quello greco: donne che si strappavano i capelli, si piantavano le unghie nelle guance, scene di melodrammatica disperazione. La durata dell’esposizione della salma variava a seconda del grado sociale dell’estinto. Nel giorno del funerale il cadavere veniva messo su una lettiga e condotto al luogo della cremazione o della inumazione, con un gran corteo aperto dai suonatori di tromba seguiti tra un vivido lampeggiare di torce, dalle prefiche, donne ingaggiate nei funerali dei benestanti, perché piangessero lacrime mercenarie.

In molti paesi della Basilicata questi cerimoniali funebri sono ancora abbastanza in uso. C’è qualcosa che sopravvive alle umane vicende e si tramanda come un deposito sacro, di generazione in generazione fino ai più tardi nipoti: è l’anima del popolo espressa nei suoi riti. Molti riti si compiono durante l’attesa della morte: si contano i passi dalla porta al letto chiedendosi a ogni passo se il moribondo vivrà o morirà. Durante l’agonia il moribondo, adagiato ancora sul proprio letto (anche se per poco, perché non vi rimane più da morto) riceve la visita amichevole del sacerdote, mediatore del culto, che gli somministra l’olio degli infermi, un tempo chiamato estrema unzione.

Avvenuto il decesso, si dà inizio al pianto funebre, che assume però un carattere più spettacolare dopo la vestizione e sistemazione del cadavere. «Appena il morente cacciava l’ultimo respiro, ed il prete finita l’orazione di assistenza, ne dava notizia alla raccolta famiglia con la formula del “salute a voi”, tosto i parenti si gettavano sul caldo cadavere a piangere, a scipparsi (tirarsi) i capelli, a battersi con le mani sulla faccia e sulla testa, tanto che col pianto e con le grida si assordava il vicinato che subito per curiosità e per dolore accorreva, si affollava in casa del morto sino “in bocca all’uscio” e piangeva insieme alla famiglia e cercava di consolarla con atti e con affettuose parole» (R. Riviello).

E così prosegue, descrivendo i primi atti che si compivano: «frattanto le persone, o donne più anziane e le comari più adusate a tali sventure, si affrettavano a vestire dell’abito migliore il morto, prima che si raffreddasse e si stecchisse; e gli chiudevano gli occhi, gli legavano intorno al viso e per sotto il mento una “zaaredda” nera (fettuccia), per evitare che il morto non restasse con la bocca aperta e gli occhi vitrei, nonché, spalancati. Poi gli accomodavano i capelli e talvolta gli facevano anche radere la barba e unendogli le mani sul petto legate con fettuccia nera, gli mettevano tra le dita la corona o rosario di legno nero, solita ad usarsi per la cerimonia dei morti. Alle volte gli si metteva un piccolo crocifisso tra le mani o un messale: tutti simboli cristiani adoperati per agevolare la peregrinazione del defunto nell’aldilà; e se giovinetta un candido fiore di mesta poesia, quasi si fosse sposata con la morte» (R. Riviello).

Nella casa colpita dalla sventura accorrono i parenti e gli amici. I più intimi vi rimangono, spesso, per l’intera giornata. Vi si recano tutti i vicini, per quel senso di solidarietà che supera le comuni relazioni fra le famiglie del rione o del vicinato e spesso si estende al di là dei confini territoriali.

Il comportamento della classe contadina si accosta molto a quello di una società primitiva. Intanto si provvede a sistemare il cadavere. Si ha premura di chiudere gli occhi al morto per il pregiudizio che sia di cattivo augurio se una persona morendo rimane con gli occhi aperti, che potrebbero trasmettere, per via di contagio visivo, il male negli altri. Il cadavere viene lavato, di solito con acqua calda e alcool: l’atto non è però sempre considerato un rito di purificazione, dal momento che per molti è solo “un atto di pulizia”. La raccomandazione di lavare e curare il cadavere, contenuta nel sinodo Venosino del 1614, sembra dettata unicamente da ragione igienica: «Parochi monere debent consanguineos mortui, ut posteuquam anima illius egressa fuerit de corpore, illud lavari debeat, et anmino eta curari, ut quamdiu steterit super terram, non fetat, atque animad vertere Parochionos, ut corpora virorum a viris, mulierum autem a milieribus, laventur… » (I parroci devono ammonire i parenti del morto, in modo che dopo, l’anima dello stesso possa staccarsi dal corpo, il medesimo deve essere lavato e curato in ogni sua parte, in modo che per il tempo che sia sulla terra non emetta mal’odori e, i parrocchiani capiscono che i corpi maschili deceduti vengano lavati da uomini e quelli femminili da donne).

Si tolgono di dosso al deceduto, gli oggetti d’oro, anelli, orecchini, etc. Sotto il cadavere si sparge uno strato di carbonella e si mettono nella cassa foglie secche di granoturco. I visitatori gettano sul cadavere garofani e altri fiori e il profumo intenso degli stessi, in un ambiente chiuso e affollato rende spesso l’aria irrespirabile. Sui bambini spargono fiori e confetti. La veglia funebre, che dura generalmente fino a quando il morto viene portato via, prepara il momento culminante del distacco, rinnovando la solidarietà consanguinea e territoriale dei gruppi familiari che vi partecipano. Nel suo svolgersi, tale drammatica realtà costituisce uno stato intermedio, durante il quale il defunto rimane sospeso tra il regno dei vivi e quello dei morti. Durante la veglia si deve lasciare aperta la porta di casa per permettere a chiunque di adempiere il proprio dovere sociale: Attorno al feretro, esposto nel mezzo della casa, si dispongono le donne della famiglia, comari e vicine, con i capelli sciolti, che recitano preghiere in comune e iniziano il piagnisteo, tessendo le lodi del morto. Queste, vestite di lutto si raccolgono a poco a poco e si affollano fino all’ora dell’accompagnamento funebre. Nell’entrare si fanno innanzi per lo più scoppiando in pianti e grida, ai quali rispondono con maggiore scatto di dolore, i pianti e le grida delle persone di famiglia, che di tanto in tanto si alzano e si gettano sul morto a baciarlo ed abbracciarlo, con espressioni di strazio e di tenerezza, come se a furia di baci, lacrime e di fiato volessero richiamare al caldo della vita quel volto affossato, freddo ed impietrito. Gli uomini si riuniscono in disparte, nella stessa stanza, o in altra se vi è. Prima della tumulazione la salma viene portata in Chiesa per la benedizione. In Chiesa le donne e gli uomini si dispongono separatamente sui banchi posti ai lati della bara; anche durante la funzione si odono lamenti più o meno cadenzati e lunghi sospiri. La ripresa o continuazione del lamento, che ha luogo durante la funzione in Chiesa, è l’ultima debole traccia di un uso che in passato fu tanto radicato da provocare forti reazioni da parte del potere ecclesiastico. La Chiesa ha sempre combattuto il lamento funebre, facendo divieto ai parenti e soprattutto alle donne di partecipare ai funerali, giungendo in certi casi sino alla scomunica: in ogni caso essa ha rinunziato a influenzarlo, a trasformarlo e a combinarlo con elementi propri, come ha fatto per altri pagani costumi.

Nella vasta prospettiva di questo problema, il lamento funebre lucano documenta in modo esemplare un caso limite di resistenza pagana all’annuncio del Cristianesimo cattolico e della sua Chiesa. Quali sono le ragioni di questa resistenza e di questa opposizione, come si è atteggiata a questo riguardo la politica culturale della Chiesa, perché mai per altri istituti e costumi pagani è stato possibile il sincretismo pagano – cattolico e addirittura una più o meno profonda e organica plasmazione nel senso della ideologia religiosa cristiano – cattolica, e infine in che misura queste traversie della cristianizzazione delle campagne, sono da attribuire alle condizioni di arretratezza economica e sociale: sono questi i problemi che lo storico è chiamato a risolvere con una esplorazione ma anche con profonda passione per la verità dei fatti.

È interessante inoltre ricordare anche la struttura del lamento funebre che si articola in tre momenti distinti: la gestualità del corpo (sbattere violentemente i pugni al muro o al tavolo), le urla sempre più crescenti ed infine il canto vero e proprio rappresentante il dolore. Appena avvenuto il decesso, ha luogo il parrossismo, cioè la scarica di impulsi mimici, il gridato e l’ululato. Le lamentatrici si sciolgono le chiome, si graffiano a sangue le gote, saltano, si gettano a terra, buttano la testa contro il muro; tuttavia questo comportamento così eccessivo non è del tutto incontrollato e, per quanto possa rischiare di diventarlo o lo divenga di fatto per qualche istante, in generale si fa valere fin dalla prima più caotica fase del cordoglio una tal quale regia moderatrice, in modo da non farsi troppo male o da non prolungare troppo nel tempo le manifestazioni più pericolose. A un dato momento, la tensione parossistica cade in modo brusco e subentrano le stereotipie: il gridato e l’ululato si articolano in moduli verbali e melodici e la gesticolazione disordinata si risolve in moduli mimici, gli uni e gli altri fissati dalla tradizione. Mentre nel momento parossistico il cordoglio pare recedere verso il caos psichico, nel momento delle stereotipie esso tende a diventare impersonale e a risolversi nella interazione meccanica di rigidi modelli convenzionali: si ha l’impressione di un pianto senza anima, inattuale, destorificato, che ha insieme qualche cosa della sequenza rituale e della trance medianica. La sequenza mimica apre, accompagna e chiude ciascun versetto della melopea: la fine di ciascun brano mimico, coincide con la fine della frase melodica e del periodo verbale, nel quale viene espresso un certo pensiero o affetto.

Il lamento può essere cantato a una sola voce o a più voci, assumendo in quest’ultimo caso una sorta di andamento responsabile in cui le voci si inseguono e si sovrappongono. Nel momento in cui l’evento della morte sporge, per così dire, con maggiore evidenza in tutta la sua irrevocabile storicità, il lamento assume toni particolarmente drammatici con ritmi o ricadute sul piano parossistico.

Tutto questo “cerimoniale” è stato rappresentativo nel tempo fino agli anni ’80, successivamente questa forma di pietà popolare ha cambiato volto fino quasi a scomparire. Nella coscienza dei credenti e grazie alla forza del Magistero ecclesiale degli ultimi papi, da Paolo VI fino a papa Francesco, l’annuncio di una vita (risorta) dopo la morte ha conosciuto un rilancio positivo nella pastorale ordinaria dei fedeli specie quelli visitati dal lutto e dalla disperazione, invitandoli a rileggere in chiave di speranza, anche il mistero della fine della vita fisica. Difatti, la stima del Magistero verso la pietà popolare è motivata anzitutto dai valori che essa incarna. La pietà popolare ha un senso quasi innato del sacro e del trascendente. Manifesta una genuina sete di Dio e «un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante», la misericordia. (Direttorio su Pietà Popolare e liturgia). Considerazioni che fanno ben sperare in una vita oltre la morte stessa.

larocca_michele@tiscali.it

BIBLIOGRAFIA

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L'autore

Michele La Rocca
Michele La Rocca nato a Matera il 6 maggio 1977. Ordinato sacerdote il 26 giugno 2004.
Antropologo con Laurea Magistrale in Antropologia Teologica, conseguita nel 2004, e Dottore in Lettere con curriculum in Filologia Moderna, dopo aver conseguito Laurea Triennale in Letteratura, Arte, Musica e Spettacolo con curriculum Letterario. Attualmente, presta il suo servizio pastorale nell'Arcidiocesi di Matera-Irsina, ed è docente di Filosofia e Antropologia del Territorio e Seminario pratico di Religiosità Popolare presso ISSR "Pecci" di Matera. Svolge un lavoro di ricerca di stampo antropologico, in qualità di Assistente ecclesiastico presso l’Università degli Studi della Basilicata, ed è Coordinatore della Consulta diocesana delle Aggregazioni laicali. Responsabile dell’Ufficio Diocesano per la Causa dei Santi, e Delegato Arcivescovile per la Cultura, la Pastorale della Scuola, dell’Università e la Pastorale del Laicato.